1.Il
conflitto nelle scienze sociali. Il concetto di conflitto
è senza dubbio un concetto centrale nell'apparato conoscitivo
elaborato dalle scienze sociali contemporanee. La sua importanza
è ampiamente testimoniata dalla vastissima bibliografia
dedicata al tema da alcune discipline non sempre strettamente
apparentabili come l'economia, l'antropologia culturale, la psicologia
sociale e la sociologia. Non a caso il concetto di conflitto è
stato adottato come una delle chiavi di lettura della variegata
fenomenologia sociale del nostro tempo ed ha rappresentato il
fulcro di una teoria generale dalle molteplici applicazioni da
cui si è originata una disciplina distinta: la polemologia.
Non è questa la sede più idonea per effettuare una
rassegna delle definizioni che del conflitto sono state date anche
perchè ogni scienza sociale presenta una definizione specifica
congruente con il suo punto di vista analitico ed insiste su di
un ambito altrettanto specifico di applicazione. E' comunque opportuno
qualche esempio.
La
psicologia parla di situazione conflittuale con riferimento a
forze psichiche (o, se si preferisce, orientamenti affettivi,
inclinazioni soggettive) di segno contrastante che producono una
tensione a volte devastante a carico dell'identità . Il
costo sostenuto al livello della personalità è
proporzionato alla difficoltà di trovare una soluzione
per il conflitto. Naturalmente non va dimenticato che il processo
di formazione della personalità può essere concepito
anche come risultante dalla capacità di superamento dei
costi cui questo tipo di tensione, o se si preferisce di conflitto
intrapersonale, sottopone il singolo attore. Nella letteratura
specialistica si stabilisce poi una relazione diretta fra le forme
di conflitto intrapersonale ed i conflitti interpersonali; ma
vale anche la direzione inversa. Le dinamiche interno-esterno-interno
che percorrono il variegato campo dell'azione sociale sono operanti
in maniera pluridirezionale con la conseguenza che le tensioni
interiori provocate dall'opposizione istinto-repressione possono
trovare uno sbocco nell'aggressività dell'individuo verso
gli altri. Il tema dell'aggressività confina con quello
della violenza e ci conduce all'analisi delle forme patologiche
ed estreme del conflitto, anche se è opportuno non dimenticare
la distinzione proposta da Erich Fromm tra aggressività
difensiva ed aggressività distruttiva. La reazione degli
altri all'azione aggressiva ha conseguenze sia al livello sociale
sia al livello della personalità . Naturalmente una condizione
di conflitto sociale diffuso e permanente nel tempo viene interiorizzata
dal soggetto già nel corso del processo di socializzazione
primaria e concorre alla formazione di un'identità particolare
così come all'organizzazione di alcune istituzioni che
qualificano le loro funzioni in relazione alla pervasività
della dimensione conflittuale. Sta di fatto che il conflitto intraindividuale
può essere inteso anche in una chiave sociologica quando
lo si possa collegare ad un conflitto tra istituzioni ed alla
divaricazione di finalità vissuta dall'attore che deve,
non di rado, dividere la sua lealtà tra l'una o
l'altra istituzione. L'esito di questa divaricazione di lealtà
è il blocco dell'azione, l'incapacità di decisione.
Le manifestazioni collegate a questo stato di conflittualità
endemica vanno dalla timidezza alla schizofrenia e sembra piuttosto
ardito sostenere che forme acute di conflitti della personalità
si possano ascrivere a forme di conflitto sociale anche se inevitabilmente
il cattivo funzionamento di alcune istituzioni le può promuovere
e cronicizzare.
La
riflessione sul trasferimento dei conflitti psichici nel campo
della società rappresenta un tema ricorrente nel pensiero
sociologico classico ogni qualvolta si affronta la questione complessa,
e tuttora aperta, dei rapporti fra individuo e società .
A questo proposito è d'obbligo un riferimento, che ha un
valore non solo storico, alla Field Theory (teoria del
campo) elaborata da Kurt Lewin allorchè nel 1945 era direttore
del Research Center for Group Dynamics presso il Massachusetts
Institute of Technology. Lewin è stato un maestro della
psicologia sociale anche perchè si è sempre sforzato
di imporre la sperimentazione in un'area problematica dove il
confine tra sociologia e psicologia sociale diventa estremamente
labile, come comprovano i suoi saggi raccolti nel famoso Resolving
Social Conflict (1948). Lewin sviluppa una prospettiva dinamica
per lo studio dei processi psicologici e sociali a partire dalla
relazione tra individuo concreto e situazione concreta. La sua
"teoria del campo" sostiene che accanto alle pressioni
psicologiche (interne), esistono e sono operanti delle pressioni
sociali (esterne); la loro combinazione nelle diverse situazioni
concrete definisce la formazione, di volta in volta, di uno spazio
psicologico socialmente determinato che egli chiama, appunto,
"campo". La percezione dello spazio sociale e l'indagine
sperimentale della dinamica e delle leggi dei processi che si
svolgono nell'ambito dello spazio sociale hanno un'importanza
teorica e pratica fondamentale. A dire di Lewin lo spazio sociale
ha caratteristiche omologhe a quello dello spazio empirico reale
e merita un'attenzione da parte degli studiosi di geometria e
di matematica pari a quella che tradizionalmente essi dedicano
allo spazio fisico. Da qui la sua fondamentale ispirazione proveniente
dalla topologia e l'uso frequente di disegni e di diagrammi esplicativi,
talvolta un poco esoterici. Esemplare sotto questo rispetto la
descrizione sviluppata nello studio dedicato a The Background
of Conflict in Marriage (1940). Lewin, riflettendo
su di un caso concreto, quello dei conflitti che si manifestano
nella sfera matrimoniale si pone una domanda cruciale: l'individuo
come può trovare uno spazio di libertà di movimento
sufficiente a soddisfare i suoi bisogni personali nell'ambito
del gruppo senza interferire con quelli che si ritengono gli interessi
del gruppo medesimo? Lewin fa precedere la sua risposta da un'esplorazione
acribica illustrata da ben diciotto diagrammi che presentano:
il marriage group come parte di una serie di gruppi più
inclusivi (la parentela e la comunità ); il singolo attore
considerato come membro di una serie di overlapping groups
(dalla famiglia, alla professione, al partito politico); una gamma
di relazioni interne al marriage group che toccano delle
regioni vitali della persona e configurano gradi differenti di
intimacy tra gli stessi membri del gruppo primario.
Questa ricostruzione dinamica prevede l' applicazione di una griglia
generale relativa ai fattori d'insorgenza del conflitto al caso
specifico del campo matrimoniale. In particolare, ci si sofferma
sulla questione dello spazio di libertà di movimento dell'attore
la cui limitazione rappresenta uno dei principali fattori di tensione.
In quest'ambito di esplorazione diventa significativo considerare
che gli eventi relazionali esterni alla vita di coppia assumono
una profonda differenza nel life-space tipico del marito
ed in quello tipico della moglie. Altrettanto importante è
ridisegnare queste dinamiche in funzione dell'anzianità
della relazione coniugale; infatti i conflitti che si manifestano
nella situazione di matrimonio di fresca data hanno a che vedere
soprattutto con la difficoltà di conciliare i bisogni
personali con quelli del partner: l'enfasi contemporanea sul carattere
privato del mènage matrimoniale fa sì che the
atmosphere of the group dipenda sempre più dalla responsabilità
e dalle scelte dei singoli attori. Sta di fatto che nei mènage
recenti si sviluppa una conflittualità tipica cui corrisponde,
tuttavia, una maggiore flessibilità di soluzione. E' appena
il caso di osservare che Lewin sa ricostruire e sa descrivere
con dovizia di argomentazioni la dinamica conflittuale nell'ambito
del gruppo e sa valutare con acume l'influenza che il gruppo esercita
sul singolo attore coinvolto, nonchè la complessa interazione
di segno opposto, ma complementare, che dipende dal rapporto tra
le esigenze individuali e quelle del gruppo. Risulta assai meno
interessante, invece, e pochissimo sviluppata la terapia indicata
per la soluzione dei conflitti (Lewin 1948, 101). L'indagine sistematica
condotta da Lewin sulle reazioni di un attore che si imbatte in
un dilemma di scelta in un campo sottoposto a tensione lo fa approdare
ad una proposta di tipologia di conflitti espressa in forma di
tipi ideali: il conflitto fra forze di pulsione; il conflitto
fra forze di pulsione e forze di arresto; il conflitto fra forze
personali e forze indotte. Al di là della sua efficacia
esplicativa, la tipologia di Lewin mette in luce uno degli orientamenti
ideologici più diffusi nella ricerca sul tema: i conflitti
sono endemici alla natura dell'uomo (e della società )
e dato che sono a volte perniciosi vanno composti e superati:
compito essenziale della ricerca, allora, sarebbe quello di rintracciare
un punto di equilibrio e dunque di superamento. Ci siamo dilungati
nell'esemplificazione di come la problematica conflittuale viene
trattata da uno psicologo sociale perchè in questo modo
si è anche constatato come del conflitto e delle sue possibili
forme si possa parlare sia ad un livello micro sia ad un livello
macro.
Un
altro tentativo importante perchè si è svolto in
una zona interdisciplinare, anche se ha avuto forse maggiore consistenza
nelle scienze economiche e nelle relazioni internazionali, è
quello dovuto alla teoria dei giochi il cui fine eminente è
di analizzare l'azione di attori che si confrontano su di un terreno
dove le regole e le condizioni del gioco sono predeterminate.
Gli attori hanno un fine e si attrezzano razionalmente per raggiungerlo;
il loro comportamento è supposto essere sempre e comunque
un comportamento razionale. Non è qui la sede più
opportuna per ricostruire analiticamente la teoria dello Zero-sum
Game è, invece, importante svelare il postulato di
base che orienta questa teoria e che al tempo stesso ne limita
le possibilità euristiche in tema di analisi del conflitto:
ogni attore agisce in maniera che le sue scelte nell'affrontare
l'altro si approssimano sempre meno alle zone di incertezza che
possono scatenare l'insicurezza di comportamento. In un certo
senso questo orientamento costante della dinamica attiva nel gioco-conflitto
instaurato fra gli attori riflette la rigidità irrinunciabile
dell'impostazione razionale nella dinamica del gioco. Non è
stato difficile avanzare delle critiche a carico di questa teoria
impostate proprio sulla irriducibilità del conflitto al
gioco. Se è nella natura del gioco avere delle regole che
ne guidano lo svolgimento è altrettanto tipico del conflitto
svolgersi senza regole (così è almeno in alcune
delle sue forme socialmente emergenti) ed avere una durata non
prefissata.
2.Il
conflitto: una definizione sociologica e problematica.
La teoria sociologica del conflitto ha le sue radici nella filosofia
sociale e nella filosofia politica. Non è possibile non
menzionare i nomi di Machiavelli, Hobbes, Hume e di Ferguson cui
si aggiungono le teorie di Malthus e di Darwin che indicano nella
lotta per l'esistenza e nel principio della sopravvivenza ed in
quello del dominio del più dotato un principio organizzatore
della società . Il pensiero sociologico classico alla pari
di quello contemporaneo pone il conflitto al centro dell'esperienza
sociale in aperta polemica da un lato con l'organicismo positivistico
che ha mostrato interesse solo per i processi di integrazione
e, dall'altro lato, con lo struttural-funzionalismo che si è
focalizzato sulla dimensione del consenso e dell'equilibrio sociale,
impegnandosi soprattutto nel tentativo di dare una risposta adeguata
all'interrogativo: come si spiega l'ordine sociale? Le diverse
impostazioni analitiche pongono una relazione stretta fra
conflitto, mutamento ed incremento della complessità del
quadro societario globale. L'analisi sociologica ci propone, naturalmente,
una visione del conflitto come fenomeno collettivo. Ciò
significa che gli attori che contendono lo fanno in nome di categorie
sociali le più diverse e agendo sviluppano uno sforzo a
difesa di interessi antagonistici che hanno, comunque, delle connotazioni
meno distanti di quanto si possa pensare. L'azione di conflitto
svela, promuove e rafforza l'appartenenza sociale di chi
si espone alla competizione.
La
fenomenologia del conflitto viene ricostruita dall'indagine che
la sociologia conduce da molti lustri attorno al problema dell'ordine
e del mutamento. La rassegna di teorie che ci si propone di presentare
in modo molto selettivo nei paragrafi che seguono dimostra, a
ben guardare, che l'ordine sociale tipico dell'epoca contemporanea
si manifesta come un ordine che sa mantenersi nel cambiamento
di certi suoi elementi e pur nella protesta e nel dissenso. Il
conflitto e la regolazione del conflitto assumono la funzione
fondamentale di garantire questo tipo di ordine che non è
statico e che ha bisogno, anzi, di un tipo particolare di cambiamento.
