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Verso
un approccio olistico al tema dei conflitti |
Come
è noto, la concezione sinora dominante nelle scienze
improntata sul paradigma meccanicistico riduzionista
ha teso a considerare la ricerca e letica
come campi distinti e indipendenti, e così pure la conoscenza
e la politica o i fini e i mezzi; ne consegue
che lo scienziato dovrebbe perseguire essenzialmente scopi conoscitivi
e lasciare ad altri le scelte (e i dubbi) circa lutilizzo
delle sue scoperte e le conseguenze che esso può comportare.
Nella visione olistica emergente invece, le suddette dimensioni
vengono considerate interconnesse e la ricerca non è ritenuta
quasi mai neutrale e fine a se stessa ma anzi fin dallinizio
orientata verso determinati fini esterni, siano essi espliciti
o impliciti, consapevoli o in ombra. Pertanto lo scienziato
non solo non può defilarsi ma è anzi chiamato a prendere coscienza
e responsabilità delle implicazioni etiche della propria attività
e a schierarsi, dichiarando apertamente le finalità che la sua
attività di ricerca persegue. Nel nostro caso la finalità è
molto chiara: approfondire la comprensione dei conflitti - da
quelli macrosociali a quelli microsociali - per contribuire
ad una loro trasformazione, da distruttivi a costruttivi. In
questo mio saggio introduttivo svilupperò il tema lungo due
percorsi, in parte consequenziali e in parte intrecciati: il
primo è di tipo conoscitivo, il secondo di intervento. Gli intrecci
sono un pò la caratteristica saliente del metodo olistico, e
difatti desidero evidenziare punti di vista plurimi sul tema
dei conflitti, non tanto per stabilire quale sia il migliore,
quanto per ricercare possibili convergenze, complementarità,
analogie. Partirò dal punto di vista comunicativo che
dà il titolo a questo libro e mi collegherò poi ad ulteriori
prospettive, tipiche di campi disciplinari diversi, come diverse
sono le provenienze degli studiosi che hanno dato vita a questo
dibattito.L'importanza della comunicazione Da un punto di vista
comunicativo, ogni conflitto può essere considerato la punta
di un iceberg che ha spesso dietro di sé una lunga storia di
carente o scadente comunicazione, di incomprensioni, di sordità
e chiusura di una o di entrambe le parti. In situazioni di fondo
contrassegnate da diffidenza e ostilità basta una scintilla
perché scoppi una guerra: è vero che spesso gruppi economici
e politici senza scrupoli fomentano e manovrano certe dinamiche
per i loro fini di potere e denaro, ma nessuna scintilla potrebbe
innescare un incendio se vi fosse tra le singole persone, tra
i gruppi o tra i popoli un clima amichevole e rispettoso delle
differenze. Spesso ci si scontra perché non si comunica, perché
non ci si conosce, tant'è che da sempre l'alternativa alle guerre
è la diplomazia, che è appunto una forma di comunicazione tra
stati. Il
processo di globalizzazione in atto comporta indubbiamente dei
pericoli - su cui non mi soffermerò ma che condivido appieno
- tuttavia favorisce anche il nascere di una nuova e più ampia
visione della realtà che può portarci a conoscere meglio gli
altri abitanti e culture del pianeta e a considerare le differenze
non più motivo di conflitto, ma anzi una grande ricchezza dell'umanità
che attende solo di essere capita e utilizzata. Grazie allo
sviluppo della comunicazione si va sempre più verso una coscienza
planetaria - cioè il rendersi conto che siamo tutti sulla stessa
"barca" - e ciò fa sorgere una concreta possibilità
di coesistenza pacifica e collaborativa di sistemi sociali,
culturali e religiosi diversi. La
multiculticulturalità e ancor più l'interculturalità svolgono,
sul piano macrosociale, un ruolo analogo a quello svolto dalla
comunicazione interpersonale sul piano microsociale, e possono
contribuire non poco a superare gli antagonismi basati sulla
paura del "diverso da noi", facendo emergere punti
di contatto e somiglianze tra le diverse persone, culture e
religioni: finché si rimane distanti, vediamo solo le differenze,
ma se ci si avvicina e si dialoga si scoprono somiglianze tra
noi e gli altri e dallo scontro si può passare al confronto
e alla condivisione Vorrei
in proposito ricordare che comunicare è l'opposto di combattere,
come ricorda l'etimologia stessa della parola, che rinvia a
cum (con, insieme) e a munia (doveri, vincoli),
ma anche moenia (le mura) e munus (il dono). Communis
significa quindi: essere legati insieme, collegati dall'avere
comuni doveri (munia), dal condividere comuni sorti (le mura
che proteggono e accumunano) o dall'essersi scambiati un dono.
Tramite la comunicazione ci si avvicina agli altri, mentre combattendo
si agisce per allontanare (fino anche a eliminarlo) chi suscita
in noi paura o disprezzo. Tuttavia
non dobbiamo dimenticare che comunicare significa anche esprimere
(da ex primere, cioè spingere fuori) ed esprimere il
conflitto può spesso essere meglio che tenerlo dentro e reprimerlo.
