Questo lavoro
è il risultato di una serie di riflessioni maturate a seguito
del seminario residenziale "Le attività di gruppo nella
scuola" svoltosi al Passo della Mendola dal 5 al 10 luglio 1976,
per iniziativa della Editrice La Scuola.
La caratteristica peculiare dell'esperienza consiste nel rapporto
numerico docenti/partecipanti e nei risultati ottenuti.
Lo staff docente era comporto da Elio Damiano, pedagogista, e da Guido
Contessa, psicosociologo. I partecipanti erano ben centoventi maestri
elementari.
Il problema principale che si presentava al momento della progettazione
del seminario era relativo al metodo didattico. Come era possibile
ottenere dei risultati significativi, in presenza di un rapporto così
alto fra docenti e partecipanti? Le regole tradizionali della formazione
degli adulti indicano un solo strumento possibile, in casi come questi:
la conferenza.
I docenti avrebbero dovuto alternarsi, dividendosi i vari argomenti,
in una serie di conferenze alla presenza di tutti i partecipanti.
Costoro avrebbero potuto prendere appunti, e poi fare domande o aprire
un dibattito di tipo assemblare.
1. L'IPOTESI
TRADIZIONALE
A questo modello,
che sembrava l'unico possibile, si opponevano almeno tre considerazioni.
La prima è che il livello di apprendimento sarebbe stato molto
basso, perché si sarebbe risolto in una serie di informazioni
sul tema. Non è che la trasmissione di informazioni sia un'attività
senza significato, ma presenta una serie di inconvenienti. Anzitutto
è provato che di fronte ad una comunicazione teorica, la quantità
di nozioni comprese ed apprese oscilla tra il 25% ed il 40% del totale.
C'è infatti un problema di linguaggio specialistico, nel quale
spesso cadono i docenti. Poi c'è il problema della distrazione,
che durante sei giorni di conferenza non può non apparire.
Infine c'è l'ostacolo della estraneità e quindi del
rifiuto ad ascoltare, essendo assai ridotte le possibilità
di interagire coi docenti. Oltre a queste considerazioni c'era il
problema di accettare come valide solo due fonti di comunicazione
(i docenti ) mentre venivano minimizzate altre 120 fonti di informazione,
cioè quelle dei partecipanti. Il famoso dibattito assembleare
che segue le conferenze, si riduce sempre a qualche domanda di chiarimento
o a qualche sproloquio narcisistico di due o tre partecipanti "d'assalto".
La seconda obiezione al modello tradizionale era che, anche accettando
come valido e obbligato, un ridotto livello di apprendimento di tipo
cognitivo. Cioè un modello simile avrebbe escluso in partenza
altri due tipi di apprendimento essenziali: quello emotivo e quello
strumentale. Al massimo si sarebbe ottenuto un aumento delle conoscenze,
ma senza alcuna modificazione delle capacità strumentali nè
degli atteggiamenti. Kurt Lewin, in un articolo scritto nel 1945 (K.
Lewin, I conflitti sociali, F. Angeli, Milano, 1972) diceva:
"Che la rieducazione (v.formazione) non possa essere soltanto
un processo razionale, lo dimostrano le difficoltà incontrate
nei tentativi di ridurre i pregiudizi o di trasformare la prospettiva
sociale di un individuo. Sappiamo che le conferenze o altri analoghi
metodi astratti di trasmettere la conoscenza non modificano essenzialmente
i modi di pensare e la condotta delle persone". E più
avanti: "Il pericolo che la rieducazione interessi esclusivamente
il sistema di valori ufficiali, il livello dell'espressione verbale
e non quello della condotta costante; e costante è il rischio
che il risultato si risolva in definitiva in un aumento della discrepanza
tra Super-Io (modo in cui dovrei sentire) e Io (modo in cui sento
la realtà) discrepanza che origina nell'individuo una cattiva
conoscenza. Ciò può suscitare un notevole stato di tensione
emotiva, che di rado provoca una condotta adeguata". Chi frequenta
spesso i seminari di aggiornamento sa quanto queste parole siano vere,
e come l'acquisizione più diffusa sia un aumento del livello
d'ansia invece che un apprendimento ed un cambiamento.