Il primo compito da adempiere, tuttavia, sembra esser quello di
mettere a fuoco i concetti. In questo ambito problematico la distinzione
classica tra guerra e conflitto merita di essere messa a
punto, a meno che non si vogliano compiere degli abusi terminologici
che poi si pagano gravemente sul piano dell'analisi. La guerra
si distingue dal conflitto sia perchè prevede l'annullamento
totale dell'avversario sul piano fisico o sul piano sociale sia
perchè solitamente si instaura tra due soggetti collettivi
che mirano a sopprimere l'autonomia dell'altro (il nemico), ad
eliminare le sue radici sul territorio ed incorporarne tutte le
risorse sia perchè i mezzi che usa sono espressione di
un'organizzazione istituzionale straordinariamente importante
(esercito). La guerra non di rado può scaturire da un conflitto
che diventa cronico e che può dare soluzione ai suoi problemi
solo attraverso una forma di confronto totale e violento. E' appena
il caso di accennare che nel mondo moderno sono soprattutto gli
Stati nazionali a promuovere i grandi conflitti bellici e a controllarne
gli effetti devastanti; gli Stati nazionali sono soprattutto i
detentori, in forma di quasi monopolio, dei mezzi di coercizione
più importanti.
Una
tra le definizioni possibili di conflitto è quella che
lo presenta come un rapporto di opposizione che intercorre almeno
tra due attori, individuali o collettivi, in quanto perseguono
finalità incompatibili. Il conflitto si traduce in azioni
di potere che determinano una forma di relazione diversa in vista
di una rinnovata distribuzione delle risorse che gli attori confligenti
reputano essenziali. Charles Tilly scrive che "vi è
conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanza pretese
di segno negativo nei confronti di altre persone o gruppi,
pretese che, qualora venissero soddisfatte, danneggerebbero l'interesse
altrui cioè l'altrui probabilità di raggiungere
una situazione desiderabile" (Tilly 1992, 259). Ancora più
chiara, forse, la definizione proposta nel suo Dizionario di
Sociologia da Luciano Gallino: si definisce conflitto sociale
"un tipo di interazione più o meno cosciente tra due
o più soggetti individuali o collettivi, caratterizzata
da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo
scarse perchè i soggetti possono conseguire detti scopi
simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire
soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare
o deviare verso altri scopi o impedire l'azione altrui, anche
se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno,
sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo
che si persegue" (Gallino 1993,151). A fini definitori, poi,
anche per delimitare sociologicamente il campo, può essere
utile richiamare una tipologia esemplare proposta da Dahrendorf
che si articola in cinque tipi di conflitto: conflitti all'interno
e tra singoli ruoli sociali; conflitti all'interno di singoli
gruppi sociali; conflitti tra raggruppamenti sociali organizzati
(gruppi di interesse) o non organizzati (quasi gruppi); conflitti
tra gruppi organizzati o non organizzati che coinvolgono un'intera
società ; conflitti interni ad unità più
grandi. Si può considerare un'ulteriore tripartizione valutando
il rapporto gerarchico che si instaura tra le parti in conflitto:
avversari di pari rango; avversari superiori oppure subordinati
l'un l'altro; totalità di un'unità contro una
delle sue parti. Le possibili combinazioni classificatorie definiscono
quindici tipi di conflitto che possono essere studiati da una
gamma di teorie ad hoc: teorie del conflitto di ruolo, della concorrenza,
della lotta di classe, delle minoranze e del comportamento deviante,
della lotta con il ricorso ad un sistema elettorale, delle relazioni
internazionali. Ancora si può approssimare meglio l'estensione
del campo di indagine sul conflitto ove si prendano in considerazione
alcune distinzioni. Tra conflitto realistico e conflitto non realistico:
il conflitto realistico deriva da un contrasto di interessi-valori
contro un oggetto preciso e per un obiettivo determinato; il conflitto
non realistico deriva da impulsi aggressivi soggettivi che si
possono scaricare contro un qualsiasi soggetto. Tra conflitto
potenziale ed attivo: il conflitto potenziale è una situazione
capace di provocare dei processi conflittuali; il conflitto attivo
è un comportamento conflittuale empiricamente osservabile.
Tra conflitto manifesto e conflitto latente: il conflitto manifesto
osservabile fra due o più soggetti, è in certi casi
soltanto un sintomo di un diverso e più profondo conflitto
di cui non si scorge la natura reale e di cui gli stessi attori
non sempre hanno coscienza.
Tra
le spiegazioni generali del conflitto vale la pena di ricordare
la gamma di metateorie utili per orientare la ricerca, la teoria
e l'interpretazione degli eventi conflittuali proposta da Tilly.
La prima è la metateoria della tensione sociale. Essa parte
dall'idea che gli individui percepiscono la società come
sovraordinata ad essi e vivono quindi il conflitto come un fatto
patologico da prevenire e da reprimere. Il ragionamento sociologico
che si ispira tradizionalmente a questa metateoria è quello
di Emile Durkheim che lega l'anomia al conflitto. La seconda metateoria
è quella della lotta fra i gruppi. Essa presuppone che
la struttura della società sia formata dalla lotta interindividuale
ed intergruppo a difesa di interessi che quando sono contrastanti
comportano la deflagrazione del conflitto. Karl Marx è
l'espressione migliore dell'approccio conflittualista modellato
secondo questa metateoria. La terza metateoria viene indicata
come metateoria del carattere intrinseco. Essa ha una connotazione
specifica in termini di determinismo biologico: il conflitto scaturisce
dall'istinto di lotta e dall'aggressività che, ad esempio,
Konrad Lorenz ritiene prodotta sulla base della selezione genetica
la quale affida la sopravvivenza della specie a questa capacità .
Si affiancano a questa metateoria quegli approcci di stampo marcatamente
conservatore che fanno riferimento alla natura malvagia ed immodificabile
dell'uomo ed al bisogno di ordine che scaturisce da questo presupposto
presociale. Infine la ricca tipologia di conflitti etnici, razziali,
religiosi viene ricondotta alla quarta metateoria delle relazioni
fra i gruppi che riporta il conflitto al pregiudizio e più
in generale a delle smagliature culturali che vanno ricucite con
un progetto di ingegneria sociale che propugni l'educazione civica,
il modello di società pluralista et similia. E'
molto importante per la composizione e per l'annullamento
del conflitto che le relazioni fra i gruppi diventino più
intense e che le pratiche di comunicazione si intensifichino ad
ogni livello e perdurino nel tempo. Un bilancio complessivo degli
studi condotti sulla scia di queste metateorie svela che la più
parte delle ricerche contemporanee adottano la metateoria della
tensione sociale e quella della lotta fra i gruppi. Tuttavia il
quadro sociale che in concreto fa da sfondo al conflitto è
vario nei suoi elementi costitutivi a partire dagli attori che
sono i protagonisti per finire alle strategie adottate; non v'è
dubbio che le metateorie e le teorie si devono adattare all'eterogeneità
ed alla complessità del quadro empirico.
3.Il
conflitto sociale nel pensiero sociologico classico.
La sociologia positivista dell'Ottocento non aveva un interesse
diretto allo studio della fenomenologia conflittuale. L'influenza
dell'Illuminismo sulle prime riflessioni sociologiche denuncia
piuttosto il senso di relativo ottimismo che la società
europea colta del tempo nutre verso gli effetti di trasformazione
determinati dalla rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale.
I padri della sociologia da un lato sono convinti che la storia
dell'uomo proceda lungo un itinerario di progresso irreversibile,
dall'altro lato sono convinti che uno dei compiti fondamentali
delle scienze sociali sia quello di controllare razionalmente
gli aspetti critici che le due grandi rivoluzioni hanno prodotto
nella sfera della politica e nella sfera dell'economia; il fine
eminente della sociologia sembra esser quello di trovare un ordine
sociale efficace nell'assecondare l'evoluzione sociale.
La
tradizione sociologica conflittualista vede alle sue origini la
teoria del conflitto di classe di Karl Marx e di Friedrich Engels
e propone il materialismo storico come il tentativo di massima
drammatizzazione sociale del conflitto (Collins 1996, 36). Le
classi sociali sono gli attori collettivi che stanno costantemente
al centro della dinamica storica. Le classi sociali vengono configurate
nella loro composizione dalla forma storica dominante di proprietà .
Nelle società antiche la produzione era fondata sulla
proprietà degli schiavi; la classe principale era quella
dei patrizi proprietari degli schiavi cui si contrapponevano i
plebei, una sorta di classe intermedia che non era schiava ma
neppure proprietaria della forza lavoro centrale nell'economia
del tempo. Nella società feudale la proprietà
dei mezzi di produzione coincide, invece, con la proprietà
della terra e dei contadini; ne deriva che la classe dominante
è costituita dalla nobiltà terriera cui si affianca
e si oppone una terza classe formata dagli artigiani urbani e
dai mercanti nucleo della moderna borghesia che rivoluzionerà
successivamente il quadro della stratificazione.
Nella
società capitalistica, che costituisce lo scenario coevo
ai Dioscuri del socialismo scientifico, la forma di proprietà
emergente è quella del capitale industriale. La divisione
di classe principale corre fra i proprietari dei mezzi di produzione
(gli imprenditori borghesi) e il proletariato (operai di fabbrica)
che possiede solo la forza delle proprie mani ed è costretta
a venderla sul mercato del lavoro. Non si può non richiamare
la famosa citazione del Manifesto: " La storia di
tutte le società , svoltasi fin qui, è storia delle
lotte delle classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni
e servi della gleba, maestri capi delle arti ed artigiani addetti
alla compagnia in una parola, oppressi ed oppressori, stettero
continuamente in contrasto fra di loro e sostennero una lotta
non mai interrotta, a volte palese a volte dissimulata, una lotta
che è sempre finita, o con una trasformazione rivoluzionaria
di tutta la società , o con la totale rovina delle classi
in contesa ".
Mentre
nelle antiche forme di società la stratificazione era
assai articolata con la conseguenza che anche il conflitto fra
le classi assumeva aspetti non uniformi, nel corso del consolidamento
della società capitalistica si assiste ad una tendenza
polarizzante: " l'intera società si va, e sempre
di più in più, come scindendo in due campi nemici,
in due classi direttamente opposte: la borghesia ed il proletariato
". Anche il conflitto riflette nelle sue manifestazioni questo
processo di dicotomizzazione che è funzionale, tuttavia,
nell'attribuire al conflitto medesimo una capacità straordinaria
di trasformazione radicale della società . A Marx interessa
ricostruire le modalità di formazione delle classi sociali
come agenti di mutamento storico. Fondamentale per questo rispetto
è la differenza tra classi in sè cioè tra
aggregati sociali solo potenzialmente in grado di agire come soggetto
collettivo in quanto privi della coscienza dei propri interessi
e classi per sè. Si ha la maturazione a questo secondo
stadio della classe quando i soggetti che la compongono hanno
la chiara consapevolezza dei propri interessi e si organizzano
per difenderli e per affermarli facendo ricorso al conflitto come
unico metodo politicamente produttivo. Il punto chiave dell'argomentazione
sociologica marxiana riguarda l'importanza che ha il conflitto
per portare la coscienza politica individuale alla giusta maturazione
e per fare sì che la classe acquisti una sua unità
ed una sua autonomia rispetto agli individui: " I singoli
individui formano una classe in quanto debbono condurre una lotta
comune contro un'altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano
l'uno di contro all'altro, come nemici nella concorrenza. D'altra
parte la classe acquista a sua volta autonomia di contro agli
individui ".
La
classe operaia nel suo scontro con la borghesia capitalistica
introduce un elemento di volontarismo indispensabile per la teoria
del mutamento sociale elaborata dal materialismo storico anche
e forse soprattutto in una chiave analitica economicistica. Marx
ed Engels, infatti, individuano come conflitto strutturale un
contrasto tra le forze produttive e i rapporti storici di produzione;
questa contraddizione è il vero motore delle mutazioni
storiche epocali, essa comunque giunge a compimento solo grazie
alla spinta impressa dalla classe organizzata in partito. L'esito
del processo rivoluzionario è agevolato anche dalle caratteristiche
dimensionali delle due classi in conflitto: il Marx de Il Capitale
ci parla di un conflitto radicale che si va instaurando fra una
cerchia capitalistica sempre più ristretta -a causa della
spietata concorrenza che assottiglia progressivamente le schiere
degli imprenditori- ed una classe proletaria che si ingigantisce
sempre più perchè ingoia gli altri strati sociali
collaterali segnati dal destino della proletarizzazione inarrestabile.
Accanto
al conflitto fra le classi che rappresenta il tipo centrale di
conflitto Marx considera come tipi minori di conflitto quelli
intraclasse, vale a dire la concorrenza fra gli operai, i conflitti
etnici e quelli religiosi. Con il che si ammette che gli interessi
che motivano ad un'azione conflittuale anche su una scala collettiva
non sono solo ed esclusivamente di tipo economico. Pur tuttavia
questi conflitti minori si considerano nel modello marxiano solo
in quanto hanno come effetto perverso quello di indebolire l'unità
della classe e dunque di attenuare la sua capacità di
impatto nel corso di svolgimento del conflitto principale con
l'altra classe antagonista, dominatrice e sfruttatrice. Il conflitto
di classe ha il suo ambiente primario nella fabbrica ma si dilata
progressivamente alla città , alla regione, alla nazione
e su una scala internazionale in diretta connessione con l' analoga
capacità espansiva del capitale. La posta in gioco in
apparenza è l'organizzazione della produzione; nella sostanza
è il cambiamento della società , di cui il momento
produttivo rappresenta il cardine strutturante.