Il conflitto è in molti casi espressione di un malessere relazionale
e come tale non va visto solo in chiave negativa ma anzi positiva,
terapeutica. Il punto è: come esprimerlo costruttivamente invece
di giungere ad una escalation di violenza distruttiva. E ancora
una volta siamo di fronte ad un problema di tipo comunicativo. Tuttavia
non si può certo pretendere di risolvere il dramma dei conflitti
distruttivi affrontandoli sul solo piano della comunicazione,
ed è necessario affrontare la questione nei suoi molteplici
risvolti e con-cause. Il
nesso tra conflitti macrosociali e microsociali Il
secondo punto che mi propongo di esplicitare è la stretta connessione
tra i conflitti macrosociali e microsociali. Anche se le guerre
sono scontri tra popoli e stati, esse traggono alimento dalle
mille e mille piccole guerre, manifeste o sotterranee, che le
persone, i gruppi e le classi sociali combattono quasi ogni
giorno: nel traffico, sul lavoro, in famiglia, nello sport,
in politica, perfino dentro se stessi. Varie sono le motivazioni
di questa diffusa conflittualità: dalla difesa di interessi
di parte alla competizione per affermarsi, dal desiderio di
potere al bisogno di difendersi da prevaricazioni messe in atto
da altri. La tradizione teorica del conflitto sociale, iniziata
da Machiavelli e Hobbes e poi sviluppata da Marx, Weber e altri,
sostiene appunto che il comportamento delle persone è finalizzato
al soddisfacimento dei loro interessi egoistici in un mondo
in cui l'ordine sociale si basa sulla coercizione organizzata
e sulla persuasione ideologica (oggi, nell'era della comunicazione,
quest'ultima è spesso la principale). In estrema sintesi, la
sociologia di Marx afferma che "storicamente, forme particolari
di proprietà (schiavitù, proprietà terriera feudale, capitale)
sono sostenute e difese dal potere coercitivo dello stato; di
conseguenza, le classi che si formano a seguito delle divisioni
di proprietà (schiavi e proprietari di schiavi, servi e signori,
capitalisti e operai) sono gli agenti in conflitto nella lotta
per il potere politico - il puntello dei loro mezzi di sostentamento."
(Collins R:, 1980: 56). Come poi ha mostrato Weber, il conflitto
è il punto cardine non solo nel rapporto tra le classi ma anche
all'interno di ciascuna classe e nelle organizzazioni (fazioni).
Il fuoco delle teorie del conflitto sociale è insomma la disparità
nella ripartizione delle risorse, materiali e culturali, e la
connessa disparità di potere: alcuni individui, gruppi, classi
hanno più potere e risorse di altri e ciò ingenera conflitto[1]. La
suddivisione della società in classi, organizzazioni, gruppi
diversi è un fatto di per sé neutro e può anzi rispondere ad
una esigenza di migliore funzionalità sociale; ciò che produce
il conflitto non è la diversità ma la disparità, cioè
l'attribuire a certi soggetti sociali maggiore valore (e quindi
maggiori risorse e potere) rispetto ad altri. Ciò
che avviene a livello macrosociale si ritrova anche nel microsociale:
se in una famiglia dove vi sono più figli viene data maggiore
considerazione e affetto ad uno di essi, si creeranno inevitabilmente
dinamiche conflittuali. Lo stesso accade nei piccoli gruppi,
per esempio in una squadra sportiva: quando la disparità tra
i giocatori titolari e le riserve è troppo marcata e queste
ultime si sentono poco utilizzate e considerate, agiscono come
fomentatori occulti, sobillando la squadra contro l'allenatore
e anche approfittando di ogni occasione per mettere i titolari
l'uno contro l'altro. Analogamente,
si può applicare lo stesso modello alle relazioni tra stati
o tra gruppi di stati: se consideriamo come macrosocietà l'intero
pianeta Terra e esaminiamo le nazioni occidentali in rapporto
a quelle del secondo e terzo mondo appare subito evidente che
sussiste una grave disparità nella ripartizione delle risorse
e del potere e questo ingenera conflittualità che può sfociare
in atti di guerra o di terrorismo, come purtroppo stiamo constatando
giornalmente. Il
conflitto dentro di noi Veniamo
adesso al terzo punto: i cattivi rapporti con gli altri sono
anche il riflesso di cattivi rapporti con noi stessi. Secondo
alcune teorie di psicologia del profondo, la personalità non
va vista come un'entità unitaria, ma piuttosto come un insieme
di sub-personalità, ciascuna delle quali desidera il
soddisfacimento dei suoi specifici bisogni[2].
Alcune di queste sub-personalità sono ben viste dalla nostra
cultura e società e quindi tendiamo fin da bambini a identificarci
con esse, agendole alla luce del sole: è il caso, ad esempio,
di aspetti quali l'altruismo, la razionalità, l'autocontrollo,
la disponibilità verso l'altro etc. Altre sub-personalità invece
vengono giudicate negativamente dalla società e dunque anche
dall'individuo, che tende a rinnegarle, esiliandole nell'inconscio
si pensi all'egoismo, alla sensualità, all'amore per
l'avventura, al bisogno di indipendenza, alla timidezza o qualunque
altro aspetto ritenuto deprecabile dall'ambito familiare e culturale
in cui siamo cresciuti o non appropriato al sesso dell'individuo
(ad es. la vulnerabilità, per l'uomo o la determinazione per
la donna). Ogni
volta che scegliamo - ed è una scelta che si ripresenta più
volte nella vita: in famiglia, a scuola, con gli amici, sul
lavoro - reprimiamo una parte di noi, dicendogli in sostanza:
"tu sei meno importante dell'altra parte, dell'altro bisogno",
e così facendo la releghiamo nell'inconscio. Ciò determina
conseguenze molto simili a quelle evidenziate, a livello macrosociale,
dalla teoria del conflitto sociale: così come avviene per gli
individui e le classi prevaricate, le sub-personalità che rinneghiamo
e releghiamo nell'inconscio non ci stanno a farsi tagliare fuori
e faranno di tutto per ottenere attenzione e soddisfazione:
sobilleranno, saboteranno, semineranno zizzania, insomma fomenteranno
il conflitto dentro di noi e, per riflesso, anche fuori di noi.