Il lavoro di gruppo, più che altri temi d'aggiornamento, è
quello che tocca non solo la struttura cognitiva dell'insegnante,
ma anche gli atteggiamenti, le opinioni, fino ai valori. Non si tratta
infatti di una semplice tecnica didattica nuova, ma di un capovolgimento
dell'azione pedagogica (G. Contessa, Tecniche di gruppo e ricerca,
La Scuola, Brescia, 1977). A maggior ragione quindi un seminario su
questo tema non può limitarsi a cambiamenti della sfera cognitiva.
La terza considerazione riguardava il modello pedagogico più
generale, cioè la intenzionalità dei docenti nei confronti
dei problemi scolastici.
Ogni seminario di formazione o aggiornamento presuppone un'intenzionalità,
una ideologia dei docenti o dell'ente promotore, verso la scuola.
Così come a monte dell'educazione primaria c'è un progetto
di uomo e di società, anche a monte di un'iniziativa di aggiornamento
c'è un progetto di insegnante, di scuola, di società.
Il fare un seminario sul lavoro di gruppo sottintende un'ideologia
pedagogica democratica e pluralistica libertaria e antiautoritaria,
basata sui metodi attivi e non direttivi, sulla ricerca e sulla partecipazione.
Cioè una ideologia che rifiuta l'abitudine all'individualismo,
alla competitività, ai metodi autoritari e passivanti. Come
è possibile indurre questi valori attraverso uno strumento
(la conferenza) che rappresenta uno stile pedagogico deduttivo, passivante
e in ultima analisi autoritario?
E. Bernasconi (E. Bernasconi, Note sulla formazione degli insegnanti,
da Psicologia e Lavoro, anno VIII, n.36, 1975, Celuc Irips, Milano)
esprime con chiarezza questo problema: "L'insegnante è
autoritario, non sa muoversi in situazioni plurali, non sa metodi
attivi, non fa ricerca e quindi utilizza la lezione, sceglie i contenuti:
questo è il problema. E la soluzione è spesso proposta
da un brillante relatore in cattedra che direttamente illustra la
necessità di non essere direttivi, che deduttivamente esorta
all'utilizzo del metodo induttivo, e individualmente invita all'uso
del gruppo. La situazione è paradossale...il vero trasferimento
di apprendimento da parte dell'insegnante sarà il rinforzo
della direttività e del metodo deduttivo, previa raffinazione
e aggiornamento dei contenuti".
2. L'IPOTESI
DESTRUTTURATA
Di fronte a queste
perplessità, lo staff si è messo alla ricerca di metodologie
diverse, che garantissero migliori risultati e fossero più
coerenti con le intenzionalità di cambiamento dei docenti.
Una prima proposta riguardava l'uso di una metodologia destrutturata
basata sul T-group e l'analisi istituzionale (G. Lapassade,
L'analisi istituzionale, Isedi, Milano, 1974). Una simile via
avrebbe significato in pratica non offrire ai partecipanti alcuno
schema fisso. I conduttori avrebbero messo sa disposizione degli insegnanti
la loro competenza, degli orari di lavoro (dimensione temporale) e
delle aule (dimensione spaziale). Tutto l'apprendimento possibile
sarebbe stato deciso, programmato e realizzato dai partecipanti in
una totale autogestione. Lo stile di conduzione dei docenti si sarebbe
attestato sulla interpretazione delle dinamiche di gruppo o istituzionali.
I partecipanti avrebbero potuto vivere per sei giorni la dimensione
della istituzione istituente, analizzandone i processi, i problemi,
le patologie e le terapie. L'iter classico dell'apprendimento sarebbe
passato attraverso la delusione delle aspettative, l'accumulazione
dell'ansietà e aggressività, la destrutturazione del
campo percettivo esistente negli insegnanti e la ristrutturazione
di questo campo sulla base dell'esperienza di gruppo. L'apprendimento
in questo caso avrebbe toccato vette significative in alcuni, ma al
prezzo di numerose regressioni di altri.
