Verso un approccio olistico al tema dei conflitti di Enrico Cheli*

Introduzione al volume a cura di E. Cheli: La comunicazione come antidoto ai conflitti (Punto di fuga editore, Cagliari, 2003)

Come è noto, la concezione sinora dominante nelle scienze – improntata sul paradigma meccanicistico riduzionista – ha teso a considerare la ricerca e l’etica come campi distinti e indipendenti, e così pure la conoscenza e la politica o i fini e i mezzi; ne consegue che lo scienziato dovrebbe perseguire essenzialmente scopi conoscitivi e lasciare ad altri le scelte (e i dubbi) circa l’utilizzo delle sue scoperte e le conseguenze che esso può comportare. Nella visione olistica emergente invece, le suddette dimensioni vengono considerate interconnesse e la ricerca non è ritenuta quasi mai neutrale e fine a se stessa ma anzi fin dall’inizio orientata verso determinati fini esterni, siano essi espliciti o impliciti, consapevoli o in ombra. Pertanto lo scienziato non solo non può defilarsi ma è anzi chiamato a prendere coscienza e responsabilità delle implicazioni etiche della propria attività e a schierarsi, dichiarando apertamente le finalità che la sua attività di ricerca persegue. Nel nostro caso la finalità è molto chiara: approfondire la comprensione dei conflitti - da quelli macrosociali a quelli microsociali - per contribuire ad una loro trasformazione, da distruttivi a costruttivi.

In questo mio saggio introduttivo svilupperò il tema lungo due percorsi, in parte consequenziali e in parte intrecciati: il primo è di tipo conoscitivo, il secondo di intervento. Gli intrecci sono un pò la caratteristica saliente del metodo olistico, e difatti desidero evidenziare punti di vista plurimi sul tema dei conflitti, non tanto per stabilire quale sia il migliore, quanto per ricercare possibili convergenze, complementarità, analogie. Partirò dal punto di vista comunicativo – che dà il titolo a questo libro – e mi collegherò poi ad ulteriori prospettive, tipiche di campi disciplinari diversi, come diverse sono le provenienze degli studiosi che hanno dato vita a questo dibattito.L'importanza della comunicazione Da un punto di vista comunicativo, ogni conflitto può essere considerato la punta di un iceberg che ha spesso dietro di sé una lunga storia di carente o scadente comunicazione, di incomprensioni, di sordità e chiusura di una o di entrambe le parti. In situazioni di fondo contrassegnate da diffidenza e ostilità basta una scintilla perché scoppi una guerra: è vero che spesso gruppi economici e politici senza scrupoli fomentano e manovrano certe dinamiche per i loro fini di potere e denaro, ma nessuna scintilla potrebbe innescare un incendio se vi fosse tra le singole persone, tra i gruppi o tra i popoli un clima amichevole e rispettoso delle differenze. Spesso ci si scontra perché non si comunica, perché non ci si conosce, tant'è che da sempre l'alternativa alle guerre è la diplomazia, che è appunto una forma di comunicazione tra stati.

Il processo di globalizzazione in atto comporta indubbiamente dei pericoli - su cui non mi soffermerò ma che condivido appieno - tuttavia favorisce anche il nascere di una nuova e più ampia visione della realtà che può portarci a conoscere meglio gli altri abitanti e culture del pianeta e a considerare le differenze non più motivo di conflitto, ma anzi una grande ricchezza dell'umanità che attende solo di essere capita e utilizzata. Grazie allo sviluppo della comunicazione si va sempre più verso una coscienza planetaria - cioè il rendersi conto che siamo tutti sulla stessa "barca" - e ciò fa sorgere una concreta possibilità di coesistenza pacifica e collaborativa di sistemi sociali, culturali e religiosi diversi.

La multiculticulturalità e ancor più l'interculturalità svolgono, sul piano macrosociale, un ruolo analogo a quello svolto dalla comunicazione interpersonale sul piano microsociale, e possono contribuire non poco a superare gli antagonismi basati sulla paura del "diverso da noi", facendo emergere punti di contatto e somiglianze tra le diverse persone, culture e religioni: finché si rimane distanti, vediamo solo le differenze, ma se ci si avvicina e si dialoga si scoprono somiglianze tra noi e gli altri e dallo scontro si può passare al confronto e alla condivisione

Vorrei in proposito ricordare che comunicare è l'opposto di combattere, come ricorda l'etimologia stessa della parola, che rinvia a cum (con, insieme) e a munia (doveri, vincoli), ma anche moenia (le mura) e munus (il dono). Communis significa quindi: essere legati insieme, collegati dall'avere comuni doveri (munia), dal condividere comuni sorti (le mura che proteggono e accumunano) o dall'essersi scambiati un dono. Tramite la comunicazione ci si avvicina agli altri, mentre combattendo si agisce per allontanare (fino anche a eliminarlo) chi suscita in noi paura o disprezzo.

Tuttavia non dobbiamo dimenticare che comunicare significa anche esprimere (da ex primere, cioè spingere fuori) ed esprimere il conflitto può spesso essere meglio che tenerlo dentro e reprimerlo. Il conflitto è in molti casi espressione di un malessere relazionale e come tale non va visto solo in chiave negativa ma anzi positiva, terapeutica. Il punto è: come esprimerlo costruttivamente invece di giungere ad una escalation di violenza distruttiva. E ancora una volta siamo di fronte ad un problema di tipo comunicativo.