Proveremo antipatia e repulsione per qualcuno perché in realtà
ci ricorderà - magari in eccesso - parti di noi che abbiamo
chiuso nella "prigione" dell'inconcio; combatteremo
con nemici esterni ma in realtà saremo in guerra con noi stessi. I
lati ombra non sono negativi in assoluto ma solo fino a quando
vengono ritenuti tali e confinati nell'inconscio; al contrario,
se si ha il coraggio di prenderne coscienza e di dialogare con
essi, è possibile trasformarli da elementi negativi in risorse
altamente positive. A tal fine è necessario impegnarsi in un
cammino di autoconoscenza, e uno dei percorsi più efficaci per
prendere coscienza di tali lati è proprio la relazione. Uno
dei doni più belli che ci offrono le relazioni con altre persone
è appunto la possibilità di recuperare i nostri sé negati: attraverso
un continuo e consapevole confronto con l'altro compiamo un
viaggio nelle profondità del nostro essere. Questo non solo
si traduce in un vissuto più soddisfacente nella relazione ma
anche in una accresciuta conoscenza di noi stessi e in un più
alto livello di realizzazione personale. Quanti più sé rinnegati
contatteremo, tanto più ricche e complete saranno le nostre
relazioni e la nostra vita. Se
imparassimo ad accettare la globalità di ciò che siamo e non
solo alcune parti, sarebbe assai più facile accettare i diversi
da noi; se sapessimo conciliare creativamente i nostri diversi
bisogni invece di accettarne solo metà e rinnegare l'altra metà,
saremmo anche più in grado di negoziare con equità con altri
individui, classi sociali, popoli o stati, invece di considerare
le nostre esigenze più importanti delle loro e liquidarli con
poche briciole e molta arroganza. Modelli
culturali limitanti La
radice del problema è dunque anche dentro di noi, ma sarebbe
semplicistico ridurre tutto alla sola dinamica intrapsichica.
Difatti, il conflitto interiore è collegato a sua volta a distorsioni
e ottusità culturali: in primis il considerare valori solo certi
bisogni e qualità umane, e disvalori tutti gli altri. E
questa dicotomia che porta poi ad accettare di noi stessi solo
quella metà che corrisponde ai valori della nostra cultura di
appartenenza e a rinnegare l'altra metà. Ma siccome esistono
culture diverse dalla nostra, ecco che alcuni popoli o individui
manifestano apertamente quei tratti che per noi sono invece
tabù, e noi facciamo lo stesso verso di loro, suscitando reciproco
rifiuto e ostilità. Vi
è una diffusa credenza in quasi tutte le culture del pianeta
che porta a vedere la diversità come inevitabile fonte di antagonismo;
si ritiene cioè che tra due posizioni o punti di vista o soggetti
diversi debba esserci una competizione o uno scontro che decida
il prevalere di uno solo dei due. Questo modo di vedere è spesso
adottato anche dai media, e purtroppo anche enfatizzato, specie
nel campo del giornalismo, il che non fa che rinforzarlo, aumentando,
invece di ridurre, la conflittualità collettiva. Si tratta,
come sosterrò, di un pregiudizio, ma talmente radicato da risultare
una realtà oggettiva e apparentemente immutabile. In
realtà la diversità può essere vista anche in altro modo, non
antagonistico ma anzi costruttivo, poiché è proprio grazie alla
diversità che esiste il nostro mondo, fisico, psichico e sociale.