La dimensione plenaria dei centoventi non sarebbe stata gestibile,
all'inizio; e avrebbe causato livelli di angoscia elevatissimi, portando
i partecipanti ad una quasi totale spersonalizzazione. Ammesso che
la plenaria fosse riuscita a dividersi in sottogruppi, con un criterio
qualsiasi, non sarebbe stato possibile fornire a questi la presenza
di un conduttore qualificato (essendo due soli docenti).
La dimensione di gruppo sarebbe quindi stata vissuta come momento
anarchico, privato dell'attenzione dell'autorità; spazio minacciante
di dispersine e di competizione. In sostanza si sarebbe ridotto il
gruppo ad una serie di rapporti di coppia, lontani dalla percezione
del "noi". In simili situazioni di ansietà, il ricorso
all'autorità sarebbe parso inevitabile, col risultato di ottenere
un rinforzo del ruolo dei docenti.
Come è stato ampiamente dimostrato da M. Klein (H. Segal, "Introduzione
all'opera di M. Klein", Martinelli, Firenze, 1972) e W. Bion
(W. Bion, " Esperienze nei gruppi" , Armando, Roma,
1971) nei gruppi si sarebbero messi in moto meccanismi di difesa di
tipo "schizoparanoideo": scissioni, idealizzazioni, proiezioni,
ecc. Meccanismi di difesa di gruppo per cui il gruppo è vissuto
come cattivo, minacciante e persecutore e l'unica speranza è
la risposta nell'autorità. Tutti meccanismi, questi, che risultano
evidenti in quelle classi in cui l'insegnante assume un ruolo permissino
tipo laissez-faire.
Naturalmente questo modello ha dei vantaggi perchè consente
apprendimenti profondi a diversi livelli: cognitivo ed emotivo soprattutto.
Però c'erano due obiezioni sostanziali: una era che l'impossibilità
di offrire ai sottogruppi dei trainers qualificati avrebbe ridotto
l'apprendimento; l'altra riguardava le motivazioni dei partecipanti.
Queste infatti non erano così forti da garantire una adeguata
sopportazione della frustrazione in nome dell'apprendimento. Per alcuni
partecipanti l'esperienza sarebbe stata traumantica, per molti sarebbe
stata rifiutata attraverso meccanismi di difesa fortissimi.
3. LE
MOTIVAZIONI DEI PARTECIPANTI
L'ipotesi di
partenza era che le motivazioni alla partecipazione in questi seminari
sono svariate. Oltre a essere diverse, le motivazioni si presentano
combinate in ciascun partecipante. Ci sono motivazioni di fuga da
qualcosa o di avvicinamento a qualcosa. Ci sono motivazioni precise
e imprecisate. Fra le precise, ci sono motivazioni all'informazione,
oppure alla formazione o addirittura all'addestramento. Vediamo meglio.
Per alcuni insegnanti il motivo principale della partecipazione ad
un seminario residenziale è la fuga dall'ambiente abituale,
dalle ristrettezze del provincialismo, della routine. In questi casi
conta solo la residenzialità: il tema del seminario è
secondario. Per altri si tratta di una fuga dai dubbi quotidiani,
dai problemi e dalle angosce professionali: il seminario come illusione
rassicurante. Anche qui l'argomento è casuale.
Per altri partecipanti la motivazione è più consapevole:
desiderano avvicinare il problema del gruppo, perché sono sulla
soglia della consapevolezza dei limiti esistenti nel modo tradizionale
di fare scuola. Il tema del gruppo è visto come un trucco risolutore
in qualche caso o come rivoluzione pedagogica in altri. Ci sono alcuni
che vengono ad un seminario sul gruppo perché hanno già
individuato in questa dimensione lo spazio del loro mutamento, ed
altri che tentano di rispondere ad un loro generale e generico malessere.
Alcuni vogliono solo saperne di più sui gruppi: altri desiderano
abituarsi al lavoro di gruppo, cioè socializzare il loro ruolo,
altri ancora vogliono imparare ad organizzare e condurre gruppi di
allievi.