Tuttavia non si può certo pretendere di risolvere il dramma dei conflitti distruttivi affrontandoli sul solo piano della comunicazione, ed è necessario affrontare la questione nei suoi molteplici risvolti e con-cause.

Il nesso tra conflitti macrosociali e microsociali

Il secondo punto che mi propongo di esplicitare è la stretta connessione tra i conflitti macrosociali e microsociali. Anche se le guerre sono scontri tra popoli e stati, esse traggono alimento dalle mille e mille piccole guerre, manifeste o sotterranee, che le persone, i gruppi e le classi sociali combattono quasi ogni giorno: nel traffico, sul lavoro, in famiglia, nello sport, in politica, perfino dentro se stessi. Varie sono le motivazioni di questa diffusa conflittualità: dalla difesa di interessi di parte alla competizione per affermarsi, dal desiderio di potere al bisogno di difendersi da prevaricazioni messe in atto da altri. La tradizione teorica del conflitto sociale, iniziata da Machiavelli e Hobbes e poi sviluppata da Marx, Weber e altri, sostiene appunto che il comportamento delle persone è finalizzato al soddisfacimento dei loro interessi egoistici in un mondo in cui l'ordine sociale si basa sulla coercizione organizzata e sulla persuasione ideologica (oggi, nell'era della comunicazione, quest'ultima è spesso la principale). In estrema sintesi, la sociologia di Marx afferma che "storicamente, forme particolari di proprietà (schiavitù, proprietà terriera feudale, capitale) sono sostenute e difese dal potere coercitivo dello stato; di conseguenza, le classi che si formano a seguito delle divisioni di proprietà (schiavi e proprietari di schiavi, servi e signori, capitalisti e operai) sono gli agenti in conflitto nella lotta per il potere politico - il puntello dei loro mezzi di sostentamento." (Collins R:, 1980: 56). Come poi ha mostrato Weber, il conflitto è il punto cardine non solo nel rapporto tra le classi ma anche all'interno di ciascuna classe e nelle organizzazioni (fazioni). Il fuoco delle teorie del conflitto sociale è insomma la disparità nella ripartizione delle risorse, materiali e culturali, e la connessa disparità di potere: alcuni individui, gruppi, classi hanno più potere e risorse di altri e ciò ingenera conflitto[1].

La suddivisione della società in classi, organizzazioni, gruppi diversi è un fatto di per sé neutro e può anzi rispondere ad una esigenza di migliore funzionalità sociale; ciò che produce il conflitto non è la diversità ma la disparità, cioè l'attribuire a certi soggetti sociali maggiore valore (e quindi maggiori risorse e potere) rispetto ad altri.

Ciò che avviene a livello macrosociale si ritrova anche nel microsociale: se in una famiglia dove vi sono più figli viene data maggiore considerazione e affetto ad uno di essi, si creeranno inevitabilmente dinamiche conflittuali. Lo stesso accade nei piccoli gruppi, per esempio in una squadra sportiva: quando la disparità tra i giocatori titolari e le riserve è troppo marcata e queste ultime si sentono poco utilizzate e considerate, agiscono come fomentatori occulti, sobillando la squadra contro l'allenatore e anche approfittando di ogni occasione per mettere i titolari l'uno contro l'altro.

Analogamente, si può applicare lo stesso modello alle relazioni tra stati o tra gruppi di stati: se consideriamo come macrosocietà l'intero pianeta Terra e esaminiamo le nazioni occidentali in rapporto a quelle del secondo e terzo mondo appare subito evidente che sussiste una grave disparità nella ripartizione delle risorse e del potere e questo ingenera conflittualità che può sfociare in atti di guerra o di terrorismo, come purtroppo stiamo constatando giornalmente.

Il conflitto dentro di noi

Veniamo adesso al terzo punto: i cattivi rapporti con gli altri sono anche il riflesso di cattivi rapporti con noi stessi.

Secondo alcune teorie di psicologia del profondo, la personalità non va vista come un'entità unitaria, ma piuttosto come un insieme di sub-personalità, ciascuna delle quali desidera il soddisfacimento dei suoi specifici bisogni[2]. Alcune di queste sub-personalità sono ben viste dalla nostra cultura e società e quindi tendiamo fin da bambini a identificarci con esse, agendole alla luce del sole: è il caso, ad esempio, di aspetti quali l'altruismo, la razionalità, l'autocontrollo, la disponibilità verso l'altro etc. Altre sub-personalità invece vengono giudicate negativamente dalla società e dunque anche dall'individuo, che tende a rinnegarle, esiliandole nell'inconscio — si pensi all'egoismo, alla sensualità, all'amore per l'avventura, al bisogno di indipendenza, alla timidezza o qualunque altro aspetto ritenuto deprecabile dall'ambito familiare e culturale in cui siamo cresciuti o non appropriato al sesso dell'individuo (ad es. la vulnerabilità, per l'uomo o la determinazione per la donna).