Una
ricostruzione storicamente esaustiva della collocazione del conflitto
nel pensiero sociologico deve, poi, valutare il relativo disinteresse
di molti orientamenti teorici per questa tematica. Lo strutturalfunzionalismo,
imperniato sui concetti di funzione e di sistema sociale, non
può far altro che rigettare la prospettiva conflittualista
oppure inglobarla limitando i fenomeni di conflitto ad un'esperienza
non decisiva del quadro societario e tale, comunque, da corrispondere
alle sue esigenze di funzionalità . Allo stesso esito,
anche se non si può dire che appartenga alla scuola integrazionista,
approda la concezione soggettiva dell'azione sociale che ispira
la sociologia comprendente, l'interazionismo simbolico e la sociologia
fenomenologica. Forse la sociologia della conoscenza potrebbe
illustrare i motivi profondi dell'alternarsi di cicli in cui il
conflittualismo assume il ruolo di chiave analitica cruciale a
cicli in cui, invece, il nodo da sciogliere è relativo
alla formazione del consenso, alla densità dei legami
associativi, alla diffusione della solidarietà , all'integrazione
del sistema. Sta di fatto che in qualche autore che qui non può
esser visto in profondità come meriterebbe
si nota un esasperato formalismo terminologico ed il gusto di
un approfondimento analitico che sembra a volte sconfinare nel
paradosso. E' il caso di George Simmel che nella sua Soziologie
(1908) non adotta il termine Konflikt, ma quelli solo
parzialmente equivalenti di Streit e di Kampf. Il
conflitto, secondo Simmel, ha una valenza tutt'altro che patologica
ed è inteso come una delle forme di associazione che governano
il processo interattivo. Ecco una citazione emblematica: "I
rapporti conflittuali non producono una struttura sociale di per
sè stessi, ma sono sempre in correlazione con le forze
coesive. Così solo gli uni e le altre, insieme, costituiscono
il gruppo come unità vitale reale. In questa prospettiva
i primi difficilmente si distinguono da qualsiasi altra forma
di rapporto che la sociologia astrae dalle molteplicità
dell'esistenza reale. Nè l'amore, nè la divisione
del lavoro, nè il comune atteggiamento di due nei confronti
di un terzo, nè l'amicizia, nè l'appartenenza ad
un partito, nè i rapporti di comando e subordinazione dovrebbero
potere produrre un'unità storica o sostenerla permanentemente.
E dove questo caso si verifica, tuttavia, il processo così
indicato contiene già una molteplicità di forme
distinte di rapporti. E' la natura dell'animo umano che non si
lascia legare da un solo filo all'altro individuo anche se l'analisi
scientifica si ferma solo alle unità elementari nella
loro specifica forza coesiva ".
In
breve, distanziandosi in buona parte dai suoi contemporanei, Simmel
ha mostrato la necessità di assumere il conflitto come
unità , cioè come relazione nella quale la
tensione introdotta dagli elementi dissociativi è comunque
connotata in modo associativo. Infatti la vittoria totale di una
parte sull'altra comporterebbe non solo la fine del conflitto
ma anche dell'associazione. Sia come sia, ciò che conta
forse a fini analitici è mantenere una visione
dell'interazione che ci consenta di guardare al rapporto tra Ercole
ed Anteo non tanto come un abbraccio che tende a configurare il
conflitto in una direzione unitaria, ma come un tentativo (ben
impostato) di orientare l'interazione in vista dell' annientamento
dell'avversario.
A
questa stessa impostazione sembrano ispirarsi nel famoso manuale
Introduction to the Science of Sociology del 1921 i fondatori
della Scuola ecologica di Chicago. Robert E. Park e Ernest Burgess
hanno proposto una distinzione fra competizione e conflitto
in una maniera formale che verrà riecheggiata dalla teoria
dei giochi con un senso sociologico che non ha trovato
molto spazio nelle teorie contemporanee. La competizione è
una forma di lotta tra individui e/o tra gruppi che non comporta
necessità di contatto e di comunicazione, come avviene
in caso di conflitto. Il conflitto presuppone coscienza, la competizione
no; la competizione è una forma di lotta continua ed impersonale,
il conflitto è intermittente e personale. Secondo Dahrendorf,
per citare un illustre critico, questa distinzione non avrebbe
molta rilevanza perchè in ambo i casi alla base del
contendere c'è una scarsità di risorse. Tutto sommato
sembra che diventi più utile per la ricerca sociologica
lavorare su tipi diversi di conflitto a seconda dell'ambito istituzionale
di riferimento perchè, oltrechè esser promossi da
attori diversi, in questo modo i conflitti hanno una caratterizzazione
specifica. In questo modo, inoltre, si esce dall'ambiguità
di riferimento che, a ben vedere, è contenuta nell'espressione
conflitto sociale ove non si attribuiscano al processo dei confini
e degli ambiti di espressione.
4.Ralf
Dahrendorf : nuove tendenze del conflitto di classe.
A distanza di oltre quarant'anni dalla pubblicazione di Soziale
Klassen und Klassenkonflict in der industriellen
Gesellschaft (1957) si può affermare che questo saggio,
nonostante il suo impianto analitico sincretico, rappresenta una
tappa importante del pensiero sociologico moderno e dunque merita
in questo capitolo una trattazione ad una distanza più
ravvicinata. Dahrendorf sembra voler perseguire un duplice obiettivo.
Il primo fine dichiarato è quello di una critica costruttiva
di Marx, il secondo è quello di sostituire o, forse meglio,
di integrare la prospettiva dello struttural-funzionalismo con
una teoria della coercizione adeguata alle caratteristiche strutturali
della società del nostro tempo ed ad un conseguente rilancio
di una rinnovata teoria del conflitto. La rivisitazione di Marx
fornisce gli elementi di sostegno per una teoria del conflitto
che svela, tra l'altro, anche le debolezze ed i limiti euristici
della teoria di Talcott Parsons. A questo proposito è sufficiente
ricordare il legame diretto che Dahrendorf stabilisce tra conflitto
e mutamento sociale e l'idea che il conflitto concerne sempre
e soprattutto due posizioni di interesse contrapposte: due classi
sociali fondamentali. Si tratta, ovviamente di un'idea di derivazione
marxiana, che viene però riformulata in un quadro sociale
e politico che non è più quello del capitalismo
europeo dell'Ottocento. Marx ci ha lasciato una teoria conflittuale
del cambiamento sociale di indubbia utilità sul piano
storico ove però la teoria delle classi e del conflitto
di classe rappresenta il legame problematico tra l'analisi sociologica
e la speculazione filosofica. Dahrendorf si preoccupa di individuare
gli elementi filosofici, ovvero sociologicamente spuri, nell'ambito
della sociologia di Marx intendendo per tali quelle proposizioni
che non possono essere ricondotte a verifica empirica come quelle
che annunciano, profeticamente, l'avvento di una società
senza classi e dunque a-conflittuale.
La
via ad una critica sociologica di Marx non nega tuttavia che Marx
abbia felicemente intuito il ruolo che "vasti ed anonimi
raggruppamenti di individui" hanno nei grandi cambiamenti
sociali. Così come ha il merito di aver intuito che i conflitti
sociali attraverso i quali si attuano tali mutamenti non sono
casuali ma generati dalla struttura stessa della società .
Ancora: Marx avrebbe ragione quando sostiene che in ogni situazione
storica di cambiamento un conflitto sarebbe dominante; ossia lo
schema delle due classi in conflitto, una delle quali lotta per
conservare lo status quo e l'altra per cambiarlo sarebbe
da mantenere. La riduzione dicotomizzante sembra a Dahrendorf
endemica allo stesso concetto di conflitto come prova la pars
construens del suo contributo. Ma lo sforzo prioritario è
quello di avanzare una serie di rifiuti di Marx. Dahrendorf svela
l'ambiguità di certi teoremi marxiani quali : che vi sia
correlazione delle classi con la proprietà privata in
senso legale e che le classi e la lotta di classe siano proprie
di ogni società e di ogni epoca. Anche la tesi marxiana
che ogni mutamento strutturale debba essere di carattere rivoluzionario
può essere resa sospetta osservando che essa discende,
aprioristicamente, dall'adozione del metodo dialettico. Marx avrebbe
avuto il torto di aver elevato il conflitto di classe, dal rango
che gli compete di importante fattore di mutamento, al rango del
tutto immeritato di unico fattore di cambiamento strutturale.
Innanzitutto, il mutamento endogeno non è che un tipo di
cambiamento sociale; il cambiamento sociale può avvenire
anche per fattori esogeni, ad esempio tramite il contatto culturale.
Inoltre il conflitto sociale non è che una delle cause
di cambiamento endogeno; ma ve ne sono altre, ad esempio l'innovazione
tecnologica. Infine il conflitto di classe non è che uno
dei tipi di conflitto sociale; ve ne sono altri per esempio tra
bianchi e negri negli Stati Uniti o tra cattolici e protestanti
in Olanda, conflitti che possono sovrapporsi o no tra di loro
e che comunque possono provocare cambiamento strutturale. Un punto
chiave della rivisitazione di Dahrendorf riguarda il forte dubbio
che il concetto marxiano di classe possa applicarsi al tipo di
società post-capitalistica. Si assiste ad un processo
di differenziazione della classe capitalistica dovuto alla scissione
fra proprietà e controllo dei mezzi di produzione cui
si accompagna un parallelo processo di minor compattezza della
classe operaia. Al suo posto si trova una pluralità di
gruppi operai (specializzati, semispecializzati e non specializzati)
con gli operai molto specializzati che godono di un reddito e
di uno status (inclusa la stabilità del posto di lavoro)
che sono molto vicini a quelli degli impiegati. Non c'è
qui lo spazio adeguato, poi, per valutare a pieno le conseguenze
che l' ingigantimento degli strati sociali intermedi ha avuto
sulla configurazione degli interessi di classe e delle correlative
forme di conflitto nelle società postcapitalistiche di
tutto l'Occidente. In generale comunque si può affermare
che sembra convalidata empiricamente l'ipotesi che non esistono
più le condizioni per alimentare una lotta frontale di
due classi. Dahrendorf, sulla scia delle riflessioni di Lipset,
Schelsky e Kingsley Davis ritiene, inoltre, che nessuna classe
sociale può rimanere stabile più di una generazione.
Da ciò il corollario: l'intensità dei conflitti
di classe deve necessariamente attenuarsi proprio perchè
prevarrà la tendenza secondo cui gli individui competeranno
con gli altri in quanto individui e non nella loro qualità
di soggetti appartenenti a dati gruppi. Ciò non significa
che nella società post-capitalistica scompaiono i conflitti
di gruppo nè tantomeno i conflitti di classe; significa
che la composizione degli attori collettivi confligenti è
mutata e significa che i gruppi confligenti in una società
caratterizzata da mobilità intensa e diffusa adottano,
in generale, delle forme di azione conflittuale assai meno violenta
di quelle verificate (oltrechè auspicate) dall'analisi
marxiana.
La
teoria del conflitto di Dahrendorf trova comunque un altro punto
di forza nel processo di istituzionalizzazione del conflitto di
classe, processo peraltro già brillantemente individuato
e descritto da Theodor Geiger in La società di classe
nel crogiuolo (1948). L'istituzionalizzazione del conflitto
industriale ha reso impossibile la spietata lotta di classe prefigurata
da Marx talchè "invece di un campo di battaglia si
ha una specie di mercato dove forze relativamente autonome si
combattono secondo determinate regole che dispongono che nessuno
dei contendenti sia permanentemente il vincitore o il soccombente".
La istituzionalizzazione del conflitto non sembra comunque corrispondere
ad un valore nuovo ma essere piuttosto già implicita nei
valori di fondo di ogni società industriale. La novità
sta nel fatto che non ha plausibilità l'ipotesi secondo
cui solo il conflitto acuto e violento può generare mutamento
strutturale. Al contrario, secondo Dahrendorf, "fenomeni
del tipo dell'istituzionalizzazione del conflitto di classe dimostrano
che una classe oppressa può benissimo essere in grado di
provocare mutamenti strutturali attraverso discussioni o negoziati".
Naturalmente il processo di istituzionalizzazione ha un suo spazio
e la sua grande chance di inveramento storico politico perchè
si è affermata una concezione pluralista della società
post-capitalistica.
Come
è noto Dahrendorf sostituisce come criterio di formazione
delle classi il possesso o la mancanza di possesso dell'effettiva
proprietà privata con l'esercizio, o la mancanza di esercizio,
di autorità , weberianamente intesa. "Le classi sono
dei gruppi sociali contrapposti, il cui elemento distintivo (o
differentia specifica) può esser individuato nella
partecipazione all'esercizio dell'autorità (o nell'esclusione
da esso) in ogni associazione regolata da norme imperative".