Tutti più o meno vogliono imparare qualcosa, ma in generale
le motivazioni non sono decise e radicali, quanto piuttosto imprecise
e moderate. Tutti vogliono apprendere un po', ma senza immolazioni
personali e riti sacrificali. In fondo la gran parte pensa (ed è
giusto) di insegnare in modo abbastanza soddisfacente e pensa che
l'innovazione sia un di più non richiesto. In quasi tutti sussiste
il desiderio di confrontarsi con altri colleghi di regioni diverse
e di comunicare. Nella gran parte esiste la voglia di essere attivi
durante il seminario, partecipare, dare un contributo, dire finalmente
qualcosa al di fuori dell'abituale atmosfera valutativa e competitiva
del proprio ambiente. Su una cosa c'è larga convergenza di
motivazioni: sei giorni di conferenze sono un mattone!
4 - IL MODELLO
ATTIVO
Alla fine ci
sembrò che l'unica via esperibile fosse quella di un seminario
basato su tecniche attive. Queste partono dall'ipotesi che l'apprendimento
sia più facile e più duraturo se i discenti fanno esperienze
dirette e concrete su ciò che devono imparare. Con le tecniche
attive il partecipante è attore del suo processo di apprendimento
sia perchè impara attraverso tentativi ed errori, sia perchè
contribuisce alla costruzione-organizzazione dell'esperimento.
Si impara cioè qualcosa, facendola o facendone una molto simile.
In fondo si tratta dell'applicazione su apprendimenti teorici e comportamentali,
di una tecnica normalmente applicata agli apprendimenti tecnici e
manuali (C. Rogers, "Libertà nell'apprendimento",
Giunti/ Barbera, Firenze, 1974). Si impara a riparare un motore, smontandolo
e rimontandolo; si impara a guidare, guidando; si può imparare
il lavoro di gruppo, lavorando in gruppo.
Naturalmente la pedagogia attiva postula che in astratto l'apprendimento
possa avvenire, con interventi minimi del docente o addirittura senza
docente: è un problema di costi e tempi. Se per riparare una
radio non facciamo problemi sul numero di radio che l'apprendista
sfascia e sul tempo di apprendimento, possiamo dire che la radiotecnica
può essere imparata "attivamente".
Per il nostro seminario i giorni erano solo sei ed i probabili costi
da errore erano troppo alti per accettarli con disinvoltura. Un'esperienza
di gruppo non buona, produce una sorta di fobia o di repulsione per
i gruppi. Inoltre, mentre un motore è un fatto oggettivo che
consente una verifica inequivocabile di un apprendimento (imparare-far
funzionare), un gruppo è soprattutto uno spazio soggettivo,
psicologico, interazionale. Un partecipante deve prima di tutto superare
le sue difese dal gruppo, che è una entità complessa,
spesso minacciante e comunque non usuale (coloro che non vivono così
il gruppo non partecipano a seminari su questo tema). Poi deve buttarsi
nell'esperienza di gruppo, vivendola e insieme studiandola. Infine,
deve verificare se ne quanto ha appreso.
E' impossibile che un partecipante sappia fare tutto ciò senza
un aiuto, ed è di questo che la formazione al gruppo viene
di solito effettuata in piccoli gruppi condotti da uno o due esperti.
Un partecipante ad un gruppo di formazione è simultaneamente
sottoposto a due ordini di dubbi: quelli che riguardano l'andamento
del gruppo e quelli che riguardano se stesso. Il gruppo "va bene"
o no? Io cosa sto imparando? E' il gruppo che va così per causa
mia, o sono io che mi comporto in un certo modo a causa del gruppo?
Sono gli interrogativi pressanti che ogni partecipante si trova a
fare a se e che derivano dall'ambiguità della situazione attiva:
imparare qualcosa in un campo in cui si è parte in causa.