Ogni volta che scegliamo - ed è una scelta che si ripresenta più volte nella vita: in famiglia, a scuola, con gli amici, sul lavoro - reprimiamo una parte di noi, dicendogli in sostanza: "tu sei meno importante dell'altra parte, dell'altro bisogno", e così facendo la releghiamo nell'inconscio. Ciò determina conseguenze molto simili a quelle evidenziate, a livello macrosociale, dalla teoria del conflitto sociale: così come avviene per gli individui e le classi prevaricate, le sub-personalità che rinneghiamo e releghiamo nell'inconscio non ci stanno a farsi tagliare fuori e faranno di tutto per ottenere attenzione e soddisfazione: sobilleranno, saboteranno, semineranno zizzania, insomma fomenteranno il conflitto dentro di noi e, per riflesso, anche fuori di noi. Proveremo antipatia e repulsione per qualcuno perché in realtà ci ricorderà - magari in eccesso - parti di noi che abbiamo chiuso nella "prigione" dell'inconcio; combatteremo con nemici esterni ma in realtà saremo in guerra con noi stessi.

I lati ombra non sono negativi in assoluto ma solo fino a quando vengono ritenuti tali e confinati nell'inconscio; al contrario, se si ha il coraggio di prenderne coscienza e di dialogare con essi, è possibile trasformarli da elementi negativi in risorse altamente positive. A tal fine è necessario impegnarsi in un cammino di autoconoscenza, e uno dei percorsi più efficaci per prendere coscienza di tali lati è proprio la relazione. Uno dei doni più belli che ci offrono le relazioni con altre persone è appunto la possibilità di recuperare i nostri sé negati: attraverso un continuo e consapevole confronto con l'altro compiamo un viaggio nelle profondità del nostro essere. Questo non solo si traduce in un vissuto più soddisfacente nella relazione ma anche in una accresciuta conoscenza di noi stessi e in un più alto livello di realizzazione personale. Quanti più sé rinnegati contatteremo, tanto più ricche e complete saranno le nostre relazioni e la nostra vita.

Se imparassimo ad accettare la globalità di ciò che siamo e non solo alcune parti, sarebbe assai più facile accettare i diversi da noi; se sapessimo conciliare creativamente i nostri diversi bisogni invece di accettarne solo metà e rinnegare l'altra metà, saremmo anche più in grado di negoziare con equità con altri individui, classi sociali, popoli o stati, invece di considerare le nostre esigenze più importanti delle loro e liquidarli con poche briciole e molta arroganza.

Modelli culturali limitanti

La radice del problema è dunque anche dentro di noi, ma sarebbe semplicistico ridurre tutto alla sola dinamica intrapsichica. Difatti, il conflitto interiore è collegato a sua volta a distorsioni e ottusità culturali: in primis il considerare valori solo certi bisogni e qualità umane, e disvalori tutti gli altri. E’ questa dicotomia che porta poi ad accettare di noi stessi solo quella metà che corrisponde ai valori della nostra cultura di appartenenza e a rinnegare l'altra metà. Ma siccome esistono culture diverse dalla nostra, ecco che alcuni popoli o individui manifestano apertamente quei tratti che per noi sono invece tabù, e noi facciamo lo stesso verso di loro, suscitando reciproco rifiuto e ostilità.

Vi è una diffusa credenza in quasi tutte le culture del pianeta che porta a vedere la diversità come inevitabile fonte di antagonismo; si ritiene cioè che tra due posizioni o punti di vista o soggetti diversi debba esserci una competizione o uno scontro che decida il prevalere di uno solo dei due. Questo modo di vedere è spesso adottato anche dai media, e purtroppo anche enfatizzato, specie nel campo del giornalismo, il che non fa che rinforzarlo, aumentando, invece di ridurre, la conflittualità collettiva. Si tratta, come sosterrò, di un pregiudizio, ma talmente radicato da risultare una realtà oggettiva e apparentemente immutabile.

In realtà la diversità può essere vista anche in altro modo, non antagonistico ma anzi costruttivo, poiché è proprio grazie alla diversità che esiste il nostro mondo, fisico, psichico e sociale. Tutti i fenomeni, da quelli cosmici a quelli della vita biologica e sociale fino a quelli sub-atomici esistono proprio grazie ad un gioco di diversità, di polarità opposte-complementari: può trattarsi di un flusso tra poli opposti o con diverso potenziale, come nei fenomeni elettrici oppure una alternanza tra poli (notte-giorno, inspirazione-espirazione, contrazione-rilassamento etc.); o ancora una interazione tra forze "opposte" (gravitazione vs. moto orbitale, repulsione elettromagnetica vs. attrazione nucleare forte etc.). Perfino la struttura stessa della materia risulta imperniata sul gioco di poli opposti, come protoni e elettroni. Negli organismi viventi, il flusso/gioco continuo tra polarità opposte si può osservare nell'alternanza tra inspirazione ed espirazione, tra veglia e sonno, tra vita e morte; si pensi come ulteriore esempio al funzionamento dell'apparato muscolare dell'uomo (e a quello di qualunque animale), che lavora sempre per coppie o gruppi di muscoli tra loro opposti eppure cooperativi, in cui un gruppo funge da agonista e l'altro da antagonista, e viceversa[3]. Molti altri esempi potremmo fare, ma già da quanto detto si evidenzia che poli opposti non vuol dire necessariamente antagonisti, anzi semmai complementari: gli elettroni sono necessari alla materia non meno dei protoni, così come le donne sono necessarie per la specie umana non meno degli uomini. L'universo, la vita, la materia esistono grazie al flusso e alla dinamica prodotta da opposizioni cooperative tendenti a un equilibrio[4]

Dunque, se si vuole davvero pervenire ad una più ampia visione della realtà, è necessario liberarsi dal pregiudizio che “diversità” voglia dire necessariamente e solamente antagonismo e conflitto.