La
società post-capitalistica viene ad essere caratterizzata
e costituita da molti gruppi in conflitto tra di loro in base
ad interessi concreti e diversi che derivano dalle forme storiche
che il principio generale di autorità assume nella diverse
associazioni. Ma di ciò si è già detto nel
capitolo dedicato all'autorità ; qui conviene ricordare
solo gli effetti che questa concezione della struttura sociale
inducono sulla dinamica conflittuale generale.
In
breve: le classi si costituiscono esclusivamente in base alla
partecipazione o meno all'esercizio di autorità ; quindi
le classi economiche non rappresentano se non una manifestazione
particolare del fenomeno delle classi. La partecipazione al controllo
dei mezzi di produzione, come caso particolare di autorità ,
servirà solo a spiegare i conflitti che sorgono nell'industria.
In linea generale la dicotomia delle posizioni di autorità
è valida solo nell'ambito di specifiche associazioni; ciò
si traduce in una sorta di distribuzione differenziata della titolarità
di autorità nel senso che un individuo può partecipare
all'autorità in una data associazione ed esserne completamente
privo in un'altra e normalmente avviene proprio così. Difficilmente
una classificazione degli individui in base all'autorità
totale nella società darebbe luogo a nette dicotomie.
E difficilmente, quindi, la società è nettamente
divisa in due: solo la lotta tra dominanti e dominati, impegnati
in conflitti isolati entro singole associazioni è inevitabile.
Le posizioni occupate con o senza autorità determinano
interessi contrastanti o al mantenimento oppure alla modificazione
di uno status quo. Tuttavia non tutti i gruppi di interesse
sono gruppi di conflitto. La differenza particolare dei gruppi
di conflitto dagli altri gruppi consiste "nelle caratteristiche
formali degli interessi (latenti o manifesti) su cui sono basati,
che sono interessi inerenti alla legittimità delle relazioni
di dominio e di soggezione". Quindi non possono essere considerati
gruppi di conflitto associazioni come il club degli scacchi ma
solo quelle come il partito o il sindacato. Ma quali sono le condizioni
empiriche della formazione del gruppo di conflitto? Le condizioni
principali sono di natura tecnica, politica e sociale ma la formazione
di gruppi di interesse reclama anche una riflessione sulle condizioni
psicologiche nel senso che è importante un'identificazione
con le aspettative del gruppo. Alcune condizioni, poi, possono
impedire la formazione di gruppi di conflitto: principalmente
l'esistenza di uno Stato totalitario e l'instabilità dell'assetto
sociale dopo grossi rivolgimenti: mancano in questo caso i capi
e le ideologie ma anche altre condizioni fondamentali.
Dahrendorf
dopo aver stabilito che le classi sono per definizione gruppi
di conflitto si chiede quali siano le conseguenze sociali di tale
conflitto. Dahrendorf premette che è nettamente favorevole
a quella concezione della società che vede nel conflitto
una caratteristica essenziale della struttura e della dinamica
sociale; e non solo in considerazione delle conseguenze positive
per l'ordine stesso ma anche dei mutamenti che porta. Per illustrare
questi due tipi di conseguenze, Dahrendorf ricorre all'analisi
di Lewis Coser ,la cui rilevanza è tale da reclamare l'apertura
di una parentesi nella esposizione della tesi dahrendorfiana.
5.
Lewis Coser: genesi e forme del conflitto. Coser è
una figura significativa della sociologia americana moderna che
ha il merito di avere prudentemente corretto le tendenze integrazioniste
troppo rigide dominanti nel suo paese. Il brillante libro di Coser
è teso ad una rivalutazione del conflitto e delle sue influenze
positive sugli sviluppi della società ed è stato
scritto in polemica con Parsons e con le correnti conservatrici
in voga negli anni del primo dopoguerra. E' comunque il caso di
notare che anche Coser si muove all'interno di una visione integrazionista
della società che lo conduce ad analizzare una delle dimensioni
del conflitto, quella che ha come effetto la preservazione del
gruppo, l'esaltazione del suo potenziale integrativo e della sua
coesione interna. Non a caso l'interlocutore privilegiato da Coser,
l'autore con il quale egli dialoga continuamente, stabilendo una
sorta di continuità con le sue tesi, è George Simmel.
La prospettiva conflittualista ha trovato nel lavoro di Coser
uno sviluppo particolarmente significativo. A differenza di Dahrendorf,
Coser si interessa principalmente delle condizioni di formazione
del conflitto al di fuori dei contesti istituzionali, esaminando
allo stesso tempo anche le possibili conseguenze che il conflitto
può produrre nel mutamento dell'ordine sociale. Rispetto
all'impostazione funzionalista di Parsons, dalla quale come si
è accennato, Coser si distacca, l'analisi del sociologo
statunitense non si concentra sulle dimensioni funzionali del
conflitto o sulle dinamiche attraverso le quali un ordinamento
sociale può metabolizzare il conflitto tramite la ricostituzione
di processi di integrazione, considerando piuttosto l'integrazione
sociale come una delle possibili conseguenze del conflitto e non
l'obiettivo primario di esso.
Nella
sua opera più importante sul conflitto, The Functions
of Social Conflict (1956), Coser distingue ' sulla scia di
Simmel - tra due forme generali di conflitto: il conflitto esterno
e il conflitto interno ai gruppi e agli ordinamenti sociali. Il
conflitto esterno è il tipo di relazione sociale che si
stabilisce tra due distinti gruppi od ordinamenti sociali: la
conseguenza più significativa prodotta dall'instaurarsi
della relazione di conflitto è costituita dal rafforzamento
dell'identità collettiva. Gli individui implicati nel
conflitto rinsaldano i legami con i rispettivi gruppi di
appartenenza. Il conflitto esterno segna e conferma i confini
del gruppo e produce anche una maggiore 'vicinanza' sociale
tra i membri che si traduce, naturalmente, in un incremento
dell'integrazione sociale. In altri termini Coser sottolinea come
la dinamica conflittuale possa svolgere un ruolo primario non
tanto, o non solo, nello sviluppo di momenti di crisi
nei rapporti sociali, ma anche nel dar vita a nuovi gruppi
o a nuove forme di ordinamento sociale proprio in ragione della
capacità di rafforzamento dell'identità che i
conflitti esterni dimostrano.
I
processi di integrazione e rafforzamento dell'identità
che Coser individua nella logica dei conflitti esterni assumono
una configurazione particolare, ma non meno importante, nella
fenomenologia dei conflitti interni ai gruppi e agli ordinamenti
sociali. In relazione allo sviluppo dei conflitti interni Coser
evidenzia tre aspetti importanti. In primo luogo lo sviluppo di
conflitti interni a gruppi o a ordinamenti sociali (ceti, classi,
istituzioni, società ) costituisce una modalità
di scarico delle tensioni generate dalle forme di dissenso e di
devianza. I conflitti interni se per un verso esprimono il manifestarsi
di attriti e tensioni, per l'altro verso consentono la riaffermazione
- con il superamento del conflitto ' di valori integrativi e identitari
intorno ai quali il gruppo si riconosce. In altri termini anche
il conflitto interno, come quello esterno, offre elementi di integrazione
e di stabilità all'ordinamento sociale, e di conferma
dell'identità dei membri. In secondo luogo nel conflitto
interno una funzione integrativa è svolta anche dalle forme
di regolazione dei conflitti stessi. In questo senso il conflitto
può essere funzionale alla coesione del gruppo proprio
attraverso la conferma degli strumenti ed apparati di istituzionalizzazione
del conflitto. Una riprova di questa chiave di lettura, se vogliamo
attualizzare il discorso, può essere individuata nella
guerra che per un decennio ha devastato i paesi della ex Yugoslavia:
la negazione, per otto lustri, delle differenze etnico-culturali
che, invece, per secoli avevano strutturato le relazioni sociali
delle società balcaniche ha favorito ' con la fine del
regime titoista - lo sviluppo della forma del conflitto etnico,
proprio in quanto modalità di espressione della differenza
priva di una propria regolazione e istituzionalizzazione. In terzo
luogo la pervadenza del conflitto interno non è necessariamente
indice di disgregazione della società poichè, specialmente
nella società moderna, può svolgere anche in questo
caso funzioni di integrazione. Coser ha infatti scritto che la
stabilità dell'ordine di una società differenziata,
e dunque anche flessibile come quella moderna, "può
essere vista in parte come un prodotto dell'incidenza continua
dei vari conflitti che la attraversano" (Coser 1956,
tr.it 1974, 86). Ciò accade perchè nella società
moderna gli individui appartengono normalmente a più associazioni
e gruppi sociali, talchè è virtualmente impossibile
che il conflitto li coinvolga in ogni aspetto della loro identità
ed appartenenza. La multiappartenenza si coniuga con l'esistenza
di conflitti limitati su aspetti e interessi specifici, lasciando
liberi gli individui di trovare punti di accordo e di convergenza
su altri interessi ed ambiti della vita collettiva. In altri termini
la società verrebbe a delinearsi come un reticolo di linee
di conflitto ciascuna delle quali, però, orientata in modo
da non convergere verso le altre. La conseguenza di questa pervasività
dei conflitti consisterebbe dunque in una maggiore stabilità
e flessibilità delle relazioni sociali, anche perchè
il grado di coinvolgimento degli individui in questo tipo di conflitti
è sicuramente minore di quello dei membri di società
meno differenziate, nelle quali l'identità non è
articolata secondo linee di multiappartenenza. L'influenza di
questa prospettiva analitica sul modello sociologico di conflitto
disegnato da Dahrendorf per la società post-industriale
non sembra reclamare ulteriori commenti.
Coser viene citato da Dahrendorf, in particolare, per avere sostenuto:
a) che "nei limiti in cui il conflitto costituisce la risoluzione
di una tensione tra due antagonisti, esso svolge delle funzioni
stabilizzatrici e diviene una componente integratrice della relazione";
b) che la istituzionalizzazione del conflitto salvaguarda le società
aperte da sviluppi conflittuali che porrebbero "in pericolo
il consenso fondamentale"; ed, infine, c) che "la interdipendenza
dei gruppi antagonistici e l'incrociarsi all'interno di tali società
dei conflitti, hanno l'effetto di cucire insieme il sistema sociale,
mediante la vicendevole eliminazione dei conflitti e servono a
prevenire una disgregazione lungo un'unica linea fondamentale
di divisione sociale". Coser ha messo in luce, fra l'altro,
anche l'altro tipo di conseguenze: "Il conflitto previene
la calcificazione del sistema sociale, costituendo un impulso
per il rinnovamento e per la creatività ". Il conflitto
è l'elemento onnipresente della vita sociale, anzi secondo
Dahrendorf, che sconfina qui nel terreno parateorico, è
dal conflitto che derivano creatività , innovazione, mutamento
evolutivo sia al livello individuale sia al livello collettivo.
6.Dahrendorf
e le dimensioni empiriche del conflitto. L'analisi
del conflitto si articola poi attorno alle dimensioni dell'intensità
e della violenza che permettono di studiarlo empiricamente. "La
categoria dell'intensità si riferisce al dispendio di
energie e al grado di partecipazione delle parti in conflitto.
Si può affermare che un particolare conflitto è
molto intenso quando il costo della vittoria e della sconfitta
è alto per entrambe le parti interessate".
L'intensità
dipende allora dall'importanza annessa al conflitto e può
variare lungo una scala continua, da un minimo ad un massimo.
La violenza del conflitto, si collega, invece, non alle sue cause
ma alle sue manifestazioni. Il problema è riferito alle
'armi', agli strumenti, ai mezzi adottati dai gruppi. Anche la
violenza può variare lungo una scala continua dalla discussione
all'uso della forza. Ma la riflessione teorica di Dahrendorf si
approfondisce in più direzioni. Un primo fattore esaminato
si riferisce al rapporto tra i vari conflitti esistenti in una
società . Il modello-Dahrendorf considera, come si è
detto, primariamente le associazioni coordinate da norme imperative:
in ogni associazione vi saranno due classi in conflitto e quindi,
in relazione al numero delle associazioni esistenti in una data
società avremo altrettanti conflitti, almeno è
così in teoria. In pratica, conflitti diversi si possono
sovrapporre ed è probabile che i fronti del conflitto -potenzialmente
innumerevoli- si riducano ad un insieme definito di conflitti
dominanti. Per misurare il fenomeno si potrebbe costruire una
scala a due dimensioni ricorrendo ai due elementi del pluralismo
e della sovrapposizione. Il concetto è illustrato con riferimento
a tre associazioni: Stato, industria e Chiesa. I gruppi dominanti
e quelli subordinati di ciascuna di queste associazioni si possono
presentare come aggregati fondamentalmente separati. Ma spesso
può avvenire il contrario: chi è soggetto in un'associazione
può esserlo anche nell'altra e tra i dominanti esiste una
qualche forma di rapporto non indifferente per la dominazione
stabilita. Il punto è stato vagliato attentamente da molte
ricerche empiriche che Dahrendorf conosce assai bene e che utilizza
anche nella costruzione della sua teoria, basti pensare allo studio
di C. Wright Mills, The Power Elite (1956). In una congiuntura
di questo tipo i conflitti attivi nelle diverse associazioni si
sovrappongono: i soggetti antagonisti nell'associazione X si ritrovano
in una identica relazione conflittuale nelle altre sedi associative
Y, Z, W... Nelle diverse associazioni si rileva un'identità
di personale di gruppi di conflitto: la dicotomizzazione esistente
in seno al ristretto ambito associativo si riflette all'esterno.
