Cap.5. Il gruppo di apprendimento.

Il gruppo di apprendimento è un gruppo come gli altri, ma con qualche particolarità. In via generale presenta gli stessi caratteri di tutti gli altri gruppi, ma in specifico esso è determinato da un compito originale: apprendere e far apprendere. Il gruppo di apprendimento ha, infatti, due obiettivi coesistenti: aumentare le proprie competenze come insieme, e facilitare l’incremento delle competenze di tutti i membri. Qui il gruppo è simultaneamente contesto e soggetto. Nel gruppo di lavoro, il fatto che tutti i membri contribuiscano in modo equivalente è un mezzo, che migliora la coesione e la performance. Il compito collettivo è al centro del gruppo di lavoro. Nel gruppo di apprendimento, il fatto che tutti i membri aumentino le proprie competenze è un obiettivo, la base stessa dell’esistenza del gruppo. Al centro di questo tipo di gruppo vi sono due fuochi: l’apprendimento collettivo e quello individuale. Questa specificità rende i gruppi di apprendimento più complessi e raffinati, da vivere e da gestire, dei gruppi di lavoro o di psicoterapia. Anche in questi ultimi infatti, al centro del gruppo troviamo un solo focus primario: la cura dei singoli. Gruppo di apprendimento significa apprendimento "di" gruppo e "in" gruppo. La formazione, pratica ormai largamente gruppalizzata, è l’attività nella quale il gruppo ed i singoli (compreso l’eventuale conduttore-formatore) sono chiamati ai maggiori sforzi, se vogliono ottenere buoni risultati.

5.1. Apprendimento come cambiamento.

Apprendere non è il reciproco di insegnare. Apprendere non è nemmeno un sinonimo di studiare. Questo verbo indica l’atto di prendere qualcosa di nuovo e di inserirlo nel campo mentale, psicologico e comportamentale dell’attore. Apprendere significa cambiare. Il termine apprendimento è spesso collegato a sinonimi o varianti come addestramento, informazione, formazione, sensibilizzazione, aggiornamento, qualificazione, riqualificazione, riconversione. Ma viene poco enfatizzato il suo legame essenziale col cambiamento. Il motivo di questa omissione diffusa è da ricercare primariamente nella profonda ambivalenza che si collega all’apprendimento come cambiamento. Il fatto è che gli esseri umani vogliono apprendere e cambiare per curiosità, per ambizione, per senso di responsabilità, ma insieme temono di apprendere per la paura di dover cambiare. Usando lo schema del campo lewiniano, possiamo descrivere la configurazione che precede l’apprendimento come il risultato, raggiunto al momento presente, dei processi e delle dinamiche delle forze in campo.

Fig.5

 

Apprendimento da inserire nel campo

Il gruppo ed ogni suo membro, al momento presente, sono portatori di un insieme di esperienze, conoscenze, capacità che sono state assemblate secondo il principio economico del minimo costo e massimo risultato. L’equilibrio quasi-stazionario attuale, raggiunto dal campo individuale o gruppale, è il frutto della sequenza di tutti gli equilibri precedenti, ed è stato raggiunto dallo scontro di forze attrattive e repulsive. Il lavoro di ricerca di una configurazione particolare al momento presente è faticoso, doloroso, rischioso, ma anche premiante e soddisfacente. Il soggetto (individuo o gruppo) è arrivato lì vivendo una sequenza ininterrotta di tensioni, processi, dinamiche intrapsichiche, interpersonali, gruppali e sociali. Si è arrestato alla configurazione presente che vede in equilibrio il desiderio di migliorarsi e la resistenza a cambiare, le soddisfazioni ed i disagi, la competenze e le lacune. Il campo presente è ciò che il soggetto è riuscito ed ha potuto raggiungere. Anche se dall’esterno possiamo criticare la configurazione attuale, considerandola carente o insoddisfacente, il soggetto la vive come il risultato ottimale fra vincoli e possibilità. Per la forte capacità di adattamento di ogni organismo umano, ciò avviene di fronte ad ogni tipo di situazione. Persino in carcere, in una condizione di infermità, in contesti familiari, sociali o di lavoro proibitivi, il soggetto trova un equilibrio e vi si attesta. A volte anche una malattia, un comportamento autodistruttivo, una condizione vistosamente negativa appaiono tali all’osservatore esterno, ma per il soggetto sono esiti, i meno peggiori possibili, di un equilibrio fra forze contrastanti. E’ comunissima l’esperienza di "farsi venire la febbre" in prossimità di un esame; o la creazione di un clima teso e caotico in un gruppo che deve affrontare una difficoltà. La configurazione attuale, ove diventasse insostenibile, sarebbe cambiata. Finché però è accettabile, sia pure come minore dei mali, non solo viene conservata e difesa, ma addirittura investita affettivamente. I soggetti non sopportano a lungo l’insoddisfazione, la sofferenza, il fallimento anche quando ne fanno verbalmente una bandiera. E se la situazione è all’inizio poco soddisfacente, gradualmente essa viene accettata e stabilizzata, percepita come buona e difesa. Il soggetto ricerca nella sua situazione i lati vantaggiosi o meno insopportabili, e ne trascura gli elementi disperanti. Un lavoro brutto e sottopagato diventa meglio della disoccupazione. Un partner brutale è meglio della solitudine. La solitudine è meglio di una compagnia sgradita. Un gruppo in stato di anarchia è meglio che affrontare un penoso conflitto interno. E così via all’infinito, con giustificazioni razionali il cui scopo primario è salvaguardare dalla consapevolezza della propria condizione e difendere da un cambiamento che terrorizza. Anche il sapere inteso come insieme di conoscenze, abilità e competenze fa parte del campo, ed è sottoposto alle stesse regole. Ciò che so oggi è il risultato ottimale delle mie esperienze passate. Per chi mi guarda può essere poco o non abbastanza, ma per me è il massimo, anche se sento sempre una voce interna che mi stimola a migliorare il mio sapere. Ma ad opporsi sono la prospettiva della fatica da fare, dei costi da sopportare, dei rischi di fallimento da affrontare. Sono curioso e mi piacerebbe imparare la lingua araba, ma non ho il tempo, non so dove andare a imparare, non sono sicuro di esserne in grado. E poi imparare vuol dire ammettere che mi manca qualcosa, che per anni ho accettato una configurazione di sapere senza l’arabo: mi trattiene anche un senso di colpa, di tradimento verso me stesso che finora credevo di essere al massimo del sapere possibile. Ma ciò che veramente mi trattiene è il cambiamento. Imparare l’arabo significa infilare una cultura nuova nel mio campo culturale, modificare il mio insieme interno, affrontare i miei pregiudizi verso i "mori", magari anche arrivare a mettere in discussione la storia e la religione cui appartengo. In fondo, senza l’arabo sto benissimo.