Tutti i fenomeni, da quelli cosmici a quelli della vita biologica
e sociale fino a quelli sub-atomici esistono proprio grazie
ad un gioco di diversità, di polarità opposte-complementari:
può trattarsi di un flusso tra poli opposti o con diverso potenziale,
come nei fenomeni elettrici oppure una alternanza tra poli (notte-giorno,
inspirazione-espirazione, contrazione-rilassamento etc.); o
ancora una interazione tra forze "opposte" (gravitazione
vs. moto orbitale, repulsione elettromagnetica vs. attrazione
nucleare forte etc.). Perfino la struttura stessa della materia
risulta imperniata sul gioco di poli opposti, come protoni e
elettroni. Negli organismi viventi, il flusso/gioco continuo
tra polarità opposte si può osservare nell'alternanza tra inspirazione
ed espirazione, tra veglia e sonno, tra vita e morte; si pensi
come ulteriore esempio al funzionamento dell'apparato muscolare
dell'uomo (e a quello di qualunque animale), che lavora sempre
per coppie o gruppi di muscoli tra loro opposti eppure cooperativi,
in cui un gruppo funge da agonista e l'altro da antagonista,
e viceversa[3]. Molti
altri esempi potremmo fare, ma già da quanto detto si evidenzia
che poli opposti non vuol dire necessariamente antagonisti,
anzi semmai complementari: gli elettroni sono necessari
alla materia non meno dei protoni, così come le donne sono necessarie
per la specie umana non meno degli uomini. L'universo, la vita,
la materia esistono grazie al flusso e alla dinamica prodotta
da opposizioni cooperative tendenti a un equilibrio[4]
Dunque,
se si vuole davvero pervenire ad una più ampia visione della
realtà, è necessario liberarsi dal pregiudizio che diversità
voglia dire necessariamente e solamente antagonismo e conflitto. Il
concetto di opposti complementari è basilare in una visione
processuale/ondulatoria della realtà come quella proposta dai
modelli ad impostazione olistica, mentre non è compatibile con
il paradigma dominante nella scienza occidentale, che lo vede
come un paradosso [5]. C'è
poi un ulteriore pregiudizio culturale, connesso a quello appena
illustrato, che contribuisce ad aggravare il problema: la credenza
che si possano soddisfare i propri bisogni solo penalizzando
qualcun altro. Questo modo di vedere è stato definito dalla
teoria dei giochi come gioco a somma zero:
un gioco, cioè, dove la posta è limitata e non è sufficiente
per soddisfare le esigenze di tutti i soggetti coinvolti (ad
es. due naufraghi che si contendono un unico giubbotto di salvataggio
o due tribù che lottano per un unico lembo di terra fertile,
insufficiente per i fabbisogni di entrambe)[6]. Per millenni i rapporti sociali,
ad ogni livello, si sono basati ciecamente su questo assunto
della competizione per risorse limitate e quindi sulla legge
del più forte. Solo da poco stiamo scoprendo che in gran parte
delle relazioni sociali non solo si può vincere entrambi, ma
addirittura si vince di più se si vince tutti. Le relazioni
di coppia o familiari, quelle tra insegnanti-allievi, medico-paziente,
imprenditore-lavoratore e molte altre seguono appunto le leggi
di questo secondo genere di gioco, definito a somma positiva. Il
gioco a somma zero è caratterizzato da una accesa competizione,
in quanto uno vince (+1) ciò che laltro perde (-1), da
cui +1 -1 = 0. Nei giochi a somma positiva invece, al guadagno
di uno non deve necessariamente corrispondere la perdita per
laltro, anzi, il guadagno è maggiore se laltro guadagna
a sua volta (es: +2, +2 = +4). Si prenda ad esempio la relazione
insegnante-allievo: è evidente che più lallievo apprende
con profitto, più linsegnante è appagato (cioè guadagna),
e viceversa, più linsegnante è gratificato, meglio insegnerà
e più positivamente si porrà nei confronti della classe, con
conseguenze positive (guadagno) anche per lallievo. Voler
affrontare una relazione del genere secondo un modello competitivo
a somma zero rappresenta, come è ovvio, un'assurdità,
comportando per entrambi i soggetti solo mancati guadagni. Dobbiamo
prendere coscienza che gran parte dei nostri obbiettivi - come
individui e come gruppi e popoli - non sono affatto antagonistici
a quelli altrui ma possono anzi realizzarsi di più e meglio
se collaboriamo. I
conflitti possono spuntare prima o poi in ogni relazione, sia
essa tra persone, gruppi, organizzazioni o stati, ma non è detto
che l'unica via d'uscita sia lo scontro. Il problema è che nessuno
ci ha mai insegnato ad impostare in modi sani e costruttivi
i nostri rapporti con gli altri e siamo costretti ad arrangiarci
da autodidatti. Impariamo a parlare e a scrivere ma non ad ascoltare
e comprendere realmente l'altro in quanto diverso da noi. Ci
viene insegnata una storia umana fatta di guerre ma non ci viene
detto niente su come poterle evitare. Riceviamo una formazione
professionale ma nessuna formazione relazionale per prepararci
ai rapporti che avremo con i colleghi e con i superiori, rapporti
che pure incideranno in modo determinante sulla nostra soddisfazione
o insoddisfazione, sulla gratificazione o frustrazione che ricaveremo
dal lavoro e quindi anche sul nostro rendimento. Oggi si affronta
perfino l'educazione sessuale, ma niente viene fatto per una
educazione relazionale (e la maggior parte dei problemi di coppia
e delle separazioni dipende proprio da problemi relazionali,
non sessuali). Insomma, possiamo anche definirci una civiltà
tecnologicamente avanzata ma siamo, per ora almeno, tutt'altro