Se invece si verifica la dissociazione la contrapposizione frontale
su una scala ampia interassociativa non ha spazio perchè
ogni componente della classe subordinata di un'associazione trova
una qualche gratificazione in un'altra associazione.
Anche
il discorso sulla mobilità sociale manifesta delle implicazioni
rilevanti per l'analisi empirica del conflitto: si può
configurare come caso limite di mobilità sociale quello
della società senza classi. Da una situazione di rigidità ,
tipo quella delle caste ad una situazione di quasi-assenza di
classi sussiste tutta una serie continua di tipi di classi sociali,
caratterizzate da diverse gradazioni di mobilità sociale
da generazione a generazione ed all'interno della stessa generazione.
Questa scala può servire per misurare l'intensità
del conflitto. Deve esistere "una relazione inversamente
proporzionale tra il grado di apertura delle classi e l'intensità
del conflitto di classe. Più alta è la mobilità
verso l'alto e verso il basso in una data società , meno
estesi e radicali è probabile che siano i conflitti di
classe poichè con l'aumento della mobilità , alla
solidarietà di gruppo si sostituisce sempre più
la competitività tra gli individui e le energie investite
dagli individui nei conflitti di classe sono sempre minori".
Dahrendorf
esamina, poi, le condizioni che trasformano il conflitto di classe
in un fattore determinante di mutamento sia al livello normativo-ideologico
sia al livello fattuale-istituzionale. Il conflitto di classe
ha formalmente come obiettivo la distribuzione dell'autorità ;
ma è evidente che all'autorità non si mira come
valore in sè, bensì come tramite di realizzazione
di interessi definiti. L'avvicendamento del personale in posizione
di dominio deve essere considerato, principalmente, "come
l'aspetto strumentale di un processo che rappresenta sostanzialmente
un mutamento strutturale. In questo senso gli avvicendamenti di
personale non costituiscono in sè stessi dei mutamenti
strutturali ma sono semplicemente una condizione perchè
nuovi interessi divengano valori o realtà ". Si tenta
poi di sviluppare anche sul piano empirico la relazione tra le
dimensioni (radicalità -rapidità ) del mutamento
e le dimensioni (intensità -violenza) del conflitto. La
rapidità del mutamento varia in modo direttamente proporzionale
alla violenza del conflitto. Ciò comporta che l'esistenza
dei meccanismi regolatori del conflitto dovrebbe portare ad un
mutamento molto graduale, detto altrimenti alla stabilità
della classe dirigente. Il conflitto incontrollato dovrebbe portare,
invece, alla sostituzione totale del personale più importante
e, in questo senso, ad un mutamento repentino.
Dahrendorf,
in coerenza con la sua impostazione che privilegia come campo
della fenomenologia conflittuale le istituzioni, tenta l'applicazione
della sua teoria dapprima al conflitto industriale e poi al conflitto
politico nel quadro di riferimento costantemente privilegiato
nella società post-capitalistica ma non è possibile
nè conveniente seguirlo in questo excursus anche perchè
gli anni successivi hanno visto cicli differenziati di conflitto
che hanno in buona parte confermato le sue prospettive analitiche
ma, in parte, le hanno anche confutate. Sembra solo opportuno
sottolineare che la sua visione limpidamente liberale della società
lo porta ad affermare che libertà e totalitarismo dipendono
dall'atteggiamento verso il problema del conflitto. L'aspirazione
all'eliminazione del conflitto caratterizza l'ordinamento delle
società totalitarie; all'opposto le società libere
adottano una premessa, sociologicamente verificata, secondo la
quale il conflitto sociale è ineliminabile. Anzi, una società
libera è una società che "riconosce l'apporto
positivo e la funzione creativa della diversità , della
differenziazione e del conflitto".
Infine,
va ricordato che Dahrendorf è tornato più volte
a riflettere sul conflitto, basti ricordare il saggio 'Il conflitto
oltre la classe: nuove prospettive sulla teoria del conflitto
sociale e politico' (1967) e il libro Il conflitto sociale
nella modernità (1988). Egli si era reso conto che
alcune esperienze storiche cruciali non potevano essere adeguatamente
interpretate alla luce della sua prima formulazione della teoria
del conflitto di classe. Questa constatazione lo porta ad affermare
che "oggi il conflitto di classe non è altro che un
caso più particolare di un fenomeno ancor più generale
e questo significa che è necessario un nuovo punto di partenza
nella teoria sociologica del conflitto politico e del mutamento
sociale". Il nostro tempo di europei del terzo millennio
sembra essere caratterizzato dal disinteresse per la politica
e dalla competizione interindividuale come tramite di autopromozione
sociale; competizione individuale ed azione collettiva sono reciprocamente
convertibili ed omogenea espressione della stessa forza sociale:
la competizione (contest). Dahrendorf esplicita le implicazioni
dello sviluppo del suo pensiero indicando un rapporto da contenente
a contenuto fra competizione individuale e conflitto di classe:
"il conflitto di classe è quella forma di competizione
che si rende necessaria nel caso in cui numerosissimi individui
non possono realizzare i propri interessi con lo sforzo individuale".
D'altro canto se si considera che le strutture di autorità
riducono le chance individuali di realizzazione personale degli
interessi si può affermare che "l'azione solidale
è probabilmente destinata a rimanere uno dei veicoli della
competizione perfino in una società aperta". Lo spazio
del conflitto di classe, dunque, c'è ancora e non è
di poco respiro. Il conflitto di classe determina il tasso e forse
la direzione del mutamento sociale; "la trasformazione del
conflitto di classe in competizione individuale starebbe ad indicare
che il mutamento sociale si è fermato, che le istituzioni
della società moderna (contrariamente alle apparenze dello
sviluppo tecnologico) non sono più dinamiche e che noi
viviamo in una società stagnante". Questa preoccupazione
lo porta a chiedersi se non sia il caso di riconsiderare gli ordinamenti
costituzionali delle nostre società per mantenerle aperte
e dinamiche anche quando gli antagonismi che le animano non assumono
più solo la forma del conflitto di classe. La stessa problematica
lo spingerà negli anni più vicini a concentrare
la sua riflessione sui temi intrecciati della libertà
e della eguaglianza, o meglio della cittadinanza, in un quadro
societario sempre più vasto dove si confrontano i processi
del localismo e della globalizzazione ma soprattutto la formazione
di aggregati sovranazionali come l' Unione Europea.
7.
Randall Collins: conflitto e mutamento istituzionale. La
prospettiva conflittualista sviluppata da Collins si inserisce
nell'alveo della tradizione weberiana, riprendendone in
chiave di interpretazione applicativa gran parte delle categorie
di base. Nell'analisi di Collins il carattere specifico del conflitto
viene ricondotto alla lotta per il controllo di risorse e beni
scarsi, segnatamente a tre grandi classi di risorse: ricchezza,
prestigio e potere. Collins sottolinea che la lotta per il controllo
di queste risorse si svolge sempre secondo una dinamica che segue
la logica del gioco a somma zero. In altri termini, la distribuzione
di ricchezza, prestigio e potere in un ordinamento sociale è
sempre ineguale, consentendo di discriminare tra coloro che dispongono
e coloro che non dispongono di questi beni. Il conflitto
trae origine, secondo Collins, da questa differenziazione stratificata
degli individui e dei gruppi, tuttavia, una condizione costante
della fenomenologia del conflitto è la possibilità ,
sempre presente, di un ricorso alla coercizione, in generale,
ed alla violenza, in particolare.
Nello
sviluppo della logica del conflitto gli attori sociali investono,
com'è evidente, vari tipi di risorse. Secondo l'analisi
di Collins possiamo individuare almeno tre tipi generali di risorse
impegnate nel conflitto: a) le risorse materiali e tecniche, cioè
i mezzi attraverso i quali si ottiene un aumento delle potenzialità
di coercizione, dalle armi agli strumenti giuridici del diritto
di proprietà , fino alla disponibilità di competenze
specifiche; b) le risorse di status, che possiamo genericamente
definire come le capacità di influenza diffusa, in senso
culturale e simbolico, come accade per le èlites intellettuali
che presiedono all' elaborazione di una visione del mondo socialmente
condivisa; c) i network sociali costituiti dalle relazioni che
si intrattengono con altre persone, e che in questo caso costituiscono
una risorsa di possibilità di influenza diretta o indiretta.
Queste
diverse condizioni di sviluppo del conflitto unitamente alla varietà
delle risorse che possono essere impiegate nel conflitto dagli
attori sociali definiscono una struttura multidimensionale della
diseguaglianza che illumina, a sua volta, il carattere multifattoriale
della genesi del conflitto. Collins, in ciò seguendo rigorosamente
l'impostazione weberiana, mette in luce che, in una società
complessa, caratterizzata da un'elevata pluralità di ruoli,
le condizioni del conflitto si distribuiranno nello spazio sociale
in maniera non polarizzata, delineando così le condizioni
di una dispersione delle linee del conflitto. In tal modo il conflitto
rivela la sua duplice natura per un verso di fenomeno sociale
prodotto dalla lotta per il perseguimento di interessi di attori
sociali prevalentemente collettivi ai danni di altri attori sociali,
per l'altro verso di dinamica permanente nella vita collettiva
in quanto costitutiva della logica del mutamento sociale, ed in
quanto tale ineliminabile dalla vita degli ordinamenti sociali.
Collins
ha indirizzato il proprio interesse di ricerca prevalentemente
nell'analisi del conflitto come conseguenza e come fattore del
mutamento sociale nella società statunitense del secondo
dopoguerra. Un aspetto di portata generale sul quale Collins
si sofferma, e che concerne il mutamento sociale di tutte le società
occidentali, è quello rappresentato dalla grande crescita
del livello di istruzione nei decenni che hanno seguito la fine
della seconda guerra mondiale. L'incremento del tasso di istruzione
viene normalmente spiegato come una logica conseguenza dello sviluppo
tecnico-industriale e burocratico che ha reso necessaria la formazione
di una competenza diffusa per l'adeguato funzionamento dei settori
di sviluppo economico e dei servizi. Collins ha sottolineato i
caratteri di 'chiusura sociale' ' cioè di esclusione operata
dai detentori di titoli di istruzione ai danni di coloro che non
ne detengono - che la crescita dell'istruzione ha portato con
sè. Infatti, tra le pieghe della pur evidente necessità
di nuove competenze è possibile rilevare, che l'èlite
istruita utilizza il titolo di istruzione e, più in generale,
uno stile di vita e un tratto collegati alla formazione culturale
come criterio di occupazione in posizioni privilegiate sul mercato
del lavoro e nella vita sociale. Collins ha osservato ,come spesso
viene fatto anche da un buon padre di famiglia, che in molti casi
"l'istruzione non è associata alla produttività
dei dipendenti, e i lavori sono appresi principalmente attraverso
la pratica" (Collins 1979, 48) piuttosto che a scuola. In
realtà il dato che conta in termini sociali ed in termini
politici è che l'istruzione delimita i confini di un nuovo
ceto costituito dallo strato professionale-direttivo delle classi
medio-alte, l'accesso al quale viene regolato più attraverso
i criteri dell'omogeneità culturale che attraverso la
reale disposizione di competenze. Si tratta di una dinamica che
ha caratterizzato la fase dello sviluppo della società
di massa anche nelle società europee, principalmente nei
tre decenni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale.
Le trasformazioni occorse nelle società occidentali a
partire dagli anni Ottanta hanno non eliminato, ma piuttosto ridefinito
i tratti di questo uso conflittualista dell'istruzione.
La
chiave di lettura impiegata da Collins nell'analisi dei conflitti
lo ha condotto anche ad interessarsi della fenomenologia del conflitto
nelle grandi organizzazioni e nelle istituzioni, evidenziando
in particolare i processi di regolazione dei conflitti attraverso
la formazione di preferenze e motivazioni individuali, da un lato
e dinamiche di legittimazione dell'autorità , dall'altro.
Tra le diverse modalità di controllo dei conflitti nelle
istituzioni Collins individua tre principi generali e cioè
rispettivamente: la coercizione, le ricompense materiali e la
legittimazione dei ruoli e delle norme. Ciascuno di questi criteri
è caratteristico di distinte condizioni sociali, anche
se in molti casi, soprattutto nelle società occidentali,
è assai comune che questi tre criteri si trovino mescolati.