Sarebbe bello e utile che il nostro gruppo imparasse a valutare le sue azioni. Però ciò potrebbe richiedere sommovimenti eccessivi nel campo gruppale, conflitti, riorganizzazione dei tempi abituali, relazioni diverse fra i membri, magari una redistribuzione del potere, fino alla minaccia del valutarsi l’un l’altro. E poi, imparare a valutare significa che finora abbiamo operato alla cieca? Il gruppo che ci sembrava tanto maturo, era in realtà uno struzzo, o un cieco?

La prospettiva di apprendere implica la minaccia di cambiare l’equilibrio quasi-stazionario raggiunto finora. Il campo del sapere, bello e fragile come la vetrata a mosaico di una cattedrale, deve fare posto a una nuova tessera, che occupa spazio, che deve incastrarsi con le altre tessere, che provocherà un piccolo sisma, produrrà nuove relazioni fra le regioni, nuove sinapsi fra e dentro i cervelli di ognuno. Chi garantisce che questo processo finirà in un equilibrio quasi-stazionario più ricco e non porterà invece alla frantumazione del mosaico? L’apprendimento è ipotetico, mentre il sapere attuale è certo. Fra l’odierna configurazione del campo e la futura, ci sarà comunque una fase di incertezza, insicurezza, ansia, fatica: perché affrontarla? E poi, apprendere significa anche ammettere una lacuna, un’imperfezione, un’insoddisfazione nell’equilibrio attuale, che fino ad oggi era stata negata. Apprendere vuol dire ammettere che la soddisfazione sentita finora era superficiale, evasiva, fittizia. Ciò alimenta il fantasma della colpa. Il soggetto finora si era sentito a posto. Ora sorge l’insinuante ipotesi che il sentirsi a posto non fosse che un’illusione, una copertura posticcia, una facciata consolatoria per sé e mistificante per gli altri. Apprendere significa accettare il sentimento di colpa derivante dalla scoperta delle proprie lacune. Apprendere significa anche dipendere dalla persona o dalla situazione da cui si trae l’apprendimento. Una condizione infantile che ogni adulto ritiene superata, minacciosa per la propria autostima. Dipendere implica fidarsi e affidare, sia pure in parte, ad altri o altro la propria configurazione di sapere. Ma avere fiducia in altre persone o situazioni esterne, può far emergere la sfiducia verso di sé.

Apprendere significa cambiare in piccola o grande misura il campo individuale e gruppale, rischiare la certezza per l’incertezza, accettare le lacune senza sentimenti di colpa, dipendere da una fonte di sapere nuovo. La sapienza orientale afferma che per apprendere occorre disapprendere, il che è vero anche in senso lewiniano. Le fasi del cambiamento indicate dal K.Lewin partono infatti dallo scongelamento, che altro non è se non una iniziale deformazione, arrivano al cambiamento e poi al ricongelamento in una nuova forma. La metafora potrebbe essere quella della statua di burro o di ghiaccio che tanti chef presentano ai banchetti. Per trasformare un uccello di burro o di ghiaccio in un pesce, non basta aggiungere delle squame di carta metallica. Occorre sciogliere, deformare e poi ricostruire e risolidificare la materia. In modo analogo Hillman afferma :"crescere, cioè discendere". A sottolineare come ogni apprendimento esige un cammino verso una direzione apparentemente contraria all’obiettivo. Se l’apprendimento è disapprendimento, deformazione e discesa, ciò spiega ancora meglio lo sbarramento difensivo che emerge all’inizio e poi ad ogni fase di un processo di apprendimento. Perché proprio di un processo si tratta, fatto di fasi e di continui avanzamenti, per ciascuno dei quali si presenta la prospettiva di un cambiamento.