che avanzati sul piano dei rapporti con gli altri. Intervenire
in modo olistico Come
ogni altra malattia - e la guerra è sicuramente una malattia,
la più nefasta e persistente che affligga l'umanità - essa va
affrontata alla radice, altrimenti, curando i sintomi, la malattia
sparisce per un po' ma prima o poi riaffiora con rinnovata virulenza,
tant'è che qualcuno ebbe a definire la pace come la pausa di
riposo e riorganizzazione necessaria a prepararsi per una nuova
guerra. Rimanendo in tema di massime, vorrei invece parafrasarne
una orientale, più positiva, che recita pressappoco così: Se
vuoi la pace nel mondo devi mettere pace nel tuo paese Se
vuoi pace nel tuo paese devi mettere pace nelle città. Se
vuoi pace nelle città devi mettere pace nelle famiglie. Se
vuoi pace nella tua famiglia devi mettere pace in te stesso. Dunque,
per costruire la pace bisogna agire su molteplici piani, comprendendo
e conciliando i conflitti interiori, superando limitazioni e
cecità culturali e poi imparando a relazionarsi equamente con
le altre persone, ad accettare le differenze, a superare l'egocentrismo
e l'etnocetrismo, ad affrontare costruttivamente i conflitti
che inevitabilmente si creano tra diverse personalità, diversi
interessi, diverse culture. Può
sembrare un percorso lungo ma non ci sono scorciatoie, perché
se non cambieremo i nostri schemi individuali e culturali non
sarà possibile uscire dalla spirale perversa della guerra: potrà
trattarsi di guerre vere e proprie, o di guerriglie come quelle
domenicali negli stadi, ma periodicamente ci sarà bisogno di
sfogare l'aggressività di popolazioni composte da persone e
classi sociali per lo più insoddisfatte e arrabbiate. La rabbia
non può essere repressa all'infinito e prima o poi deve trovare
uno sfogo; il problema quindi non si può risolvere reprimendola
ma fornendo alle persone valide alternative per prevenirla o
canalizzarla in positivo, in primo luogo imparando ad affrontare
in modo più costruttivo e soddisfacente le proprie relazioni
con gli altri, siano essi superiori, colleghi o familiari. Come
si è visto, molti sono i fattori in gioco e tra loro variamente
interconnessi, pertanto è sterile lavorare su un solo livello
e si richiede piuttosto un approccio di tipo olistico che nasca
da una vasta collaborazione interdisciplinare nell'ambito delle
scienze umane e sociali. Oggi non solo sono note le cause e
le dinamiche dei conflitti interpersonali ma è anche possibile,
in certa misura, facilitare il passaggio da uno scontro distruttivo
ad un confronto costruttivo. Negli ultimi decenni sono state
messe a punto valide tecniche di mediazione tra i diversi punti
di vista, di negoziazione dei diversi interessi, di "sfogo"
costruttivo del risentimento e dell'aggressività, che possono
portare in molti casi a una risoluzione pacifica dei conflitti
e a una prevenzione degli stessi. Queste conoscenze e queste
tecniche (di cui si parla più estesamente nella parte II di
questo libro) sono purtroppo poco note al grande pubblico e
perfino alla maggior parte degli studiosi ed addetti ai lavori,
ma rappresentano un patrimonio di grande valore che può essere
proficuamente impiegato sia per iniziative di sensibilizzazione
e educazione su vasta scala, sia per interventi più circoscritti,
volti a formare personale altamente specializzato da impiegare
poi in ruoli strategici. Tali iniziative dovrebbero rivolgersi
non solo ai paesi occidentali (il che comunque sarebbe già molto)
ma anche ad altri paesi, perché il cambiamento dovrebbe prima
o poi riguardare l'intero pianeta. Tuttavia non possiamo aspettare
che qualcun altro faccia il primo passo: dobbiamo dare l'esempio
noi occidentali - magari addirittura noi italiani - e avviare
seri interventi di educazione relazionale e di crescita culturale
per imprimere un balzo evolutivo agli individui e alle collettività. Si
spendono ogni anno miliardi e miliardi di Euro per opere pubbliche
materiali: è adesso il caso di investire seriamente anche su
un bene immateriale ma essenziale come la pace. Ne abbiamo a
sufficienza di parole e buoni propositi che lasciano il tempo
che trovano: sono necessarie iniziative concrete, e con opportuni
finanziamenti e fattiva e "pacifica" collaborazione
tra studiosi di campi disciplinari diversi si potrebbero avviare
progetti pilota che poi potrebbero essere perfezionati e diffusi
su vasta scala. Progetti in cui la serietà scientifica si combini
con l'interdisciplinarietà e la creatività. Per
fare qualche esempio, nell'ambito della sezione italiana del
Club of Budapest - associazione internazionale per la pace e
la coscienza planetaria, di cui fanno parte illustri scienziati
e molti premi nobel per la pace - avevamo progettato durante
la scorsa estate una interessante iniziativa denominata "Scuola
di pace" che prevedeva di invitare in Italia, a scadenze
periodiche, alcune decine di giovani palestinesi e israeliani
e di fargli seguire - vivendo assieme per un mese - un corso
volto a migliorare la comunicazione e la comprensione reciproca
e ad apprendere strumenti e tecniche di mediazione e di risoluzione
pacifica dei conflitti. Questi giovani, una volta tornati in
patria, sarebbero stati esempi viventi del fatto che è possibile
convivere pacificamente e avrebbero anche potuto prestare attivamente
la loro opera in vari contesti per facilitare - grazie a quanto
imparato - processi di miglioramento delle relazioni interne.