Se i quesiti provocano un'ansia eccessiva, il partecipante ha sempre
i meccanismi di difesa che gli consentono di ritirarsi psicologicamente
dalla situazione, cioè di passivizzarsi, mettersi fuori per
guardare meglio. A parte il fatto che questo diminuisce l'apprendimento
del partecipante (che deve essere attivo), ciò non è
consentito a lungo perchè se tutti si difendono, mettendosi
fuori a guardare, non resta più nulla da osservare, cioè
da imparare.
In situazione canonica questi empasse vengono superati con
l'aiuto del conduttore che può ottimizzare a favore dell'apprendimento
queste "dinamiche". Ma come si poteva ottenere tutto ciò
avendo due esperti e centoventi partecipanti? Il modello che scaturì
dai nostri dubbi fu un miscuglio di metodi attivi, metodi direttivi
e metodi non direttivi. I protagonisti del seminario furono tre: i
questionari-stimolo, i gruppi e i docenti. I risultati furono per
certi versi sbalorditivi. Ma il successo maggiore fu questo: la scoperta
della possibilità di far arrivare ad un buon livello di autocentratura
otto gruppi praticamente senza conduttori.
5. L'ESPERIENZA
Abbiamo previsto
l'iter ideale della costituzione di un gruppo, mediante fasi tipiche.
Ciascuna fase occupava un giorno di lavoro. Così abbiamo programmato
un percorso ideale:
1° giorno: conoscenza fra i partecipanti e analisi delle percezioni
e degli atteggiamenti reciproci;
2° giorno: comunicazione interpersonale e scambi di feed-backs;
3° giorno: strutturazione dei gruppi, ruoli e leadership;
4° giorno: fenomeni e dinamiche di gruppo con attenzione particolare
al processo do decisione;
5° giorno: rapporti fra gruppi e processi di contrattazione;
6° giorno: orientamento al compito.
Ciascuna fase, cioè ciascun giorno, vedeva l'alternanza di
momenti di gruppo e momenti di plenaria. Nei gruppi i processi erano
stimolati da esercitazioni di riflessione, appositamente preparati.
Con questi strumenti, i gruppi erano invitati a rispondere, riflettere
e discutere sui diversi processi, centrando l'attenzione su se stessi.
I gruppi, in sostanza, venivano aiutati ad autocentrarsi mediante
i questionari, che avevano la funzione di evidenziare i singoli processi
e insieme stimolarli, diminuendo le difese dei partecipanti.
Nel corso di queste attività di lavoro autocentrato, i docenti
giravano per pochi minuti nei vari gruppi col compito di rafforzare
l'autoanalisi attraverso la ripetizione di domande che portassero
i partecipanti a riflettere su quanto stava accadendo ai gruppi stessi
"qui e ora".
Nei momenti di plenaria, invece, i docenti, attraverso comunicazioni
teoriche, tentavano di concettualizzare l'esperienza vissuta nei gruppi.
Le giornate erano suddivise in quattro unità di lavoro ciascuna
di 90 minuti (due la mattina e due al pomeriggio).
Durante le serate erano proposte unità di lavoro facoltative:
alcune su argomenti teorici, altre centrate su esercizi di comunicazione
non verbale (V. programma del corso allegato).
La logica era che ciascun gruppo vivesse l'esperienza della sua graduale
evoluzione (metodo attivo) e insieme riflettesse su ciò che
accadeva (metodo direttivo). L'apprendimento sarebbe stato ottenuto
dalla sintesi della teoria e della prassi, della esperienza diretta
e delle conferenze.
Naturalmente la grande incognita erano le unità di lavoro centrate
sui gruppi, senza conduttori. In fondo affidavamo il ruolo di conduttori
ai gruppi stessi ed ai questionari-stimolo. Sui gruppi autocentrati
senza conduttori, non esiste letteratura in Italia ed anche quella
anglosassone è molto limitata (I.D. Yalom, "Teoria
e pratica della psicoterapia di gruppo", Boringhieri, Milano,
1974). In sei giorni i gruppi avrebbero dovuto superare le difese
e diminuire la dipendenza dai docenti; il rischio era quello della
mancata apertura individuale oppure dell'eccessivo accumulo di aggressività
e ansietà. Poi avrebbero dovuto arrivare ad un'appartenenza
di gruppo, ad una coesione minima: e qui il pericolo poteva essere
il rifiuto del gruppo a favore della plenaria, oppure l'eccessiva
coesione emotiva. Infine, i partecipanti avrebbero dovuto imparare
i processi di gruppo, con le relative difficoltà e i meccanismi
di gestione di queste.