5.2. Le fasi dell’apprendimento.

La prima fase è quella della curiosità, che consiste in un’informazione e una motivazione ad apprendere. Cosa spinge un soggetto a ricercare apprendimento o a rispondere positivamente ad una proposta di apprendimento? Basilare è l’informazione circa l’oggetto: non possiamo desiderare di apprendere ciò di cui non conosciamo l’esistenza o il profilo. D’altronde l’informazione richiede attenzione, disponibilità all’ascolto, percezione selettiva mirata. L’informazione viene recepita se esiste un atteggiamento di apertura. Cioè se in qualche modo la forma plurale del soggetto è predisposta con recettori adeguati. In un certo senso possiamo affermare che ogni soggetto recepisce le informazioni che sono meno eversive per il suo equilibrio quasi-stazionario, anche se ogni informazione inserita nel sistema è una potenziale minaccia. Da subito quindi entrano in gioco le difese: nel rifiuto preventivo, nella chiusura all’ascolto, nella bassa ricezione. Acquisita l’informazione circa l’esistenza di un oggetto da apprendere, il soggetto deve lasciare posto ad un’adeguata motivazione. Si può essere spinti verso l’apprendimento dal semplice desiderio di arricchire il proprio mondo interno, dalla voglia di far carriera, dall’imitazione di qualcuno che già possiede quel sapere, dal senso del dovere essere più adeguati. La o le motivazioni svolgono una funzione locomotoria ed attrattiva, ma la loro forza viene contrastata dalle difese: l’arricchimento può risultare inutile, la carriera può essere fatta anche senza la fatica di quel tipo di apprendimento, l’imitazione di qualcuno può avvenire su altri piani, il senso etico può essere tacitato.

La seconda fase dell’apprendimento è quella che alimenta le maggiori resistenze. E’ la fase che viene chiamata sensibilizzazione, che comprende l’ammorbidimento della forma, l’avvio di una de-coagulazione, la trasformazione in sensibile (capace di sentire) della forma solida precedente. Si tratta del momento di maggiore disequilibrio, di un movimento tellurico che allenta i confini, fa scricchiolare le regioni interne, inizia a scomporre il mosaico costituito. E’ lo scongelamento lewiniano.

In questa fase il senso del rischio di frantumazione è più alto. I costi del processo appaiono visibili molto più degli ipotetici ricavi. L’incertezza incrementa l’insicurezza. Appare l’angoscia del battello che si allontana dalla rassicurante riva, per affrontare il mare aperto, in direzione di una nuova, ma incerta e ancora misteriosa, costa. La tentazione di chiudere il processo, ritornare a riva, respingere le illusioni di vantaggi, sedare i sensi di colpa, è fortissima. Il cambiamento avviato rischia di trasformarsi in regressione ad una configurazione del campo soggettivo, meno evoluta di quella di partenza.

La terza fase del processo di apprendimento è quella dell’acquisizione. L’oggetto dell’apprendimento viene accolto, inserito nel campo soggettivo, in una sorta di magazzino temporaneo, dove lo attendono nuove sfide. In quale spazio del campo collocare il nuovo apprendimento? Quali relazioni fra le parti ricostruire? Quali parti dovranno spostarsi, restringersi o allargarsi? E’ la fase nel quale l’apprendimento può ancora essere espulso, e nel quale entrano in campo difese estreme. Allora si assiste alla interruzione del processo di apprendimento poco prima della fine: laureandi che non si laureano mai, ritiri alla soglia degli esami, interruzioni di percorsi di formazione ormai vicini al compimento. La reiezione di un apprendimento fragile, giunto alla fase finale, lascia tracce e ferite. Il campo soggettivo ha già iniziato a subire scosse e faglie, i confini e le barriere si sono già mobilizzati, alcune regioni si sono già espanse o contratte. Il lavoro di ricomposizione della forma precedente sarà più difficile tanto più avanzato è il processo di apprendimento. La quarta e ultima fase è quella che Lewin ha chiamato ricongelamento. La forma del campo, comprendente il nuovo apprendimento, viene riconfigurata. Il nuovo apprendimento viene limato e adattato fino a stabilizzarsi. In termini formativi questa fase viene definita come addestramento se consiste nella ripetizione e correzione dell’apprendimento raggiunto, o supervisione se si traduce in riorientamento conseguente all’applicazione. A volte appaiono in questa fase finale del processo, ulteriori difese. E’ il caso di chi ha imparato a suonare il piano, o una lingua straniera o uno sport, ma poi non coltiva questo apprendimento. Il sapere appreso viene gradualmente rimosso e sospinto in una specie di solaio, nel quale può sparire o dal quale può riapparire in particolari situazioni di motivazione.