Il concetto di opposti complementari è basilare in una visione processuale/ondulatoria della realtà come quella proposta dai modelli ad impostazione olistica, mentre non è compatibile con il paradigma dominante nella scienza occidentale, che lo vede come un paradosso [5].

C'è poi un ulteriore pregiudizio culturale, connesso a quello appena illustrato, che contribuisce ad aggravare il problema: la credenza che si possano soddisfare i propri bisogni solo penalizzando qualcun altro. Questo modo di vedere è stato definito dalla “teoria dei giochi” come gioco a somma zero: un gioco, cioè, dove la posta è limitata e non è sufficiente per soddisfare le esigenze di tutti i soggetti coinvolti (ad es. due naufraghi che si contendono un unico giubbotto di salvataggio o due tribù che lottano per un unico lembo di terra fertile, insufficiente per i fabbisogni di entrambe)[6]. Per millenni i rapporti sociali, ad ogni livello, si sono basati ciecamente su questo assunto della competizione per risorse limitate e quindi sulla legge del più forte. Solo da poco stiamo scoprendo che in gran parte delle relazioni sociali non solo si può vincere entrambi, ma addirittura si vince di più se si vince tutti. Le relazioni di coppia o familiari, quelle tra insegnanti-allievi, medico-paziente, imprenditore-lavoratore e molte altre seguono appunto le leggi di questo secondo genere di gioco, definito a somma positiva.

Il gioco a somma zero è caratterizzato da una accesa competizione, in quanto uno vince (+1) ciò che l’altro perde (-1), da cui +1 -1 = 0. Nei giochi a somma positiva invece, al guadagno di uno non deve necessariamente corrispondere la perdita per l’altro, anzi, il guadagno è maggiore se l’altro guadagna a sua volta (es: +2, +2 = +4). Si prenda ad esempio la relazione insegnante-allievo: è evidente che più l’allievo apprende con profitto, più l’insegnante è appagato (cioè guadagna), e viceversa, più l’insegnante è gratificato, meglio insegnerà e più positivamente si porrà nei confronti della classe, con conseguenze positive (guadagno) anche per l’allievo. Voler affrontare una relazione del genere secondo un modello competitivo “a somma zero” rappresenta, come è ovvio, un'assurdità, comportando per entrambi i soggetti solo mancati guadagni. Dobbiamo prendere coscienza che gran parte dei nostri obbiettivi - come individui e come gruppi e popoli - non sono affatto antagonistici a quelli altrui ma possono anzi realizzarsi di più e meglio se collaboriamo.

I conflitti possono spuntare prima o poi in ogni relazione, sia essa tra persone, gruppi, organizzazioni o stati, ma non è detto che l'unica via d'uscita sia lo scontro. Il problema è che nessuno ci ha mai insegnato ad impostare in modi sani e costruttivi i nostri rapporti con gli altri e siamo costretti ad arrangiarci da autodidatti. Impariamo a parlare e a scrivere ma non ad ascoltare e comprendere realmente l'altro in quanto diverso da noi. Ci viene insegnata una storia umana fatta di guerre ma non ci viene detto niente su come poterle evitare. Riceviamo una formazione professionale ma nessuna formazione relazionale per prepararci ai rapporti che avremo con i colleghi e con i superiori, rapporti che pure incideranno in modo determinante sulla nostra soddisfazione o insoddisfazione, sulla gratificazione o frustrazione che ricaveremo dal lavoro e quindi anche sul nostro rendimento. Oggi si affronta perfino l'educazione sessuale, ma niente viene fatto per una educazione relazionale (e la maggior parte dei problemi di coppia e delle separazioni dipende proprio da problemi relazionali, non sessuali). Insomma, possiamo anche definirci una civiltà tecnologicamente avanzata ma siamo, per ora almeno, tutt'altro che avanzati sul piano dei rapporti con gli altri.

Intervenire in modo olistico

Come ogni altra malattia - e la guerra è sicuramente una malattia, la più nefasta e persistente che affligga l'umanità - essa va affrontata alla radice, altrimenti, curando i sintomi, la malattia sparisce per un po' ma prima o poi riaffiora con rinnovata virulenza, tant'è che qualcuno ebbe a definire la pace come la pausa di riposo e riorganizzazione necessaria a prepararsi per una nuova guerra. Rimanendo in tema di massime, vorrei invece parafrasarne una orientale, più positiva, che recita pressappoco così:

Se vuoi la pace nel mondo devi mettere pace nel tuo paese

Se vuoi pace nel tuo paese devi mettere pace nelle città.