Numerose associazioni culturali e gruppi di volontariato erano
disponibili a collaborare come pure docenti universitari ed
esperti del settore, ma purtroppo i tragici fatti dell'undici
settembre hanno reso impraticabile questa strada. Se per il
momento il progetto "scuola di pace" è costretto allo
stand-by, vi sono comunque vari altri progetti che procedono
in quella stessa direzione, come i numerosi corsi di peace-building,
difesa civile etc. promossi da associazioni pacifiste e ONG
in varie parti dItalia, sia anche grazie alla recente
riforma vari corsi universitari come i nuovi corsi di
laurea in "operatore per la pace" e i master in peace-keeping
e peace-building, in diritti umani e azioni umanitarie e in
mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti, attivati da
alcuni atenei italiani, tra cui in primissima fila quelli toscani,
con ben due corsi di laurea (Firenze e Pisa) e vari Master (Siena
e S.S.S.U.P. S.Anna di Pisa)
[7]. Trovare
punti di incontro sul piano scientifico e interpersonale E'
dunque indispensabile che cresca, nel nostro paese e in tutto
il pianeta, la sensibilità per interventi concreti a favore
della pace, e si diffonda la consapevolezza che la pace mondiale
si costruisce anche, e forse soprattutto, partendo dai nostri
piccoli mondi personali. Le scienze umane e sociali possono
dare un contributo decisivo in proposito, purché noi per primi
- scienziati e tecnici - si esca da una logica di competizione,
in cui ogni disciplina, ogni gruppo o gruppetto vuole affermare
la propria centralità ed egemonia in materia. Nessuna disciplina
ha le risposte decisive e solo da una ampia collaborazione può
derivare un fattivo contributo. Sappiamo
che i vari livelli in gioco - intrapsichico, relazionale, socioculturale
e politico-economico - sono tutti interconnessi e se agiamo
solo su uno di essi, quale che sia, gli eventuali effetti o
saranno minimi oppure verranno rapidamente neutralizzati e riassorbiti
dai meccanismi omeostatici di quei livelli che non sono stati
modificati. Può non bastare una buona legge se non si cambiano
anche i modelli culturali e sociali alla base di certi comportamenti;
può non essere sufficiente una buona psicoterapia se poi il
soggetto quando torna a casa continua a vivere in una atmosfera
familiare o lavorativa disturbata. Dobbiamo
abbandonare il vecchio modello unicentrico e adottarne uno policentrico
in cui vi sia spazio e soddisfazione per tutti; è necessario
che noi tutti - sociologi, psicologi, politologi, antropologi,
pedagogisti, filosofi, economisti e via dicendo - ci si convinca
della utilità e possibilità di collaborare tra di noi, di superare
le differenze metodologiche e anche le diffidenze
relazionali. a)
Superare le differenze metodologiche: verso un paradigma olistico-riduzionista Un
contributo importante sul primo punto può venire dall'adottare
un modello comune, che a mio avviso deve essere al contempo
olistico e riduzionista. Sono consapevole che il termine
"olistico" susciterà in molti lettori perplessità
e le comprendo; ancor più perplessità susciterà poi abbinare
due approcci così (apparentemente) antitetici come olismo e
riduzionismo. Permettetemi dunque di sviluppare i motivi della
mia proposta metodologica. Come
emerge anche da una ricerca che sto svolgendo[8],
sono molti gli studiosi consapevoli dei limiti del metodo riduzionista,
ma la maggior parte preferisce non avventurarsi sul terreno
nuovo e incerto dell'olismo; essi concordano sul fatto che vi
sia una fitta trama di interconnessioni tra livelli, processi,
oggetti, ma pongono la rilevante obbiezione che l'olismo dispone
per ora solo di metodi qualitativi mentre manca di metodi e
strumenti quantitativi che permettano di affrontare la complessità
con lo stesso grado di precisione e replicabilità di quelli
riduzionisti. D'altra
parte, se si continua a focalizzarsi su un solo livello o dimensione
per volta - come è avvenuto finora a causa del metodo riduzionistico
a variazione unitaria dei fattori - si ha inevitabilmente una
visione incompleta e statica di ciò che avviene sul piano individuale
e collettivo, il che in uno scenario fluido e veloce come quello
attuale significa lasciarsi sfuggire proprio gli aspetti più
significativi. Si
tratta di un serio dilemma: a)
tenere conto qualitativamente della complessità senza però riuscire
a fornirne misurazioni quantitative certe e replicabili, oppure b)
continuare ad utilizzare modelli e strumenti quantitativi che
però, nel ridurre drasticamente la complessità della realtà,
ne danno una visione frammentaria e statica. Finora
la situazione si è mantenuta in uno stato di impasse a causa
di tale dilemma, e come avviene in tali casi, dubbio per dubbio
la maggioranza ha preferito mantenersi fedele al modello riduzionista,
già collaudato e accreditato. Tuttavia,
come ho ipotizzato in alcuni miei recenti lavori, è possibile
ricercare una terza via che non veda i due approcci come antagonisti
ed autoescludentisi, ma come metodi complementari, punti di
vista con pari dignità che possono collaborare per fornire una
visione più soddisfacente della realtà[9]. La
caratteristica di fondo di un tale orientamento dovrebbe essere
la capacità di superare la sterile contrapposizione che ha finora
segnato i rapporti tra olismo e riduzionismo e ammettere esplicitamente
la possibilità che coesistano visioni diverse e ugualmente valide
della realtà, non autoescludentisi ma anzi complementari. Come
ha evidenziato la fisica quantistica (v. principio di complementarità
di Bohr e principio di indeterminazione di Heisenberg) a seconda
del modo in cui si osserva, un evento sub-atomico può apparire
in modi diversi; ad esempio la luce può essere vista ora come
fascio di particelle (fotoni), ora come flusso di onde elettromagnetiche.