5.3. Le difese più comuni verso l’apprendimento.

Elenchiamo ora e descriviamo le verbalizzazioni difensive più comuni, nelle varie fasi dell’apprendimento.

 

  • Non mi interessa, non ascolto, non leggo; non ho niente da imparare; sto bene come sono.

Queste frasi indicano una condizione di chiusura, di rifiuto a cambiare, di soddisfazione verso la forma soggettiva attuale. In alcuni casi questi atteggiamenti sono realistici, ma se accettiamo il postulato che il singolo e gli aggregati umani sono organismi a potenzialità infinite e fisiologicamente programmati per uno sviluppo perenne, allora ne percepiamo le valenze difensive. La chiusura è un meccanismo di difesa che porta all’isolamento, l’obsolescenza, l’entropia. Essa si basa sulla negazione dell’insoddisfazione e dei desideri. Sottostima il potenziale. Si tratta di una difesa che cristallizza l’esistente, impedendo l’accesso ad ogni novità.

 

  • Non ho tempo, non ho i mezzi, non ho le capacità.

Di fronte ad una prospettiva di apprendimento, il tempo, i mezzi e le capacità sono un realistico limite. Ma se queste dichiarazioni vengono estremizzate e diventano paralizzanti, siamo di fronte ad una difesa che delega la responsabilità di nostre scelte a fattori esterni o a elementi deterministici. Se un soggetto sceglie di acquisire nuove capacità, cioè le forze motivanti attrattive superano le forze difensive repulsive, il tempo ed i mezzi si trovano. Le capacità possono essere un vincolo oggettivo, ma solo in casi estremi di handicap motorio o intellettivo. Non esiste apprendimento che non possa essere affrontato, almeno a livelli modesti, da un soggetto singolo o gruppale: gli esempi empirici sono infiniti. Un individuo potrà non diventare Einstein, Michelangelo, o Schumaker ma può imparare i rudimenti della fisica, della pittura e della guida. Un gruppo può non arrivare a vincere l’Olimpiade o la coppa del mondo, ma può fare sport. Può non apprendere a suonare come i Berliner Ensamble, ma può imparare a suonare come una qualsiasi banda popolare.

 

  • Chi mi garantisce che imparerò?

La richiesta di garanzie circa il cambiamento è sempre una difesa del tipo "delega". Come se la felicità amorosa dipendesse dal partner, l’apprendimento dal maestro, la carriera dal datore di lavoro, il successo di un gruppo dall’organizzazione. Il cambiamento è una danza, il cui successo dipende da tutti i danzatori. L’apprendimento è un cambiamento del soggetto, la cui sovranità è l’unica garanzia. "Nessuno insegna a nessuno. Nessuno impara da nessuno. Tutti insieme impariamo, con la mediazione dl mondo" ha scritto P.Freire.

 

  • Perché devo imparare? Non sono già bravo così ?

Questo genere di affermazioni sorge da un sottile senso di colpa. L’ipotesi di apprendere viene associata ad un deficit, ad un lacuna, cioè alla colpa di essere inadeguati e non averlo compreso prima. Si tratta di affermazioni o di vissuti frequenti soprattutto nei casi di "apprendimento sul lavoro". Un individuo o un gruppo svolgono un lavoro e credono in buona fede di farlo nel migliore dei modi. La proposta di un nuovo apprendimento viene respinta, con una difesa di cristallizzazione, in quanto potrebbe provare che il lavoro svolto fin allora era inadeguato. Ciò che viene negato qui è lo scorrere del tempo, la variazione del contesto, la crescita stessa del soggetto. Ciò che veniva fatto ieri andava bene ieri, e ciò che può essere appreso oggi andrà bene domani.

 

  • Perché devo imparare qualcosa da te? Devi insegnarmi come e cosa dico io.

Questo genere di posizione viene raramente esplicitata. Più spesso si presenta in via indiretta, con la richiesta delle credenziali del formatore, con la svalutazione della situazione e del gruppo di apprendimento, con la competizione (ne so di più io, lo sapevo già, adesso vi spiego quello che volete che apprenda, ecc.). Il rifiuto dell’apprendimento viene girato sulla fonte dell’apprendimento, sia una persona o il setting o il metodo. A volte la sfiducia si esplicita con atteggiamenti di uscita dal ruolo: come il paziente che dice al medico cosa deve prescrivergli. Una dichiarazione di sfiducia e un rifiuto ad affidarsi, che sottendono una difesa dalla dipendenza ed una volontà di controllo. Come se il soggetto rifiutasse l’alterità, cioè la sostanza di novità dell’oggetto dell’apprendimento. Voler apprendere solo ciò che è controllabile equivale a voler apprendere senza cambiare. Per usare la tassonomia delle difese presentata nel Cap.3, possiamo ascrivere questa difesa al genere "separazione-distinzione". Il soggetto si distacca dalla situazione di apprendimento, esprimendo la sua sfiducia, e la sua paura, con parole o comportamenti.

 

  • Imparare vuol dire riempire la cartella.