Se vuoi pace nelle città devi mettere pace nelle famiglie.

Se vuoi pace nella tua famiglia devi mettere pace in te stesso.

Dunque, per costruire la pace bisogna agire su molteplici piani, comprendendo e conciliando i conflitti interiori, superando limitazioni e cecità culturali e poi imparando a relazionarsi equamente con le altre persone, ad accettare le differenze, a superare l'egocentrismo e l'etnocetrismo, ad affrontare costruttivamente i conflitti che inevitabilmente si creano tra diverse personalità, diversi interessi, diverse culture.

Può sembrare un percorso lungo ma non ci sono scorciatoie, perché se non cambieremo i nostri schemi individuali e culturali non sarà possibile uscire dalla spirale perversa della guerra: potrà trattarsi di guerre vere e proprie, o di guerriglie come quelle domenicali negli stadi, ma periodicamente ci sarà bisogno di sfogare l'aggressività di popolazioni composte da persone e classi sociali per lo più insoddisfatte e arrabbiate. La rabbia non può essere repressa all'infinito e prima o poi deve trovare uno sfogo; il problema quindi non si può risolvere reprimendola ma fornendo alle persone valide alternative per prevenirla o canalizzarla in positivo, in primo luogo imparando ad affrontare in modo più costruttivo e soddisfacente le proprie relazioni con gli altri, siano essi superiori, colleghi o familiari.

Come si è visto, molti sono i fattori in gioco e tra loro variamente interconnessi, pertanto è sterile lavorare su un solo livello e si richiede piuttosto un approccio di tipo olistico che nasca da una vasta collaborazione interdisciplinare nell'ambito delle scienze umane e sociali. Oggi non solo sono note le cause e le dinamiche dei conflitti interpersonali ma è anche possibile, in certa misura, facilitare il passaggio da uno scontro distruttivo ad un confronto costruttivo. Negli ultimi decenni sono state messe a punto valide tecniche di mediazione tra i diversi punti di vista, di negoziazione dei diversi interessi, di "sfogo" costruttivo del risentimento e dell'aggressività, che possono portare in molti casi a una risoluzione pacifica dei conflitti e a una prevenzione degli stessi. Queste conoscenze e queste tecniche (di cui si parla più estesamente nella parte II di questo libro) sono purtroppo poco note al grande pubblico e perfino alla maggior parte degli studiosi ed addetti ai lavori, ma rappresentano un patrimonio di grande valore che può essere proficuamente impiegato sia per iniziative di sensibilizzazione e educazione su vasta scala, sia per interventi più circoscritti, volti a formare personale altamente specializzato da impiegare poi in ruoli strategici. Tali iniziative dovrebbero rivolgersi non solo ai paesi occidentali (il che comunque sarebbe già molto) ma anche ad altri paesi, perché il cambiamento dovrebbe prima o poi riguardare l'intero pianeta. Tuttavia non possiamo aspettare che qualcun altro faccia il primo passo: dobbiamo dare l'esempio noi occidentali - magari addirittura noi italiani - e avviare seri interventi di educazione relazionale e di crescita culturale per imprimere un balzo evolutivo agli individui e alle collettività.

Si spendono ogni anno miliardi e miliardi di Euro per opere pubbliche materiali: è adesso il caso di investire seriamente anche su un bene immateriale ma essenziale come la pace. Ne abbiamo a sufficienza di parole e buoni propositi che lasciano il tempo che trovano: sono necessarie iniziative concrete, e con opportuni finanziamenti e fattiva e "pacifica" collaborazione tra studiosi di campi disciplinari diversi si potrebbero avviare progetti pilota che poi potrebbero essere perfezionati e diffusi su vasta scala. Progetti in cui la serietà scientifica si combini con l'interdisciplinarietà e la creatività.

Per fare qualche esempio, nell'ambito della sezione italiana del Club of Budapest - associazione internazionale per la pace e la coscienza planetaria, di cui fanno parte illustri scienziati e molti premi nobel per la pace - avevamo progettato durante la scorsa estate una interessante iniziativa denominata "Scuola di pace" che prevedeva di invitare in Italia, a scadenze periodiche, alcune decine di giovani palestinesi e israeliani e di fargli seguire - vivendo assieme per un mese - un corso volto a migliorare la comunicazione e la comprensione reciproca e ad apprendere strumenti e tecniche di mediazione e di risoluzione pacifica dei conflitti. Questi giovani, una volta tornati in patria, sarebbero stati esempi viventi del fatto che è possibile convivere pacificamente e avrebbero anche potuto prestare attivamente la loro opera in vari contesti per facilitare - grazie a quanto imparato - processi di miglioramento delle relazioni interne. Numerose associazioni culturali e gruppi di volontariato erano disponibili a collaborare come pure docenti universitari ed esperti del settore, ma purtroppo i tragici fatti dell'undici settembre hanno reso impraticabile questa strada. Se per il momento il progetto "scuola di pace" è costretto allo stand-by, vi sono comunque vari altri progetti che procedono in quella stessa direzione, come i numerosi corsi di peace-building, difesa civile etc. promossi da associazioni pacifiste e ONG in varie parti d’Italia, sia anche – grazie alla recente riforma – vari corsi universitari come i nuovi corsi di laurea in "operatore per la pace" e i master in peace-keeping e peace-building, in diritti umani e azioni umanitarie e in mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti, attivati da alcuni atenei italiani, tra cui in primissima fila quelli toscani, con ben due corsi di laurea (Firenze e Pisa) e vari Master (Siena e S.S.S.U.P. S.Anna di Pisa) [7].