L'interesse di Collins per le conseguenze di queste forme di controllo
sociale lo spinge a sottolineare che la pratica della coercizione
produce facilmente un atteggiamento alienato nei subalterni. Le
ricompense materiali costituiscono un fattore di motivazione senza
dubbio più efficace e meno alienante, tuttavia i conflitti
che sorgono intorno a questo criterio, rappresentano ' specialmente
nelle grandi organizzazioni lavorative ' un elemento di ostacolo
allo sviluppo delle attività , in quanto riducono le motivazioni
individuali esclusivamente alla retribuzione materiale.
La
terza dimensione individuata, quella relativa alla legittimazione
dei ruoli e delle norme costituisce senza dubbio il punto di maggior
interesse di Collins, anche in questo in linea con l'impostazione
weberiana. Un'osservazione importante, sempre a questo proposito,
concerne il rapporto tra identificazione nelle istituzioni/organizzazioni
e legittimazione: Collins osserva che il principio democratico
dell'estensione dell'autorità ad un più ampio numero
di ruoli non solo può produrre una maggiore responsabilizzazione
o partecipazione attiva degli individui agli interessi generali
dell'organizzazione, ma favorisce anche l'identificazione dei
detentori di ruoli con gli obiettivi propri dell'istituzione/organizzazione;
in tal modo i membri tenderanno a riconoscere con maggiore facilità
l'autorità dei superiori, riducendo le condizioni del
conflitto. Nella lotta per il controllo di porzioni sempre maggiori
di ricchezza, prestigio e potere, anche nelle organizzazioni la
segmentazione del potere se per un verso riduce l'autoritarismo
tipico delle strutture centralizzate per l'altro verso può
condurre alla proliferazione di strati intermedi di autorità
che, come accade spesso nelle organizzazioni burocratiche, sono
orientati soprattutto alla massimizzazione del controllo della
propria sfera di potere, cercando di "trasformare le situazioni
in cui [il detentore di un ruolo intermedio] riceve ordini in
altrettanti ordini che passa ad altri" (Collins 1975, trad.
it. 1980, 73). L'effetto complessivo diviene allora quello di
un irrigidimento interno alle organizzazioni che può anche
agire come fattore di isolamento dell'organizzazione dall'ambiente
sociale esterno.
In
conclusione, il lavoro di Collins sul conflitto ha per lo meno
il merito di mostrare l'efficacia interpretativa delle classiche
categorie weberiane, adattandole alla fase di sviluppo delle società
occidentali nell'età della Guerra Fredda. Un aspetto originale
del suo contributo alla sociologia conflittualista è infine
quello di aver sottolineato, nel quadro dell'analisi istituzionale
e organizzativa della fenomenologia del conflitto, l'importanza
delle motivazioni individuali e anche di carattere simbolico e
identificativo a fronte degli scopi funzionali e strumentali tipici
dell'analisi funzionalista della sociologia americana degli anni
Cinquanta-Sessanta.
8.
Conflitto e comunicazione nella sociologia di Niklas Luhmann.1
Anche in un contesto teorico altamente differenziato e frastagliato
com'è quello della sociologia contemporanea, la prospettiva
attraverso la quale la teoria sociologica elaborata da Niklas
Luhmann descrive i processi di costituzione e di trasformazione
delle dinamiche sociali rappresenta sicuramente un caso peculiare.
Tra i motivi per i quali la teoria sistemica di Luhmann può
essere considerata un contributo innovativo di rilievo vi è
la sua particolare collocazione rispetto alla tradizionale articolazione
delle teorie sociologiche sulla base della dicotomia integrazionismo/conflittualismo.
Come si è visto supra, la contrapposizione tra
teorie che interpretavano le dinamiche sociali come dinamiche
conflittuali e teorie, invece, costitutivamente orientate a privilegiare
la riflessione sugli aspetti legati all'ordine e ai processi integrativi,
ha rappresentato uno dei fuochi del dibattito sociologico internazionale
sviluppatosi a cavallo dei decenni Sessanta e Settanta. In questo
contesto sono andati delineandosi, a partire dagli anni Sessanta,
sia la polarizzazione tra sociologia di derivazione marxiana e
funzionalismo parsonsiano, come pure la ripresa dell'interesse
per la sociologia weberiana, nella quale potevano essere individuati
temi e argomenti utili tanto per una lettura costruttivamente
critica della sociologia marxista, quanto per una migliore comprensione
della teoria sistemica parsonsiana. Da questo punto di vista,
il pensiero di Luhmann si caratterizza come un superamento non
solo della alternativa Parsons/Marx, ma anche della 'terza via'
rappresentata dalla sociologia weberiana. Uno dei concetti portanti
dell'impianto teorico luhmanniano, il concetto di sistema, viene
impiegato in una accezione che può ben essere detta post-parsonsiana
in quanto, diversamente da Parsons, Luhmann non pone in primo
piano la struttura come elemento statico e sincronico, ma attribuisce
un ruolo centrale al carattere processuale e diacronico della
funzione. Allo stesso tempo la teoria funzional-strutturalista
può ben essere definita post-marxiana in quanto interpreta
la dinamica conflittuale presente nella società non come
struttura permanente sfociante in un esito predeterminato, ma
come dinamica probabilistica, prodotta dall'aggregazione nella
realtà sociale di condizioni contingenti e nel loro insieme
improbabili. Infine, la teoria dei sistemi formulata da Luhmann
denota un carattere post-weberiano principalmente perchè
esamina i sistemi sociali secondo una prospettiva desoggettivizzata,
alla quale è completamente estraneo il concetto di attore
sociale inteso come centro intenzionale e motivazionale dell'agire
sociale.
Ciò
che consente al sociologo tedesco di compiere un passo così
innovativo nella produzione della teoria è reso possibile
dall'impiego di modelli di pensiero derivati dalle scienze cibernetiche.
Con la teoria luhmanniana l'influenza della rivoluzione informatica
sulla sociologia non si limita allo sviluppo di nuove tecniche
di elaborazione e di trattamento dei dati, o all'apertura di nuovi
ambiti di ricerca relativi allo studio dell'impatto dell'informatizzazione
nei diversi settori della vita sociale. Luhmann assume dalla cibernetica
un modello metaforico con il quale pensare le dinamiche sociali
in modo diverso dai modelli della macchina e dell'organismo caratteristici
della teoria sociologica classica. Questa diversa ascendenza rende
i concetti e i termini della sociologia luhmanniana particolarmente
complessi e di non immediata comprensione; per questa ragione
è forse utile introdurne brevemente alcuni dei più
significativi ai quali sarà poi necessario fare riferimento
per una appropriata discussione delle dinamiche del conflitto.
Luhmann
sviluppa la sua teoria della società a partire dal carattere
autopoietico dei sistemi. Il concetto di autopoiesi è stato
introdotto originariamente nelle scienze biologiche con il tentativo
di dare una definizione dell'organizzazione degli organismi viventi.
In senso generale, per autopoiesi si intende la capacità
di produrre e riprodurre da parte del sistema stesso - e non di
processi esterni - gli elementi che lo costituiscono. Dal punto
di vista biologico ogni cellula è intesa come il prodotto
di un reticolo di operazioni interne al sistema di cui essa è
un elemento; in questo senso le operazioni che conducono alla
produzione di nuovi elementi di un sistema dipendono da precedenti
operazioni del medesimo sistema e costituiscono il presupposto
per operazioni successive. Il sistema si connota quindi come "operativamente
chiuso", ovvero autopoietico. Nella teoria sistemica della
società il concetto di autopoiesi è, comunque,
impiegato in modo originale. Luhmann individua due livelli di
costituzione di sistemi autopoietici, ciascuno dei quali è
caratterizzato da specifiche operazioni: i sistemi sociali e i
sistemi psichici. Le operazioni di un sistema sociale sono sempre
comunicazioni, mentre quelle dei sistemi psichici - che nella
teoria luhmanniana sostituiscono il concetto di individuo - sono
i pensieri. Ciascuno di questi due sistemi riproduce in una connessione
ricorsiva le proprie operazioni: è questa connessione che
costituisce l'unità del sistema, che ignora completamente
le connessioni che avvengono nell'altro sistema. Un sistema sociale
può presentare al proprio interno ulteriori sistemi autopoietici,
differenziando ciascuno di essi attraverso uno specifico modo
di comunicazione; la formazione di questi sottosistemi sociali
è il risultato di un processo di differenziazione funzionale.
Nella società moderna, ad esempio, il sistema della scienza
comprende soltanto comunicazioni orientate al codice verità /falsità ,
le quali sono il prodotto e il presupposto di altre comunicazioni
orientate allo stesso codice. Al di fuori di questo sistema e
di questo codice, in nessun altro sistema sociale è possibile
realizzare una comunicazione scientifica. Il carattere autopoietico
dei sistemi deve essere distinto dall'autoreferenza del sistema.
Mentre quest'ultima si limita alla capacità di costituire
e modificare autonomamente le strutture, con l'autopoiesi il sistema
opera autonomamente anche nella costituzione dei propri elementi
e processi, generando al suo interno tutto ciò che compare
e che costituisce il sistema.
Il
carattere autopoietico dei sistemi comporta una significativa
trasformazione anche del rapporto tra sistema e ambiente. Le operazioni
del sistema si riferiscono solo ad altre operazioni del medesimo
sistema e solo indirettamente all'ambiente. In altri termini,
le comunicazioni si riferiscono sempre e solo ad altre comunicazioni
e rendono possibili solo nuove comunicazioni, non si riferiscono
mai direttamente alla realtà esterna. La realtà
esterna , che nel linguaggio luhmanniano è definita 'mondo',
è in sè inaccessibile e viene trattata solo in quanto
vi è comunicazione su di essa, e dunque soltanto nelle
forme proprie del sistema. Anche gli interessi e le motivazioni
degli individui che partecipano alla comunicazione non intervengono
direttamente nella comunicazione, ma - come vedremo a proposito
del conflitto - compaiono soltanto come tema di comunicazione.
Il rapporto tra sistema e ambiente è sostanzialmente ignorato
dalle operazioni del sistema, ma diventa significativo come distinzione
operata da un punto di vista esterno al sistema, cioè da
un osservatore che mette in relazione i processi interni con un
ambito esterno. Dalla sua prospettiva, l'osservatore definisce
il sistema esclusivamente nella sua relazione con l'ambiente,
cioè tracciando un confine che distingua tra un sistema
e il suo ambiente. La costituzione di un confine non comporta
un isolamento del sistema; tra questo e l'ambiente vi sono sempre
forme di interdipendenza. Ogni sistema necessita di una serie
di condizioni ambientali: per un sistema sociale, ad esempio,
sono necessari dei sistemi psichici - che sono 'ambiente' per
il sistema sociale - oltre a condizioni fisiche che rendano possibile
lo svolgersi della comunicazione. Un medesimo evento può
appartenere nello stesso tempo al sistema e al suo ambiente: può
essere comunicazione per il sistema sociale e pensiero per il
sistema psichico, in questo caso sarà soltanto il punto
di vista dell'osservatore (sociologico o psicologico) a definire
quale dei due è ambiente e quale sistema. Questo ci mostra
un aspetto importante che distingue nettamente la teoria luhmanniana
dalla tradizione struttural-funzionalista parsonsiana: il punto
di partenza non è nè la definizione del sistema,
nè la definizione dell'ambiente, ma, precisamente, la loro
differenza, per la quale entrambe le parti sono imprenscindibili
e, allo stesso tempo, non sono definibili una volta per tutte
come ambiente o come sistema. L'ambiente deriva la propria unità
solo in relazione al sistema. L'ambiente non è delimitato
da confini che possono essere oltrepassati, ma solo da orizzonti
che si espandono con la crescita della complessità del
sistema e per questo non vengono mai oltrepassati. L'ambiente
è costituito in modo residuale dalle operazioni di un sistema;
rientra in esso, cioè, tutto ciò che non appartiene
al sistema, in particolare, la capacità di agire e di
riflettere su se stesso, propria dei sistemi, è estranea
all' ambiente. Il rapporto che si delinea tra sistema e ambiente
è caratterizzato dalle continue selezioni che il sistema
deve operare nella sua differenziazione dall'ambiente: quest'ultimo
presenta una quantità sempre maggiore di possibilità
rispetto a quante il sistema è in grado di attualizzare.
Può, infine, verificarsi un processo di differenziazione
sistemica che dà origine ad ulteriori differenze del tipo
sistema/ambiente: "Il sistema complessivo acquisisce la funzione
di 'ambiente interno' rispetto ai sotto-sistemi, funzione che
assume in modo specifico per ognuno dei sotto-sistemi interessati.
La differenza sistema-ambiente viene quindi replicata, il sistema
complessivo moltiplica se stesso quale pluralità di differenze
interne tra sistema e ambiente" (Luhmann 1990, 88).