Questo atteggiamento oscilla fra l’epistemofilia e il formalismo. Il soggetto in apprendimento chiede di essere invaso, riempito, travolto da una infinità di nozioni, sussidi, bibliografie, dispense, come se l’apprendimento fosse una questione di quantità, di bulimia conoscitiva. Oppure si esprime in un comportamento disciplinato, ossequioso, puntuale, preciso nella esecuzione delle consegne, informato: come se il rispetto delle regole garantisse un apprendimento naturale. A prima vista questi soggetti sembrano ottimi allievi. Diventa chiaro il loro difensivismo non appena la situazione richiede sospensione, riflessione, dubbio, autonomia e creatività. Amano le risposte degli altri e le proprie domande, ma rifiutano di riflettere e rispondere alle domande altrui. E’ una difesa efficientistica e di astrazione, che si esprime interpretando il ruolo del discente attivo, per evitare un apprendimento-cambiamento reale.

 

  • Voglio solo conferme, non novità.

Questa difesa è anch’essa tipica delle situazioni di aggiornamento o formazione per adulti "on the job". Tutto ciò che si presenta come novità e diversità viene respinto, mentre viene ascoltato e recepito solo ciò che è abituale, omogeneo o identico all’esistente. L’apprendimento come conferma del campo di forze esistenti è l’esatto contrario del cambiamento. E viene così concepito specialmente dai ruoli sociali o professionali più autorevoli: dirigenti, insegnanti anziani, primari ospedalieri, ecc. Oppure da gruppi collaudati da tempo e detentori di un certo potere o prestigio: consigli direttivi, organismi politici, task forces specializzate. L’approccio con cui questi soggetti si avvicinano all’apprendimento è quello di chi ha già ottenuto dalla società o dal contesto, un riconoscimento di adeguatezza. Se siamo in questa posizione sociale è perché siamo bravi, quindi non abbiamo niente da imparare. Apprendere per noi significa avere conferma delle nostre competenze già riconosciute. La difesa della cristallizzazione emerge di continuo.

5.4. La Funzione del gruppo nel processo di apprendimento.

Ciò che abbiamo descritto finora concerne i soggetti in apprendimento, sia singolari che plurali. Dal momento che i gruppi in apprendimento presentano difese analoghe a quelle dei singoli, come possiamo ipotizzare l’uso del gruppo in questo contesto? Se pensiamo al gruppo come un organismo, lasciato a se stesso, non v’è dubbio che le difficoltà di apprendimento aumentano. Ciò è del resto noto in tutte le classi nelle quali, alle normali difese individuali ad apprendere, si aggiungono i problemi posti dal gruppo dei coetanei, le cui dinamiche possono ostacolare, rallentare o deviare il lavoro dei singoli studenti. Il gruppo non è sempre un toccasana, uno strumento miracoloso. Può essere un pesante vincolo, un fattore di complicazione del processo di apprendimento. Il gruppo può, a determinate condizioni diventare un facilitatore e moltiplicatore dell’apprendimento. Le condizioni saranno descritte nel cap.6, ma consistono nel formare e gestire il gruppo come un dispositivo artificiale, come un organismo pilotato intenzionalmente. Possiamo usare la metafora del farmaco naturale o biologico, che ha una sua fisiologia, ma che, a certe condizioni, può essere utilizzato a beneficio del corpo. Laddove il gruppo è costituito e funziona a determinate condizioni, diventa un formidabile moltiplicatore di apprendimento. Esso infatti può svolgere funzioni decisive come forza attrattiva verso l’apprendimento o come forza attenuativa delle difese dall’apprendimento.

Il gruppo è uno spazio di appartenenza, di investimento emotivo e di identificazione. I singoli membri vengono aiutati a contenere le loro difese dall’apprendimento, perché apprendere è il fattore di partecipazione e coesione. In senso generico, affermiamo che il singolo è spinto ad apprendere dall’amore per il gruppo. In modo più preciso, affermiamo che il gruppo costituisce uno stimolatore emotivo della partecipazione; diventa una rete di legami che attraggono i singoli verso l’apprendimento; costituisce un riferimento identificatorio, imperniato sull’apprendere.

Una seconda funzione del gruppo nell’apprendimento è quella di fungere come normatore alternativo. La fase di regolazione, che ogni gruppo attraversa, seda le ansie del cambiamento, riduce l’angoscia di dispersione, struttura una nuova fonte di dipendenza funzionale. La regolazione (norme interne, tempi, ruoli, ecc.) del gruppo di apprendimento si pone dunque come forza antagonista delle difese, individuali e di gruppo. Da una parte il singolo e il gruppo si difendono dall’apprendere, dall’altra sono sospinti verso regole funzionali all’apprendimento. Stabilita una regolazione, questa diventa una sorta di nuovo Super-Io, di nuova legge, che si impone in modo più forte sulle leggi che valevano negli equilibri precedenti.

Una terza funzione del gruppo di apprendimento, intrecciata alle prime due, è quella di offrire una diminuzione dei sensi di colpa e dell’insicurezza, alimentati dal cambiamento. Apprendere, cioè cambiare, insieme con altri si accompagna ad una solidarietà, una condivisione, una cooperazione che possono attenuare il vissuto di tradimento verso il passato e di timore del futuro. Condividere il cambiamento è suddividere la colpa, i rischi e l’incertezza.