Trovare punti di incontro sul piano scientifico e interpersonale

E' dunque indispensabile che cresca, nel nostro paese e in tutto il pianeta, la sensibilità per interventi concreti a favore della pace, e si diffonda la consapevolezza che la pace mondiale si costruisce anche, e forse soprattutto, partendo dai nostri piccoli mondi personali. Le scienze umane e sociali possono dare un contributo decisivo in proposito, purché noi per primi - scienziati e tecnici - si esca da una logica di competizione, in cui ogni disciplina, ogni gruppo o gruppetto vuole affermare la propria centralità ed egemonia in materia. Nessuna disciplina ha le risposte decisive e solo da una ampia collaborazione può derivare un fattivo contributo.

Sappiamo che i vari livelli in gioco - intrapsichico, relazionale, socioculturale e politico-economico - sono tutti interconnessi e se agiamo solo su uno di essi, quale che sia, gli eventuali effetti o saranno minimi oppure verranno rapidamente neutralizzati e riassorbiti dai meccanismi omeostatici di quei livelli che non sono stati modificati. Può non bastare una buona legge se non si cambiano anche i modelli culturali e sociali alla base di certi comportamenti; può non essere sufficiente una buona psicoterapia se poi il soggetto quando torna a casa continua a vivere in una atmosfera familiare o lavorativa disturbata.

Dobbiamo abbandonare il vecchio modello unicentrico e adottarne uno policentrico in cui vi sia spazio e soddisfazione per tutti; è necessario che noi tutti - sociologi, psicologi, politologi, antropologi, pedagogisti, filosofi, economisti e via dicendo - ci si convinca della utilità e possibilità di collaborare tra di noi, di superare le differenze metodologiche e anche le diffidenze relazionali.

a) Superare le differenze metodologiche: verso un paradigma olistico-riduzionista

Un contributo importante sul primo punto può venire dall'adottare un modello comune, che a mio avviso deve essere al contempo olistico e riduzionista. Sono consapevole che il termine "olistico" susciterà in molti lettori perplessità e le comprendo; ancor più perplessità susciterà poi abbinare due approcci così (apparentemente) antitetici come olismo e riduzionismo. Permettetemi dunque di sviluppare i motivi della mia proposta metodologica.

Come emerge anche da una ricerca che sto svolgendo[8], sono molti gli studiosi consapevoli dei limiti del metodo riduzionista, ma la maggior parte preferisce non avventurarsi sul terreno nuovo e incerto dell'olismo; essi concordano sul fatto che vi sia una fitta trama di interconnessioni tra livelli, processi, oggetti, ma pongono la rilevante obbiezione che l'olismo dispone per ora solo di metodi qualitativi mentre manca di metodi e strumenti quantitativi che permettano di affrontare la complessità con lo stesso grado di precisione e replicabilità di quelli riduzionisti.

D'altra parte, se si continua a focalizzarsi su un solo livello o dimensione per volta - come è avvenuto finora a causa del metodo riduzionistico a variazione unitaria dei fattori - si ha inevitabilmente una visione incompleta e statica di ciò che avviene sul piano individuale e collettivo, il che in uno scenario fluido e veloce come quello attuale significa lasciarsi sfuggire proprio gli aspetti più significativi.

Si tratta di un serio dilemma:

a) tenere conto qualitativamente della complessità senza però riuscire a fornirne misurazioni quantitative certe e replicabili, oppure

b) continuare ad utilizzare modelli e strumenti quantitativi che però, nel ridurre drasticamente la complessità della realtà, ne danno una visione frammentaria e statica.

Finora la situazione si è mantenuta in uno stato di impasse a causa di tale dilemma, e come avviene in tali casi, dubbio per dubbio la maggioranza ha preferito mantenersi fedele al modello riduzionista, già collaudato e accreditato.

Tuttavia, come ho ipotizzato in alcuni miei recenti lavori, è possibile ricercare una terza via che non veda i due approcci come antagonisti ed autoescludentisi, ma come metodi complementari, punti di vista con pari dignità che possono collaborare per fornire una visione più soddisfacente della realtà[9].

La caratteristica di fondo di un tale orientamento dovrebbe essere la capacità di superare la sterile contrapposizione che ha finora segnato i rapporti tra olismo e riduzionismo e ammettere esplicitamente la possibilità che coesistano visioni diverse e ugualmente valide della realtà, non autoescludentisi ma anzi complementari.