L'autopoiesi dei sistemi non è data una volta per tutte,
ma è caratterizzata dalla temporalità . Le comunicazioni,
come anche i pensieri, non sono stati che durano, ma sono eventi
che hanno la consistenza temporale di un punto. L'autopoiesi è
quindi costretta a riprodurre continuamente gli elementi che,
appena attualizzati, scompaiono. La precarietà temporale
delle connessioni che il sistema stabilisce introduce una dimensione
ulteriore nello sviluppo della complessità del sistema:
la varietà di stati che il sistema può raggiungere
non dipende allora solo dalle relazioni tra gli elementi che lo
costituiscono, ma anche dalla diversa configurazione di questi
stati nella successione temporale. Le relazioni tra gli elementi
possono infatti cambiare di momento in momento, consentendo al
sistema -nel momento successivo- di sviluppare nuovi collegamenti
tra gli elementi, sulla base delle condizioni ambientali che si
presentano. In altre parole, ciascuna persona può iniziare
una comunicazione o esserne il destinatario, ma non appena la
comunicazione è avvenuta è anche già scomparsa,
e con essa si è sciolta anche la connessione tra un evento
del sistema psichico e un evento del sistema sociale. Nel momento
successivo si può iniziare una nuova comunicazione oppure
ci si può ritirare. La coincidenza tra operazioni del sistema
sociale (comunicazione) e operazioni del sistema psichico (pensiero)
è ridotta ad un evento che si caratterizza per due diverse
selettività , legate ai due diversi sistemi. La selezione
operata dai sistemi è naturalmente connotata in modo contingente.
Il concetto di contingenza indica la posizione di un dato rispetto
alle possibili alternative, in altri termini indica che ciò
che è realizzato, in quanto esistente non è impossibile,
ma in quanto possibile anche diversamente non è necessario.
Secondo la contingenza, ciò che è può essere
diversamente; questo significa la possibilità per un sistema
di selezioni diverse dalle aspettative selezionate da un altro
sistema. Nella vita sociale la contingenza si manifesta come doppia
contingenza: vi è una relazione tra due sistemi, ognuno
di essi determina le proprie operazioni in modo autoreferenziale,
operando esclusivamente all'interno dei propri confini. Ogni sistema,
come una sorta di black box, è totalmente estraneo
all'altro in quanto i criteri selettivi che esso impiega per operare
non possono essere osservati dall'altro sistema, il quale fa esperienza
del primo sistema solo attraverso le selezioni che questo produce.
Di fatto, ciascun sistema si pone in relazione con l'altro da
una prospettiva di osservatore; da questo punto di vista la doppia
contingenza costituisce un problema basilare per l'ordine sociale:
pone infatti il problema del coordinamento delle selezioni, imprevedibili
e comunque contingenti, di un Ego e di un Alter. Dalla doppia
contingenza emerge un ordine condizionato dalla complessità
dei sistemi che lo rendono possibile: questo ordine nasce dalle
reciproche osservazioni e dalle informazioni che esse creano.
Si costituisce così un sistema sociale che si riproduce
autopoieticamente, coordinando le selezioni contingenti di Ego
e di Alter.
Un
caso particolare di doppia contingenza è quello che si
verifica quando nei sistemi sociali viene comunicato il rifiuto
di una comunicazione precedente. In questo caso, che Luhmann chiama
'contraddizione', per il sistema sociale si pone il problema di
reagire alla situazione di insicurezza che la contraddizione comporta:
ci si trova infatti di fronte da un lato ad un'offerta comunicativa
e dall'altro ad una comunicazione del rifiuto, ovvero in una situazione
contraddittoria, che non può essere trattata in riferimento
alle strutture di aspettative del sistema sociale. In altri termini,
quando Ego comunica ad Alter le sue aspettative, la situazione
è aperta alla possibilità che Alter possa rifiutare
le aspettative di Ego; inoltre, il carattere di doppia contingenza
peculiare alle relazioni sociali fa sì che di fronte alla
negazione e al rifiuto di Alter sia sempre possibile che Ego rifiuti
il rifiuto delle sue aspettative. Tuttavia, non si possono mantenere
contemporaneamente direzioni di aspettative che sono in contraddizione,
pena il rischio della dissoluzione delle strutture di aspettative
stesse e dunque della relazione sociale. Le possibilità
per i sistemi di continuare ad operare e di consentire nuovamente
capacità di collegamento possono essere assicurate solo
dalla contraddizione stessa, in base alla quale si costituisce
un sistema sociale di tipo particolare: il conflitto. "Parleremo
di conflitti - scrive Luhmann - ogni volta che una comunicazione
viene contraddetta o, si potrebbe anche formulare, ogni volta
che una contraddizione viene comunicata. (...) Perchè ci
sia conflitto, devono dunque verificarsi due comunicazioni che
si contraddicono a vicenda. (...) Il conflitto si prende carico,
per un certo periodo, dell'autopoiesi, cioè della prosecuzione
della comunicazione" (Luhmann 1990, 596). Poichè il
conflitto viene inteso da Luhmann come uno dei possibili eventi
della comunicazione, si deve abbandonare innanzitutto l'idea in
base alla quale i conflitti segnino un fallimento della comunicazione.
Innanzitutto bisogna considerare che se il conflitto è
comunicazione di un rifiuto, è evidente che in quanto comunicazione
non implica di per sè la fine della relazione, ma configura
una particolare forma della relazione sociale. La comunicazione
di un rifiuto comporta in ogni caso la conferma di un codice comunicativo
comune. Nella teoria funzional-strutturalista non si parla di
conflitti come di fenomeni che interrompono l'integrazione; al
contrario, la comunicazione è intesa come un processo autopoietico
dei sistemi sociali che prosegue superando tutti gli episodi che
la caratterizzano, indipendentemente dal loro carattere cooperativo
o antagonistico. Di conseguenza, i conflitti sono intesi da Luhmann
come un particolare sistema sociale che permette di proseguire
la comunicazione sfruttando la possibilità del ricorso
al "no". I conflitti non arrivano ad assumere lo status
di sottosistemi; tuttavia, in quanto realizzazione in negativo
della doppia contingenza si caratterizzano per una doppia negazione
che si sviluppa quando Ego considera ciò che nuoce ad Alter
come un beneficio per sè, proprio perchè ritiene
che Alter reputi ciò che nuoce ad Ego come un suo beneficio.
Lo stesso si può dire per le selezioni operate da Alter.
In quanto versione in negativo della doppia contingenza, i conflitti
sono sistemi sociali altamente integrati che si caratterizzano
per una particolare "forma parassitaria" : mostrano
infatti, la tendenza a subordinare ogni azione al punto di vista
della contrapposizione. Quindi, la contrapposizione può
essere intesa come fattore di integrazione particolarmente efficace,
dal momento che possono essere subordinate alla dinamica della
doppia contingenza negativa azioni dal contenuto anche estremamente
eterogeneo.
9.
Niklas Luhmann: conflitto e complessità .2
Una conseguenza importante di questa prospettiva è il capovolgimento
di un' impostazione che caratterizza buona parte del pensiero
sociologico classico sul conflitto: il conflitto non è
una manifestazione di una condizione di perdita di efficacia da
parte delle forme dell'integrazione, al contrario: "il problema
del conflitto è l'integrazione troppo forte dei sistemi
parziali, i quali devono mobilitare sempre più risorse
per il disaccordo e devono sottrarle ad altre disponibilità "
(Luhmann-De Giorgi 1992, 253). Nella teoria classica l'incremento
del numero e dell'intensità dei conflitti è posto
direttamente in relazione con lo sviluppo della società
moderna intesa come società eterogenea che si sostituisce
ad una società omogenea. In questa prospettiva l'incremento
della complessità viene durkheimianamente posto in relazione
con la necessità di un principio normativo che garantisca
l'equilibrio tra complessità e integrazione. Radicalmente
diversa è la conclusione cui giunge Luhmann: l'alta conflittualità
presente nelle società complesse non è da porre
in relazione con tendenze disgregative, bensì con l'eccesso
di integrazione tra i sistemi parziali che rende difficile l'isolamento
o comunque il controllo dei conflitti che esplodono all'interno
di ciascun sistema. Il conflitto mostra, allora, anche un versante
distruttivo principalmente nel rapporto che stabilisce con il
sistema all'interno del quale ha origine. Ogni elemento dell'attività
di quel sistema tende ad essere inglobato nella dinamica conflittuale,
fino ad arrivare alla situazione-limite in cui tutte le risorse
e tutta l'attenzione sono assorbite dal conflitto; in questo senso
Luhmann parla di "forma parassitaria del conflitto".
Si pone, così, il problema del controllo sociale dei conflitti,
in merito al quale nelle società complesse gli strumenti
si riducono - secondo Luhmann - al diritto e alle regole della
"buona condotta".
I
conflitti costituiscono un caso esemplare per l'analisi delle
difficoltà dovute ad un livello eccessivamente elevato
di interdipendenze sistemiche. Quando i sistemi sono altamente
interdipendenti riducono ogni interesse verso il proprio ambiente
perchè il loro impiego di materiali e informazioni nell'operare
selezioni è precondizionato dalle relazioni di interdipendenza;
inoltre, per poter garantire al livello strutturale la totale
interconnessione, in modo che ogni avvenimento possa riguardare
tutti gli altri, i sistemi devono consentire un'elevata elasticità
ad eventi o azioni che si verificano al loro interno. Questo significa
che i sistemi dei conflitti mostrano due importanti caratteristiche:
sul piano della struttura tendono ad una drastica riduzione dei
sistemi coinvolti a due avversari o, almeno, a due schieramenti;
sul piano dell'azione si osserva un'apertura nei confronti di
gran parte delle possibilità che consentano di nuocere
all'avversario o di imporre decisioni, senza contrastare eccessivamente
gli interessi dei singoli.
Delineato
il profilo del fenomeno del conflitto, la teoria sistemica non
si occupa della "soluzione" dei conflitti, ma soprattutto
delle possibilità di condizionarli. L'avvio di conflitti
è infatti legato alle probabilità che il conflitto
si riproduca; è chiaro che non si apre un conflitto - ovvero
non si dirà un 'no' ad una comunicazione - se si prevede
di non riuscire a sostenerne le conseguenze. In questo senso,
allora, la vera chiave di volta divengono le condizioni che consentono
la riproduzione dei conflitti e il loro consolidamento come sistema.
A questo proposito Luhmann parla della possibilità di
costituire un 'sistema immunitario' attraverso il quale il sistema
della società tenta di isolare o comunque di depotenziare
i conflitti. Se intende riprodurre il proprio sistema immunitario,
una società deve poter offrire un numero sufficiente di
occasioni conflittuali non ancora sfruttate. Considerando i conflitti
come sistemi Luhmann indica due diverse forme di condizionamento,
rispettivamente derivate da una reinterpretazione in chiave sistemica
delle indicazioni di Weber e di Simmel: la limitazione dei mezzi
e l'incremento dell'insicurezza. Un caso classico della prima
forma di condizionamento è il divieto di ricorrere alla
violenza fisica. Dal punto di vista sistemico tale divieto non
solo evita il verificarsi di danni irreparabili, come la morte
di uno dei confligenti, ma soprattutto espleta la funzione di
rendere più complessi e raffinati i sistemi di conflitto,
con l'effetto di favorirne la perpetuazione. E' evidente che quando
è consentito l'uso della violenza fisica - come nelle relazioni
sociali illegali - i conflitti vengono aperti solo sotto forti
pressioni e tendono ad essere di breve durata. Quando, invece,
tali possibilità vengono represse si ha un corrispondente
incremento della libertà di passare a comportamenti conflittuali.
Il condizionamento dei conflitti agisce anche nella scelta dell'avversario.
Tale selezione è in una stretta relazione con le strutture
di stratificazione e di organizzazione dei sistemi sociali nei
quali si aprono conflitti. Il condizionamento delle possibilità
del conflitto è reso possibile soprattutto dalla gerarchia,
che in questo senso sostituisce la violenza fisica: " solo
chi sta in alto osa rifiutare, è libero di dire di no,
perchè il suo 'no' non è seguito da un conflitto"
( Luhmann 1990, 604 ).
L'altra
forma di condizionamento, l'incremento dell'insicurezza, agisce
nel senso di favorire una dis-integrazione del conflitto introducendo
un terzo nella relazione diadica, il quale inizialmente è
imparziale, ma in seguito può decidere di favorire uno
dei due confligenti. Il passaggio dalla diade alla triade comporta
la formazione di nuove possibilità di carattere non conflittuale
che spingono alla ricerca del consenso del tertium datur,
la presenza del quale può perfino favorire un depotenziamento
del conflitto tale da rendere accettabile per uno dei confligenti
il cedere o ritirarsi dal conflitto senza che questa chance venga
percepita come un atto di resa nei confronti dell'altro. Entrambi
questi condizionamenti agiscono nel senso di abbassare la soglia
dei conflitti, ma anche - una volta che il conflitto è
comunque aperto - permettono la coesistenza di un alto numero
di contraddizioni all'interno del sistema della società ,
le quali, in accordo con la crescente complessità della
società , devono poter essere comunicabili tra i diversi
sistemi senza che questi ne vengano danneggiati o distrutti.