La quarta funzione è quella che vede il gruppo come spazio di rispecchiamento (J. Moreno, 1964) e di universalismo (I. Yalom, 1974). Ciascuno vede parti di se stesso negli altri e parti degli altri in se stesso. Ognuno si rende conto che le difficoltà, resistenze e difese sono universali, comuni a tutti gli esseri umani. Nel gruppo ogni singolo riscopre la propria pluralità, ma sperimenta che la originalità e diversità singolare, si accompagna ad una condizione umana universalmente simile. Questa funzione è particolarmente utile nelle fasi iniziali del processo di apprendimento, quando ogni singolo sente di avere difficoltà e resistenze del tutto personali . La scoperta che difficoltà e resistenze sono comuni a tutti, facilita il loro superamento.

Infine, la quinta funzione del gruppo di apprendimento, è quella di spazio di sperimentazione. In quanto microcosmo o "società incapsulata", il gruppo si presta ad essere considerato un simulatore del mondo. Quindi si offre a tutti i membri come spazio di sperimentazione, come palestra di allenamento, come macchina virtuale per esercitare i nuovi apprendimenti. Questa non è un uso improprio e manipolativo del gruppo, ma una funzione specifica del gruppo di apprendimento. La funzione assume particolare rilevanza nelle fasi mature e finali del processo di apprendimento, quando deve essere consolidato.

5.5. Apprendere contenuti, metodi, abilità e skills.

Tutto quanto detto genericamente sul gruppo di apprendimento cambia a seconda del tipo di apprendimento. Risulta intuitivo che il cambiamento e le conseguenti difese, correlati all’apprendimento delle capitali africane, hanno una qualità ed una forza diversa di quelli connessi all’apprendimento di un diverso modo di comunicare. L’apprendimento di informazioni è tendenzialmente meno intrusivo e minacciante dell’apprendimento di atteggiamenti o abilità psicologiche. Acquisire la capacità di andare in bicicletta è più minacciante che apprendere ad usare il telecomando, il che a sua volta è meno ostico che imparare i sette re di Roma. Perché? Possiamo affermare che l’apprendimento è tanto più temuto quanto più va a toccare regioni significative del campo; stimola tante più difese quanto più minaccia equilibri delicati; è tanto meno attraente quanto meno appaga bisogni significativi. Naturalmente le diversità non sono oggettive, ma soggettive. Un apprendimento che per un soggetto può essere marginale, per un altro può essere tellurico. Un apprendimento che per qualcuno è l’appagamento di un sogno, per altri è solo una digressione periferica. Schematizzando potremmo affermare che, in via generale, l’apprendimento di un contenuto cognitivo (conoscere la storia) coinvolge meno l’equilibrio di un campo soggettivo che l’acquisizione di una abilità strumentale (suonare il pianoforte). E quest’ultima è meno minacciante dell’apprendimento di una competenza psicologica (comunicare col pubblico). Lo schema si frantuma se il contenuto cognitivo riguarda temi altamente emotivi (la questione dell’Olocausto), o se la competenza psicologica è di tipo superficiale (ascoltare lamentele).

Prendiamo ad esempio la questione dell’apprendimento dell’uso del personal computer. E’ noto che fino all’adolescenza questo apprendimento è intuitivo, veloce, senza particolari problemi. Mentre lo stesso apprendimento in età adulta è ostico. Dal punto di vista psicologico, questa differenza si spiega con tre fattori: omogeneità dell’oggetto da apprendere rispetto al campo che apprende; vissuto simbolico dell’oggetto; familiarità del tipo di oggetto. In primo luogo, il computer è una macchina visiva, si esprime per immagini e colori, e sul visivo si fonda tutta la cultura giovanile odierna. Gli adulti provengono invece da una cultura uditiva (leggere ad alta voce) o manuale (costruire). In secondo luogo gli adulti vivono il computer come macchina magica, orco della foresta, sostituto del lavoro umano: tutti simboli impaurenti o repulsivi. I bambini e gli adolescenti invece vivono il personal come potenziamento di sé, gioco sofisticato, produttore di effetti senza sforzo: vissuti positivi ed attraenti. In terzo luogo gli adolescenti vivono il computer come macchina ludica, prolungamento dell’infinito numero di macchine ludiche cui sono abituati: dai pupazzi parlanti alle autopiste; dal walkman ai modellini telecomandati. Il rapporto con la macchina che hanno gli adulti è fatto di rispetto per il costo, di paura per la pericolosità, di timore per la fragilità.

L’apprendimento dell’uso del computer dunque è molto meno una minaccia all’equilibrio per gli adolescenti che per gli adulti.

Malgrado la soggettività e quindi la diversità caso per caso, fra gruppi e individui che apprendono, cerchiamo di analizzare i diversi problemi tipici, emergenti in ciascuna categoria di apprendimento.