La visione corpuscolare porta a individuare oggetti distinti,
mentre la visione ondulatoria rileva processi dinamici, pertanto
la prima porta ad una visione oggettuale e materiale
del mondo (quella tipica del paradigma meccanicista dominante),
la seconda a una visione processuale e informazionale
(il paradigma olistico emergente). Tuttavia, nessuno dei due
punti di vista è in assoluto migliore dell'altro, e ciascuno
presenta sia vantaggi che svantaggi. Uno dei limiti della visione
corpuscolare-oggettuale è di considerare ogni oggetto come realtà
in sé, perdendo di vista il collegamento con gli altri oggetti,
collegamento che è invece in primo piano nella visione processuale,
dal momento che ogni processo è dato da una interazione tra
poli opposti/complementari. D'altra parte, vi sono limiti anche
nella visione processuale, ad esempio l'indifferenziazione,
la negazione dell'individualità. Come
ho meglio sostenuto nei lavori in precedenza citati, vi sono
fondati motivi per ritenere che quanto sin qui possa essere
valido non solo per la realtà fisica, ma anche - e forse a maggior
ragione - per la realtà sociale. La lezione della meccanica
quantistica è chiara a riguardo: entrambe le visioni sono legittime,
dobbiamo solo essere consapevoli del loro carattere relativo
e del fatto che la loro maggiore o minore utilità dipende dallo
scenario e dagli scopi dellosservazione: ad es., in un
mondo sociale semplice e lento, la visione corpuscolare-analitica
può essere più agevole e comoda, mentre in una realtà più complessa
e dinamica è la visione processuale a risultare più adatta. La
risposta dunque non va ricercata in un passaggio drastico dal
riduzionismo dominante ad un predominio dellolismo: ciò
infatti non farebbe che invertire, senza risolverlo, i termini
del problema. Si rende semmai necessario un paradigma in grado
di comprendere e conciliare entrambe gli approcci un
approccio al contempo settoriale e globale, specialistico e
generalistico, riduzionistico e olistico - poiché entrambi i
modi di vedere sono legittimi e utili e nessuno dei due, da
solo, è pienamente soddisfacente. In
attesa di una evoluzione epistemologica e metodologica non dobbiamo
tuttavia rallentare l'impegno e gli interventi concreti, che
potrebbero fin d'ora svilupparsi in forme di collaborazione
che - parafrasando il noto approccio GLOCAL - partano da una
visione globale (olistica) sviluppando azioni locali (cioè con
strumenti settoriali) ma coordinate tra loro. b)
Superare le diffidenze relazionali Quella
su esposta è in sintesi la mia proposta per superare le differenze
metodologiche, ma come ricorderete avevo accennato anche alla
necessità di superare le diffidenze relazionali, e non
si tratta di un punto secondario, perché per collaborare proficuamente
non basta avere linguaggi e modelli in comune. In ogni iniziativa
non saremo presenti solo nei nostri ruoli di scienziati ma anche
in qualità di persone, con le nostre esigenze e le nostre paure,
con le nostre personalità e le nostre sensibilità. Quindi è
indispensabile mettersi in gioco anche sul piano personale,
lavorare assieme per trovare nuove forme di relazione e collaborazione,
nuove forme di dialogo anche sul piano delle dinamiche interpersonali
e di gruppo. Non credo si possa predicare la pace e la collaborazione
agli altri se noi per primi non siamo in grado di impostare
relazioni creative e costruttive con i nostri colleghi. Tutto
ciò può sembrare ancora più utopistico della già temeraria proposta
metodologica di una sintesi tra olismo e riduzionismo, ma anche
qui non vedo onestamente altre strade. Come diceva il mistico
San Giovanni della Croce "per andare nel luogo che non
conosci devi prendere la strada che non conosci". Seguendo
le strade già battute non arriveremo mai alla pace, questo è
certo, ampiamente comprovato da millenni di storia. Se c'è qualche
possibilità - e io voglio sperare che ci siano - esse sono raggiungibili
solo seguendo strade nuove, e perché allora non iniziare noi,
che abbiamo scelto di confrontarci su questi temi, a seguirla? Conclusioni Concludo
questo mio intervento con l'auspicio che questo convegno e questo
libro rappresentino un punto di partenza per una reale collaborazione
scientifica e umana tra tutti coloro che, nellUniversità
e nella società civile, si impegnano a favore della pace e della
comunicazione tra gli individui, i popoli, le culture. Uniti,
potremo riscuotere la giusta attenzione politica e ottenere
adeguate risorse per grandi interventi di sensibilizzazione,
di educazione, di formazione e consulenza che coinvolgano attivamente
la scuola, l'università, i media, gli enti socio-sanitari; interventi
che attraverso un reale miglioramento della comunicazione e
delle relazioni interpersonali ai diversi livelli, depotenzino
i vecchi schemi culturali di conflittualità distruttiva e di
competizione a somma zero sostituendoli con confronti costruttivi
e creativi che si traducano in un maggior guadagno individuale
e sociale per tutti.