Come ha evidenziato la fisica quantistica (v. principio di complementarità di Bohr e principio di indeterminazione di Heisenberg) a seconda del modo in cui si osserva, un evento sub-atomico può apparire in modi diversi; ad esempio la luce può essere vista ora come fascio di particelle (fotoni), ora come flusso di onde elettromagnetiche. La visione corpuscolare porta a individuare oggetti distinti, mentre la visione ondulatoria rileva processi dinamici, pertanto la prima porta ad una visione oggettuale e materiale del mondo (quella tipica del paradigma meccanicista dominante), la seconda a una visione processuale e informazionale (il paradigma olistico emergente). Tuttavia, nessuno dei due punti di vista è in assoluto migliore dell'altro, e ciascuno presenta sia vantaggi che svantaggi. Uno dei limiti della visione corpuscolare-oggettuale è di considerare ogni oggetto come realtà in sé, perdendo di vista il collegamento con gli altri oggetti, collegamento che è invece in primo piano nella visione processuale, dal momento che ogni processo è dato da una interazione tra poli opposti/complementari. D'altra parte, vi sono limiti anche nella visione processuale, ad esempio l'indifferenziazione, la negazione dell'individualità.

Come ho meglio sostenuto nei lavori in precedenza citati, vi sono fondati motivi per ritenere che quanto sin qui possa essere valido non solo per la realtà fisica, ma anche - e forse a maggior ragione - per la realtà sociale. La lezione della meccanica quantistica è chiara a riguardo: entrambe le visioni sono legittime, dobbiamo solo essere consapevoli del loro carattere relativo e del fatto che la loro maggiore o minore utilità dipende dallo scenario e dagli scopi dell’osservazione: ad es., in un mondo sociale “semplice” e lento, la visione corpuscolare-analitica può essere più agevole e comoda, mentre in una realtà più complessa e dinamica è la visione processuale a risultare più adatta.

La risposta dunque non va ricercata in un passaggio drastico dal riduzionismo dominante ad un predominio dell’olismo: ciò infatti non farebbe che invertire, senza risolverlo, i termini del problema. Si rende semmai necessario un paradigma in grado di comprendere e conciliare entrambe gli approcci – un approccio al contempo settoriale e globale, specialistico e generalistico, riduzionistico e olistico - poiché entrambi i modi di vedere sono legittimi e utili e nessuno dei due, da solo, è pienamente soddisfacente.

In attesa di una evoluzione epistemologica e metodologica non dobbiamo tuttavia rallentare l'impegno e gli interventi concreti, che potrebbero fin d'ora svilupparsi in forme di collaborazione che - parafrasando il noto approccio GLOCAL - partano da una visione globale (olistica) sviluppando azioni locali (cioè con strumenti settoriali) ma coordinate tra loro.

b) Superare le diffidenze relazionali

Quella su esposta è in sintesi la mia proposta per superare le differenze metodologiche, ma come ricorderete avevo accennato anche alla necessità di superare le diffidenze relazionali, e non si tratta di un punto secondario, perché per collaborare proficuamente non basta avere linguaggi e modelli in comune. In ogni iniziativa non saremo presenti solo nei nostri ruoli di scienziati ma anche in qualità di persone, con le nostre esigenze e le nostre paure, con le nostre personalità e le nostre sensibilità. Quindi è indispensabile mettersi in gioco anche sul piano personale, lavorare assieme per trovare nuove forme di relazione e collaborazione, nuove forme di dialogo anche sul piano delle dinamiche interpersonali e di gruppo. Non credo si possa predicare la pace e la collaborazione agli altri se noi per primi non siamo in grado di impostare relazioni creative e costruttive con i nostri colleghi. Tutto ciò può sembrare ancora più utopistico della già temeraria proposta metodologica di una sintesi tra olismo e riduzionismo, ma anche qui non vedo onestamente altre strade. Come diceva il mistico San Giovanni della Croce "per andare nel luogo che non conosci devi prendere la strada che non conosci". Seguendo le strade già battute non arriveremo mai alla pace, questo è certo, ampiamente comprovato da millenni di storia. Se c'è qualche possibilità - e io voglio sperare che ci siano - esse sono raggiungibili solo seguendo strade nuove, e perché allora non iniziare noi, che abbiamo scelto di confrontarci su questi temi, a seguirla?

Conclusioni

Concludo questo mio intervento con l'auspicio che questo convegno e questo libro rappresentino un punto di partenza per una reale collaborazione scientifica e umana tra tutti coloro che, nell’Università e nella società civile, si impegnano a favore della pace e della comunicazione tra gli individui, i popoli, le culture. Uniti, potremo riscuotere la giusta attenzione politica e ottenere adeguate risorse per grandi interventi di sensibilizzazione, di educazione, di formazione e consulenza che coinvolgano attivamente la scuola, l'università, i media, gli enti socio-sanitari; interventi che attraverso un reale miglioramento della comunicazione e delle relazioni interpersonali ai diversi livelli, depotenzino i vecchi schemi culturali di conflittualità distruttiva e di competizione a somma zero sostituendoli con confronti costruttivi e creativi che si traducano in un maggior guadagno individuale e sociale per tutti.