L’acquisizione di conoscenze, cognizioni, concetti, teorie, dati, notizie e informazioni, è apparentemente un processo razionale e mnemonico. Capire e installare nel campo una informazione prima non compresa. Prima non sapevi una cosa, ora la sai. Molta informazione è accessoria, periferica, marginale, decorativa, superflua. E’ il sapere enciclopedico o enigmistico, dove ogni voce è accanto ad un’altra, e infinite nuove se ne possono aggiungere senza alterare significativamente l’insieme. La quantità di informazioni e conoscenze dell’uomo medio odierno è superiore a quella di tutti i filosofi di tutte le epoche precedenti. La società tardo-moderna non a caso è definita come "dell’informazione", e si basa sull’idea dei Lumi: leggendo tutto il sapere disponibile riunito in uno stesso libro, l’enciclopedia, l’uomo diventa migliore. L’idea si è rivelata poco realistica, o almeno non sempre vera, o vera a certe condizioni. Se l’informazione si inserisce nel campo soggettivo dell’acquisitore in modo da provocarne un’alterazione, cioè se l’apprendimento dell’informazione equivale al cambiamento della forma di chi apprende, allora abbiamo un salto di qualità. Se invece l’informazione viene posticciamente affiancata al campo, inserita in una sorta di "memoria temporanea", considerata a se stante, cioè esterna al sistema di sinapsi possibili, allora essa non assume significato diverso dal nozionismo, l’erudizione accademica, la cultura estetizzante. Recentemente ho letto, del tutto per caso, un libro sulla vita di Martin Luther King. Il libriccino è scritto in una forma avvincente e denso di informazioni, e dà emozioni come un film di avventura. Una notizia in particolare ha incrinato il mio precedente equilibrio interno, cioè è divenuta un apprendimento ristrutturante. Fra l’altro si tratta di una notizia che sicuramente avevo già nel mio magazzino, in quanto, quando è avvenuto il fatto avevo circa 20 anni e già leggevo i giornali. L’informazione è questa: gli Stati Uniti d’America hanno dato per legge il voto ai cittadini neri nel 1965! La prima volta che avevo ricevuto questa notizia, quell’anno stesso, avevo appena iniziato a indossare i blue jeans, ero un fan della musica rock ed ero pieno di ammirazione per gli studenti di Berkeley, che avevano dato vita ad un Movimento di critica della società capitalistica e della guerra nel Vietnam. Il dato del voto ai neri era stato dunque inserito in un quadro di ammirazione per l’immagine degli USA che avevo costruito dentro di me. Al punto da diventare marginale, come uno dei tanti aspetti positivi americani, e da entrare nel buio del mio magazzino dei ricordi dimenticati. Questa volta la notizia ha avuto l’effetto deflagrante di una scossa tellurica. Intanto, in un primo momento l’informazione mi è parsa nuova. Ho dovuto leggerla e rileggerla più volte perché non credevo ai miei occhi. Poi mi sono reso conto che dovevo già conoscerla e lentamente mi sono tornati alla memoria i giornali dell’epoca, con le marce non violente, lo sciopero dei bus a Selma, la strage di Birghingam. E l’immediato collegamento non è stato con l’America giovanile, hippy, e controculturale, ma con l’Impero che oggi domina il mondo e si erge a difensore universale dei diritti civili, entrando in guerra con tutti gli Stati che giudica "barbari". Di colpo ho avuto una visione ristrutturante del mio campo mentale ed ho collegato il voto dato ai neri solo 34 anni or sono, con l’embargo a Cuba ed alla Cina, la guerra del Golfo. E’ di questi giorni d’agosto 1998 la dichiarazione di Clinton di perseguire "ovunque e comunque" i colpevoli delle stragi in Tanzania e in Kenia e l’atto concreto di bombardare il Sudan e l’Afghanistan. Pensando al voto ai neri dato solo 34 anni fa, ho letto quella dichiarazione come un atto di arroganza e di spregio all’autonomia degli Stati. Cosa sarebbe successo se un’analoga strage consumata presso l’ambasciata del Camerun negli USA avesse spinto il Presidente di quello Stato a bombardare lo Utah? Trentacinque anni fa la notizia del voto ai neri è stata inserita superficialmente nel mio campo cognitivo ed emotivo, perché ne vedevo solo il lato congruente alla mia immagine degli USA. La difesa del mio equilibrio interno mi impediva di interpretare la notizia in modo diverso. Oggi, sbiadite gradualmente quelle difese, la stessa informazione è diventata un apprendimento decisivo per la ristrutturazione del mio campo. E non solo dal punto di vista cognitivo: non si tratta solo di una diversa forma delle mie conoscenze. Anche dal punto di vista emotivo ed etico, la mia percezione degli USA è ora molto più ostile.