*
Enrico Cheli è professore di Sociologia delle comunicazioni
di massa allUniversità di Siena e coordinatore presso
la medesima del Master in Comunicazione e relazioni interpersonali;
è inoltre docente nel dottorato di ricerca in Sociologia
della comunicazione (Università di Firenze) ed ha insegnato
per molti anni alla LUISS di Roma, tenendo gli insegnamenti
di Teorie e tecniche delle comunicazioni di massa
e di Sociopsicologia delle comunicazioni di massa. Sociologo
e psicologo, è autore o coautore di varie pubblicazioni,
tra cui: L'immagine del potere (FrancoAngeli, 1986) -
L'ora di punta dell'informazione (idem, 1989) - La
realtà mediata (idem 1992); Giovani a rischio e prevenzione
ecosistemica (1995) Letà del risveglio interiore
(2001) Difendersi dai media senza farne a
meno (2003). Con N. F. Montecucco ha curato una Enciclopedia
olistica su CD-ROM di prossima pubblicazione che raccoglie
contributi di oltre 100 studiosi italiani e stranieri sulla
prospettiva olistica nella cultura, nella spiritualità e
nella scienza. Fa parte del direttivo della sezione italiana
del Club of Budapest associazione internazionale
per la pace e la coscienza planetaria e affianca
alla attività accademica un forte impegno sociale per la
pace, lecologia, e lo sviluppo della consapevolezza
individuale e collettiva. E-mail: cheli@unisi.it [1]
Qui vale ricordare che secondo M. Weber il potere è la capacità
di ottenere obbedienza da coloro che preferirebbero agire
altrimenti. [2]
I riferimenti vanno alla psicologia analitica (cfr.
in particolare il concetto di "ombra", Jung, 1977)
alla analisi transazionale (Berne E., 1967) e al
voice dialogue (Stone H. e Stone S., 1996; 1999). [3]
Facciamo l'esempio di un movimento molto semplice quale
la flessione dell'avambraccio sul braccio, come quando si
vogliono "mostrare i muscoli"; in tal caso il
bicipite brachiale funge da agonista (cioè si contrae) fornendo
la necessaria energia per il movimento, mentre il tricipite,
posto dall'altro lato dell'omero, deve distendersi, seppur
in modo controllato, più o meno "frenato", fungendo
da antagonista. Facendo poi il movimento opposto di distendere
il braccio, i ruoli si invertono e sarà il tricipite a trainare
e il bicipite a doversi rilassare. Ogni movimento richiede
quindi un duplice e sincronico messaggio da parte del sistema
nervoso: uno di contrazione al/agli agonisti e uno di distensione
controllata al/agli antagonisti. [4]
Se in occidente il concetto di opposti complementari
è stato per lo più ignorato o avversato fin dai tempi
della filosofia greca (eccettuato Eraclito e pochi altri),
esso è invece ben sviluppato nella cultura orientale,
dove si ritrova declinato in vari modelli e metafore: dalla
trimurti hindu costituita dalle divinità Bhrama -
Vishnu - Shiva (che simboleggiano le tre forze
opposte e complementari della creazione, del mantenimento
e della trasformazione) fino al modello taoista del t'ai
chi tu, che rappresenta l'interazione tra i principi
opposti e complementari Yin e Yang (principio
femminile, passivo, e principio maschile, attivo) ed esprime
magistralmente sul piano grafico i concetti di unità, dualità,
complementarità ed equilibrio dinamico. [5]
Per comprendere che il paradosso è solo apparente, è utile
collegarci all'esempio illustrato poco sopra del movimento
corporeo come gioco tra muscolatura agonista e antagonista
(v. nota preced.); in particolare è interessante notare
che in ogni disciplina sportiva uno dei maggiori impedimenti
del principiante, uno dei fattori che più ne limitano le
prestazioni rispetto all'atleta evoluto, è proprio la difficoltà
di coordinare i due impulsi nervosi, cioè l'azione cooperativa
dei due gruppi muscolari, del sistema agonisti-antagonisti.
Il principiante, cioè, non riesce bene ad inviare messaggi
contraddittori del tipo "rilassa e contrai", non
riesce a padroneggiare bene il paradosso e quindi
contrae anche ciò che non dovrebbe, il che ovviamente limita
potenza, fluidità e quindi efficacia dei suoi gesti, comportando
anche un'affaticamento molto maggiore. [6]
Cfr. J. von Neumann e O. Morgensten, 1944. [7]
Vorrei ricordare che è proprio uno di questi Master
quello in Comunicazione e relazioni interpersonali
per esperti in mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti
dellUniversità di Siena - che si è fatto promotore
di questo convegno e colgo loccasione per dare alcuni
cenni in proposito. Si tratta di un corso, giunto alla II
edizione, che affronta specificamente i temi della mediazione
e della educazione relazionale alla cooperazione, al lavoro
di gruppo e alla risoluzione pacifica dei conflitti di cui
si diceva più sopra, preparando esperti in grado di lavorare
in vari settori: socio-sanitario e socio-assistenziale,
organizzativo e aziendale, educativo-formativo. La durata
è di sedici mesi (con lezioni intensive nei week end per
favorire la partecipazione di chi già lavora) e possono
iscriversi in primo luogo laureati in sociologia, psicologia,
scienze della comunicazione, scienze della formazione e
assistenti sociali. Ulteriori informazioni allindirizzo
web: www.unisi.it/master-com-rel [8]Cfr.
E. CHELI, Indagine sul dibattito in corso tra modelli
dominanti e nuove tendenze nella comunità scientifica, rapporto
di ricerca inedito, 2002. [9]
Cfr. Cheli E., Solve et coagula - paper presentato
al convegno "Dalla frammentazione alla globalità",
Arezzo, 03/04/2001. Cheli E., Olismo e riduzionismo nella
scienza, nella cultura e nella mente, in corso di stampa;
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