Era davvero un grosso compito, ma abbiamo deciso di tentare, con la
riserva che, se le cose si avviavano male, potevamo sempre ridurre
le unità di gruppo aumentando quelle di plenaria.
6. I RISULTATI
Credo di poter
definire i risultati assolutamente soddisfacenti. Forse grazie alla
forte motivazione ad apprendere presente nei partecipanti, le fasi
previste per la evoluzione dei gruppi si sono verificate perfettamente
ed in qualche caso sono state anche anticipate. In certi gruppi, grazie
alla presenza di qualche partecipante con esperienze precedenti, si
è instaurata presto una comunicazione di gruppo, con frequenti
feed-backs accettati per la loro franchezza e chiarezza. Parecchi
partecipanti hanno intuito quasi subito il doppio compito di vivere
la situazione e simultaneamente analizzarla, giungendo a fare interpretazioni
assai realistiche delle varie fasi del gruppo.
Tutto ciò si è verificato senza trionfalismi, e anche
a prezzo di conflitti di una certa entità, gestiti però
dai gruppi con un equilibrio sconcertante. La coesione dei gruppi
è stata raggiunta da quasi tutti i gruppi, come previsto, verso
il terzo giorno ed ha consentito loro di affrontare le fasi decisorie
ed operative con un soddisfacente livello di funzionamento collettivo.
Solo un gruppo è rimasto impaniato in conflitti irrisolti,
rendendosi impossibile il passaggio alla fase di lavoro vero e proprio
"di gruppo".
La fase che è stata affrontata con meno successo è stata
quella delle relazioni intergruppo, il che d'altronde è spiegabile
con il fatto che essa richiede ai gruppi un livello di funzionamento
troppo sofisticato. Ma il sesto giorno, in cui i gruppi sono stati
spaccati e ricomposti con altri criteri, ha dato la prova lampante
della capacità acquisita dalla gran parte dei maestri di lavorare
in gruppo. Allontanati dai gruppi di appartenenza e riaggregati con
altri partecipanti, essi sono riusciti a discutere, decidere e realizzare
qualcosa, in tempi molto brevi. Le analisi nei gruppi, dli interventi
in plenaria degli ultimi due giorni, dimostravano chiaramente l'acquisita
dimestichezza coi concetti principali relativi al gruppo, una maggiore
facilità a comunicare ed una più larga disponibilità
ad ascoltare.
Al termine del seminario è stato somministrato un questionario
con undici domande tendenti a verificare il livello e la qualità
dell'apprendimento. I risultati non sono certo del tutto attendibili,
per molti motivi, non ultimo l'atmosfera euforica circolante nel seminario.
Tuttavia possiamo ricavare qualche indicazione, almeno dei vissuti
dei compilatori. D'altra parte il vissuto di un partecipante è
un elemento importante per il trasferimento dell'apprendimento.
II 35% dei partecipanti dichiarava di aver acquisito "una maggiore
sensibilità per lavorare con colleghi e genitori"; il
20% di aver imparato "a comunicare fra i colleghi diversi";
il 15% "a leggere i problemi pedagogici da una nuova angolatura
".
Alla domanda: " qual è la difficoltà maggiore che
ha incontrato in questi giorni? " il 50% rispondeva "capire
i membri del gruppo", il 25% " parlare in gruppo ".
Alla domanda sulle possibilità di applicare una pedagogia di
gruppo in classe, il 75% rispondeva "possibile con una formazione
adeguata", il 15% dichiarava "necessario", il 10% "difficile
in ogni caso".