Ciò che rende tale un apprendimento cognitivo, è l’insieme di connessioni, fra se e le regioni del campo soggettivo, che attiva. In questa ottica, la funzione del gruppo è evidente. Per le diversità che il gruppo di apprendimento contiene al suo interno, le connessioni possibili si moltiplicano e vengono rese evidenti a tutti. L’informazione del voto ai neri dato nel 1964, allora per me assunse un valore conservativo della mia forma cognitiva ed emotiva, ma se l’avessi avuta in un gruppo di apprendimento avrei dovuto confrontarmi con altri membri ai quali la stessa informazione dava reazioni diverse e per i quali assumeva un significato più ristrutturante. La stessa cosa poteva accadere durante la mia lettura dei giorni scorsi. Apprendere questa notizia all’interno di un gruppo, avrebbe messo la mia forma interna a confronto con le altrui e modificato, per un processo di scambio e confronto, il valore da me dato alla notizia. Tutto ciò indica anche che un contenuto non è mai una questione meramente cognitiva. Sulla base di un illuminismo ingenuo, la formazione fa continuo ricorso a metodi di insegnamento tipicamente cognitivi, come le conferenze. L’idea è che una informazione razionale o scientifica, comunicata in modo chiaro e persuasivo, non può che diventare apprendimento. L’esempio citato, dimostra come un contenuto cognitivo sia raramente svincolato, a meno che sia insignificante cioè privo di possibili connessioni, dal campo emozionale. Nell’apprendimento di informazioni avviene un cambiamento maggiore o aumentano le possibilità di cambiamento, se il gruppo funge da evidenziatore della pluralità dei significati possibili del contenuto da apprendere. E se il gruppo funziona come tessuto emozionale coerente.

L’apprendimento di metodi è quasi un apprendimento al quadrato. Non si tratta solo di un arricchimento della quantità di informazioni, ma dell’acquisizione di regole, procedure e percorsi che devono diventare stabili. Un metodo, per sua natura, ha meno possibilità di essere appreso superficialmente, perché il suo carattere è applicativo. Dunque o è appreso ed applicato, oppure no. Essendo il metodo una regolazione, esso è invasivo rispetto alle precedenti strutturazione e regolazione del campo. Apprendere un metodo di funzionare, di operare, di agire significa modificare i modelli di funzionamento ed azione precedenti. La minaccia di questo tipo di apprendimento rispetto all’equilibrio del campo è molto elevata e dunque le difese emergenti piuttosto solide. In questo caso, più di prima, la funzione del gruppo di apprendimento è decisiva. Consentendo un rispecchiamento fra i membri, e costituendosi come normatore alternativo, il gruppo facilita l’acquisizione di un apprendimento metodologico, che sarebbe assai più difficile da parte del singolo isolato. La cosa è ancora più evidente se pensiamo ad un metodo riguardante l’interno del gruppo (per esempio, il suo funzionamento o i suoi ritmi comunicativi). Se si tratta di apprendere un metodo esterno al gruppo, come un nuovo processo di cottura della ceramica, una diversa didattica della matematica, un più moderno sistema di contabilità, il gruppo può diminuire o ammorbidire le difese individuali, ma resta pur sempre un terzo intermediario fra il singolo e l’apprendimento. Se invece il metodo da apprendere riguarda il gruppo dall’interno, allora la sua funzione è cruciale. Il metodo può essere appreso dai singoli e dal gruppo, solo se il campo gruppale funziona adeguatamente come forza attrattiva antagonista delle forze difensive-repulsive. L’apprendimento di contenuti e di metodi esterni al gruppo è una situazione in cui l’oggetto da apprendere ed il soggetto che apprende sono relativamente separati. In genre vengono chiamati "gruppi etero-centrati" perché la loro attenzione è centrata su un oggetto altro dal gruppo. Relativamente separati perché, come abbiamo visto, ogni contenuto può attivare sismi interni anche a livello emozionale. Apprendere dati sulla economia boliviana è certamente più lontano dal livello emozionale che apprendere cos’è la tossicodipendenza, specie se il gruppo è composto da giovani che magari hanno già consumato stupefacenti. Ma certo sui contenuti e sui metodi esterni al gruppo è relativamente facile mantenere una distanza fra soggetto e oggetto dell’apprendimento. La situazione si complica molto quando entriamo nel territorio degli apprendimenti che riguardano un metodo interno al gruppo, e più ancora i processi e le dinamiche. Qui la separazione fra soggetto che apprende e oggetto da apprendere è sottile, quasi inesistente. Perciò parliamo di "gruppi autocentrati". Gruppi il cui focus è centrato sul gruppo stesso. L’oggetto dell’apprendimento riguarda da vicino il soggetto che apprende, e dunque ogni apprendimento è certamente un cambiamento dell’equilibrio, gruppale e individuale.

L’apprendimento di un metodo di lavoro, l’acquisizione di una certa familiarità coi processi relazionali e le dinamiche emozionali corrisponde alla consapevolezza di sé che ogni singolo cerca nel corso della sua vita. Il fatto è che un individuo può lasciarsi vivere anche restando a bassi livelli di consapevolezza, mentre un gruppo rischia molto di più. Un gruppo è un campo che richiede un’appartenenza costante, cioè un atto di scelta continuo. La sua esistenza non è data dal corpo, che funziona anche in modo automatico. L’esistenza di un gruppo è garantita dalla volontà dei membri, e questa si incrina se il gruppo si attesta su metodi, o attraversa processi e dinamiche, che non sono compresi e gestiti dai membri stessi. La consapevolezza per i singoli è una ricerca, per i gruppi è una pre-condizione.