* Enrico Cheli è professore di Sociologia delle comunicazioni di massa all’Università di Siena e coordinatore presso la medesima del Master in Comunicazione e relazioni interpersonali; è inoltre docente nel dottorato di ricerca in Sociologia della comunicazione (Università di Firenze) ed ha insegnato per molti anni alla LUISS di Roma, tenendo gli insegnamenti di Teorie e tecniche delle comunicazioni di massa e di Sociopsicologia delle comunicazioni di massa. Sociologo e psicologo, è autore o coautore di varie pubblicazioni, tra cui: L'immagine del potere (FrancoAngeli, 1986) - L'ora di punta dell'informazione (idem, 1989) - La realtà mediata (idem 1992); Giovani a rischio e prevenzione ecosistemica (1995) L’età del risveglio interiore (2001) – Difendersi dai media senza farne a meno (2003). Con N. F. Montecucco ha curato una Enciclopedia olistica su CD-ROM di prossima pubblicazione che raccoglie contributi di oltre 100 studiosi italiani e stranieri sulla prospettiva olistica nella cultura, nella spiritualità e nella scienza. Fa parte del direttivo della sezione italiana del Club of Budapest – associazione internazionale per la pace e la coscienza planetaria – e affianca alla attività accademica un forte impegno sociale per la pace, l’ecologia, e lo sviluppo della consapevolezza individuale e collettiva. E-mail: cheli@unisi.it

[1] Qui vale ricordare che secondo M. Weber il potere è la capacità di ottenere obbedienza da coloro che preferirebbero agire altrimenti.

[2] I riferimenti vanno alla psicologia analitica (cfr. in particolare il concetto di "ombra", Jung, 1977) alla analisi transazionale (Berne E., 1967) e al voice dialogue (Stone H. e Stone S., 1996; 1999).

[3] Facciamo l'esempio di un movimento molto semplice quale la flessione dell'avambraccio sul braccio, come quando si vogliono "mostrare i muscoli"; in tal caso il bicipite brachiale funge da agonista (cioè si contrae) fornendo la necessaria energia per il movimento, mentre il tricipite, posto dall'altro lato dell'omero, deve distendersi, seppur in modo controllato, più o meno "frenato", fungendo da antagonista. Facendo poi il movimento opposto di distendere il braccio, i ruoli si invertono e sarà il tricipite a trainare e il bicipite a doversi rilassare. Ogni movimento richiede quindi un duplice e sincronico messaggio da parte del sistema nervoso: uno di contrazione al/agli agonisti e uno di distensione controllata al/agli antagonisti.

[4] Se in occidente il concetto di opposti complementari è stato per lo più ignorato o avversato fin dai tempi della filosofia greca (eccettuato Eraclito e pochi altri), esso è invece ben sviluppato nella cultura orientale, dove si ritrova declinato in vari modelli e metafore: dalla trimurti hindu costituita dalle divinità Bhrama - Vishnu - Shiva (che simboleggiano le tre forze opposte e complementari della creazione, del mantenimento e della trasformazione) fino al modello taoista del t'ai chi tu, che rappresenta l'interazione tra i principi opposti e complementari Yin e Yang (principio femminile, passivo, e principio maschile, attivo) ed esprime magistralmente sul piano grafico i concetti di unità, dualità, complementarità ed equilibrio dinamico.

[5] Per comprendere che il paradosso è solo apparente, è utile collegarci all'esempio illustrato poco sopra del movimento corporeo come gioco tra muscolatura agonista e antagonista (v. nota preced.); in particolare è interessante notare che in ogni disciplina sportiva uno dei maggiori impedimenti del principiante, uno dei fattori che più ne limitano le prestazioni rispetto all'atleta evoluto, è proprio la difficoltà di coordinare i due impulsi nervosi, cioè l'azione cooperativa dei due gruppi muscolari, del sistema agonisti-antagonisti. Il principiante, cioè, non riesce bene ad inviare messaggi contraddittori del tipo "rilassa e contrai", non riesce a padroneggiare bene il paradosso e quindi contrae anche ciò che non dovrebbe, il che ovviamente limita potenza, fluidità e quindi efficacia dei suoi gesti, comportando anche un'affaticamento molto maggiore.

[6] Cfr. J. von Neumann e O. Morgensten, 1944.

[7] Vorrei ricordare che è proprio uno di questi Master – quello in “Comunicazione e relazioni interpersonali per esperti in mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti” dell’Università di Siena - che si è fatto promotore di questo convegno e colgo l’occasione per dare alcuni cenni in proposito. Si tratta di un corso, giunto alla II edizione, che affronta specificamente i temi della mediazione e della educazione relazionale alla cooperazione, al lavoro di gruppo e alla risoluzione pacifica dei conflitti di cui si diceva più sopra, preparando esperti in grado di lavorare in vari settori: socio-sanitario e socio-assistenziale, organizzativo e aziendale, educativo-formativo. La durata è di sedici mesi (con lezioni intensive nei week end per favorire la partecipazione di chi già lavora) e possono iscriversi in primo luogo laureati in sociologia, psicologia, scienze della comunicazione, scienze della formazione e assistenti sociali. Ulteriori informazioni all’indirizzo web: www.unisi.it/master-com-rel

[8]Cfr. E. CHELI, Indagine sul dibattito in corso tra modelli dominanti e nuove tendenze nella comunità scientifica, rapporto di ricerca inedito, 2002.

[9] Cfr. Cheli E., Solve et coagula - paper presentato al convegno "Dalla frammentazione alla globalità", Arezzo, 03/04/2001. Cheli E., Olismo e riduzionismo nella scienza, nella cultura e nella mente, in corso di stampa;