Alla domanda "cosa cambierebbe del programma di questo corso?"
il 50% rispondeva "più analisi di gruppo (sui processi)
", il 25% "più discussioni di gruppo (sui contenuti)",
il 25% " più conferenze ".
Come si vede da questi dati, solo in dicativi di un clima psicologico,
i partecipanti esprimono in larga misura:
- un cambiamento personale di disponibilità al lavoro di gruppo;
- una consapevolezza realistica delle difficoltà che il gruppo
comporta;
- una disponibilità elevata al trasferimento dell'apprendimento
ed alla prosecuzione dell'aggiornamento in questo campo.
Naturalmente non possiamo dire di aver ottenuto in assoluto i massimi
risultati possibili. Per esempio è stata trascurata tutta l'area
dei problemi di rapporto fra gruppo e autorità, per cui i gruppi
rapporto fra i gruppi sono stati complessivamente in una situazione
di dipendenza dai docenti. In secondo luogo, avendo dovuto andare
al rallentatore nelle fasi costitutive dei gruppi, è stata
sorvolata la dimensione organizzativa e politica dei rapporti fra
gruppi. Due risultati questi che certo avremmo potuto raggiungere
disponendo di uno staff che consentisse almeno un conduttore per gruppo,
e magari gruppi meno numerosi.
Ma non c'è dubbio
che abbiamo ottenuto risultati assai maggiori che se avessimo adottato
il metodo delle tradizionali conferenze.
In questo caso i partecipanti hanno ugualmente acquisito un notevole
apprendimento di tipo teorico-cognitivo, ma hanno anche vissuto una
esperienza personale ed emotiva che ha coinvolto gli atteggiamenti
e la sfera emotiva, ed hanno acquisito una serie di strumenti pratici
(i questionari e gli interventi nei gruppi) di cui possono far uso
in molte delle loro situazioni professionali.
PROGRAMMA
DEL SEMINARIO
OBIETTIVO
Sensibilizzazione al lavoro di gruppo nella scuola.
METODOLOGIA
- Esercitazioni di gruppo, questionari-stimolo, conferenze, formazione
di otto gruppi eterogenei.
I° GIORNATA
1° unità
- Esercitazione di socializzazione in gruppo
2° unità - Questionario sulle percezioni e gli atteggiamenti
in gruppo
3° unità - Comunicazione su " Atteggiamenti, percezioni,
pregiudizi " in plenaria
4" unità - Esercitazione di autoetero-valutazione in gruppo
II° GIORNATA
5° unità-
Discussione di un caso in gruppo
6° unità -Questionario sulla comunicazione in gruppo
7° unità -Comunicazione su "Teorie della comunicazione"
in plenaria
8° unità -Idem
8° unità bis -Unità serale di comunicazioni non
verbali per un gruppo
III° GIORNATA
9° unità
-Questionario sulla struttura dei ruoli in gruppo
10° unità -Comunicazione su "Ruoli e leadership"
in plenaria
11° unità -Comunicazione su "Sociometria scolastica"
in plenaria
11° bis - Esercitazioni di sociometria nei gruppi
12° unità -Unità serale di comunicazione non verbale
per un gruppo
IV° GIORNATA
13° unità
-Questionario sulle dinamiche di gruppo in gruppo
14° unità -Comunicazione su "Fenomeni e dinamiche
di gruppo"
15° unità -Comunicazione su "Il team teaching"
in plenaria
16° unità -Esercitazione sulla decisione di gruppo in gruppo
16° bis -Unità serale di comunicazioni non verbali per
un gruppo
V° GIORNATA
17° unità
-Esercitazione sui rapporti intergruppo
18° unità -Idem
19° unità -Comunicazione su "La socializzazione dell'insegnante"
in plenaria
20° unità -Idem
20° bis - Unità serale con comunicazione su "Le classi
aperte"
VI° GIORNATA
21° unità
- Esercitazione sulla flessibilità organizzativa
22° unità - Esercitazione per gruppi di compito e plenaria
finale
* Estratto
da SCUOLA ITALIANA MODERNA, 1 marzo 1977, n. 11, Editrice La Scuola,
Brescia, pag.22-25
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