Nella
gran parte dei casi, il rifiuto della comunicazione costituisce
un avvenimento irrilevante per la totalità del sistema:
i conflitti sono sistemi spesso minimi che sorgono e si dissolvono
restando al livello dell'interazione, senza produrre effetti o
conseguenze di vasta portata anche se si tratta di eventi biograficamente
rilevanti (come il rifiuto di una relazione amorosa o l'infruttuosa
ricerca di un lavoro). Anche la grande parte di conflitti rimane
ad un livello tale da non acquisire significatività per
il sistema sociale, questo comporta la produzione di una ridondanza
di negazioni che consente la possibilità di selezionare
conflitti che acquistano rilevanza per il sistema della società
nel suo complesso. E' il sistema immunitario che produce una selezione
dei conflitti socialmente significativi: la teoria deve allora
individuare i criteri tramite i quali si svolge la selezione di
ciò che assume importanza per il sistema della società .
Luhmann osserva che le forme della selezione dei conflitti variano
con il variare della struttura sociale e delle forme della stratificazione.
In linea di massima si può dire che il diritto è
da moltissimo tempo lo strumento principale per selezionare i
conflitti che è opportuno rischiare, consentendo, in particolare,
il rafforzamento di posizioni di vantaggio di tipo economico e
politico. Nelle società stratificate sia chi detiene proprietà
che those in authority sono in una posizione che consente
loro di rifiutare le imposizioni e di scegliere il conflitto.
Non solo, chi detiene il potere conflittuale gode di un valore
aggiuntivo in termini di proprietà e di potere, perchè
il credito di cui dispone e il potere deterrente connessi alla
sua posizione gli permettono di ottenere più di quanto
il possesso di proprietà o la disponibilità di
sanzioni negative gli consentirebbero direttamente. E' da notare
che l'elemento caratteristico di questo modello è la scarsa
differenziazione tra i diversi sistemi sociali dell'economia,
della politica, del diritto, del linguaggio e della morale; assai
diverso è il profilo dei meccanismi di controllo dei conflitti
nella società funzionalmente differenziata. In questa
l'individuo viene tutelato individualmente nel suo potere conflittuale.
Carattere specifico di questa situazione è la separazione,
almeno parziale, delle modalità di regolazione delle disposizioni
individuali al conflitto dalla struttura della società .
Nella regolazione operata dal diritto ciò che appare 'naturale'
viene sostituito con l'idea di libertà e con la semantica
ad essa connessa. In quanto sistema immunitario della società ,
il diritto può essere inteso come anticipazione di possibili
conflitti. Dalla quantità delle aspettative che si formano
quotidianamente, la prospettiva del conflitto seleziona quelle
si possono rivelare come maggiormente efficaci, assumendo come
criterio normativo la distinzione tra ciò che è
lecito e ciò che non lo è. Diventa possibile, così,
prevedere l'esperienza di conflitti in modo tale da ridurre il
loro verificarsi a livello dell'interazione. Nella società
moderna, lo sviluppo dei diritti come garanzie di soluzione preventiva
di conflitti lungi dal ridurli, ne comporta invece un enorme ampliamento
delle possibilità , dal momento che la richiesta del riconoscimento
di diritti diviene essa stessa una delle maggiori cause di conflitto.
In quanto sistema immunitario il diritto non serve ad evitare
i conflitti, cerca soltanto di evitare l'attuarsi violento dei
conflitti, fornendo ad ogni conflitto forme di comunicazione appropriate.
E' così che il conflitto può divenire un evento
della riproduzione della società .
Luhmann
osserva che nei sistemi ipercomplessi lo sviluppo di ulteriore
complessità procede in modo parzialmente svincolato dall'esistenza
di strutture fisse di aspettative, pertanto vi è un incremento
di selezioni devianti e/o innovative rispetto alle società
stratificate. Lo sviluppo della complessità agisce infatti
sui sistemi sociali soprattutto in tre direzioni: a) allentamento
dei legami interni tra sistemi interpenetranti, cioè riduzione
dell'intensità dei legami tra sistemi psichici e sistemi
sociali; ne deriva la necessità di una b) specificazione
dei contributi per i quali si fa appello all'interpenetrazione.
Queste due trasformazioni, combinandosi, producono una c) progressiva
cumulazione di effetti, inizialmente prodotti in modo casuale,
ma successivamente tendenti a rafforzarsi. L'allentamento dei
legami di interpenetrazione non significa naturalmente che gli
uomini diventino indipendenti dalle condizioni sociali della loro
vita; accade piuttosto il contrario: "la conduzione della
loro vita, tuttavia, risulta meno vincolata da tipizzazioni che
impegnano interiormente. I legami che vengono stretti possono
essere scelti più o meno autonomamente e questa loro origine
non viene dimenticata" (Luhmann 1990, 608). Si viene a costituire
così un individuo che, essendo più partecipe del
proprio adattamento sociale, tende sia ad impegnarsi in modo più
consapevole, ma allo stesso tempo è più facilmente
sottoposto a stress ed è più pronto ad isolarsi.
La transizione dal predominio degli status ascritti a quello degli
status acquisiti nel momento in cui comporta l'incremento della
complessità sistemica, produce circostanze favorevoli
ad una più accentuata specificazione dei singoli contributi
introdotti da ciascun individuo nella comunicazione. Tuttavia,
i legami di tipo naturale sono connessi a dei bisogni, come la
necessità di identificazione, che non possono essere unicamente
sostituiti da necessità prescelte e specifiche, ma richiedono
dei sostituti capaci di coinvolgere gli individui in modo più
pervadente: è in questa linea di sviluppo che acquista
rilievo la cumulazione degli effetti. Si tratta di cambiamenti
repentini di umore, di mutamenti nella sfera delle mentalità
collettive che possono produrre azioni e movimenti sociali. Carattere
saliente di queste manifestazioni è la loro erraticità
e temporaneità , che sembrano stare in tensione con la
sensazione di necessità e di verità che accompagna
i fenomeni connessi alla cumulazione degli effetti, come i movimenti
sociali. La temporaneità di tali fenomeni, quando confrontata
con la durata della vita di ciascun individuo, appare paradossalmente
evanescente rispetto alla sua capacità di conferire identificazione
e certezze. Ormai, "gli individui vivono più a lungo
di quanto duri ciò che, di volta in volta, li convince",
ma continuano ad identificarsi, sebbene appaia inevitabile constatare
che ad un certo punto il consenso su certi temi si disperde e
non stimola più azioni e movimenti. Questa dinamica mostra
il carattere intrinsecamente 'sociale' dei movimenti sociali,
cioè il fatto che non è il tema a generare il movimento,
ma è il movimento che, costituitosi come prodotto temporaneo
della cumulazione degli effetti costruisce socialmente la sua
issue. I movimenti di protesta non possono essere compresi
nè come sistemi di organizzazioni, nè come sistemi
di interazioni. Non organizzano decisioni, ma vincoli, commitments
da un lato, infatti, "cercano di portare nel sistema proprio
ciò che una organizzazione deve presupporre e il più
delle volte deve pagare: motivazione all'adesione come membri
dell'organizzazione. (...) Se si volessero intendere i movimenti
di protesta come organizzazioni si troverebbero solo caratteri
deficitari: eterarchici, non gerarchici, policentrici, a forma
di rete e, in particolare, privi di controllo sul processo della
loro stessa trasformazione" ( Luhmann-De Giorgi 1992, 336);
dall'altro lato è evidente che i movimenti di protesta
non possono essere semplicemente interpretati come sistemi di
interazione, perchè l'interazione è solo lo strumento
con il quale testimoniare il vincolo.
La
selezione di un obiettivo è parte integrante dell'autopoiesi
del movimento, il movimento acquista una direzione definita ed
un orientamento possibile, selezionando allo stesso tempo quali
operazioni sistemiche possono connettersi e quali invece devono
essere respinte, così da delineare una "linea di azione".
Un momento importante dell'autocostituzione dei movimenti sociali
è la descrizione che danno di sè e in base alla
quale acquistano unità gli eventi passati consolidando
l'identità prodotta dal sistema. Luhmann sottolinea che
nella selezione dell'obiettivo i movimenti osservano la società
moderna in base alle sue conseguenze. Il movimento operaio assumeva
come tema le conseguenze dell'industrializzazione ed elaborò
una descrizione della società che corrispondeva alla sua
protesta e concorreva persino a spiegarla. L'incremento della
complessità ci impedisce di mantenere oggi questa semplificazione,
nè in quanto monopolio della protesta, nè tanto
meno, come descrizione della società . In generale si può
dire che la società , in quanto funzionalmente differenziata,
è per i movimenti di protesta il tema di sfondo nel quale
selezionare tutti i temi. Non a caso, la condizione minima perchè
il movimento si avvii è che la società non abbia,
fino a quel momento, osservato il tema: " solo l'autopoiesi
del movimento sociale costruisce il tema, trova la relativa pre-istoria
al fine di non dover apparire come ciò che ha inventato
il problema e produce così una controversia che per l'altra
parte, nella routine quotidiana, inizialmente non è affatto
una controversia " (Luhmann-De Giorgi 1992, 338). Attraverso
la produzione di un fenomeno tipicamente moderno quale è
quello dei movimenti sociali, la società funzionalmente
differenziata dà forma ad un sistema autopoietico peculiare
con il quale osservare se stessa dal proprio interno e contro
se stessa; in tal modo essa reagisce alla propria opacità
e alla elevata dipendenza di tutti i processi dalla decisione
su cosa definire giusto per l'intera società , in mancanza
di un'autorità che possa determinarlo e di una struttura
sociale che la sostenga.
In
questa linea uno dei contributi più significativi della
teoria luhmanniana all'analisi sociologica del conflitto sembra
consistere proprio nell'intendere la conflittualità come
possibilità della comunicazione; da questa scelta consegue
una fondazione della conflittualità " nella stessa
definizione dell'identità di Ego e di Alter ". L'aver
assunto la dimensione simbolico-comunicativa nella definizione
di Ego e di Alter permette infatti di sottoporre all'analisi della
teoria tanto gli aspetti simbolici dei conflitti intorno a beni
materiali, quali quelli economici, politici, di lavoro e così
via, quanto quel tipo di conflitto sociale la cui crescente rilevanza
nella società contemporanea sembra proprio confermare
la capacità esplicativa della teoria luhmanniana: il conflitto
per l'affermazione dell'identità . Abbiamo visto come Luhmann
ponga al centro dei processi di autocostituzione dei movimenti
sociali il bisogno di identificazione e il conseguimento di un
legame che offra senso di appartenenza e come entrambi questi
aspetti siano a loro volta la conseguenza dell'incremento della
complessità in società già altamente differenziate.
La trasformazione dei caratteri del conflitto è dunque
da porre in relazione con le progressive differenziazioni connesse
all'incremento della complessità sociale: la significatività
sociale dei conflitti si fa simbolica perchè la differenziazione
allontana progressivamente la società dalla forma dell'interazione,
generando in modo autopoietico i problemi socialmente significativi
di cui poi doversi occupare. Ciò significa che il conflitto
riveste un posto di particolare importanza in quanto costituisce
una dimensione intrinseca al sistema stesso e alla sua gestione
funzionale. Come i sistemi biologici hanno il loro apparato immunitario,
così il sistema sociale ha il proprio nelle forme del condizionamento
dei conflitti. In questo senso l'aprirsi di un conflitto rappresenta
per il sistema sociale una sorta di 'preavviso', di affermazione
di possibilità di negazione che distruggono per un istante
" la pretesa globale del sistema di essere complessità
già ridotta ed ordinata" (Luhmann 1990, 578) e che
comportano il loro condizionamento. La società funzionalmente
differenziata riesce, quindi, a trasformare i 'no' alle sue comunicazioni
in un mezzo per la propria riproduzione autopoietica; ciò
consente il controllo e il superamento di un numero di conflitti
molto più elevato di quanto non potesse accadere in società
stratificate o segmentarie. Ora, se è vero che il conflitto
debba essere inteso come un evento necessario ai processi riproduttivi
della società , perchè un sistema senza conflitto
è entropico, non si può però pensare di fare
a meno dei ' sì ' alla società .
10.
I nuovi conflitti sociali. Alain Touraine, alla pari di
Dahrendorf e di altri autori del nostro tempo, è guidato
da una concezione del lavoro sociologico che è incline
alla previsione. Ciò nel senso che è un dato
necessario del lavoro scientifico, pur sempre alla luce di una
metodologia rigorosa, lo sforzo di individuare le tendenze di
mutamento che prefigurano la società verso la quale stiamo
andando. Come è noto, Touraine ha fatto uso del termine
società post-industriale e nel cercare di disegnarne i
contorni ha denunciato come limite dell'analisi sociologica quello
di non sapersi liberare dalle categorie che ha elaborato per orientarsi
nell'ambito della società industriale. D'altro canto è
anche evidente che non sono pochi gli elementi strutturali,
tuttora attivi, propri di quel tipo storico di società
che si proiettano nel presente condizionandone lo sviluppo e legittimando
il basso grado di obsolescenza dell'apparato categoriale in voga
nelle scienze sociali. A parte ciò sembra utile isolare,
come fa Touraine, una dimensione sociale specifica, un campo particolare
come quello del conflitto sociale, che è stato alla base
della società industriale; ciò può rappresentare
un espediente utile per verificare in maniera adeguata continuità
e discontinuità tra i due tipi storici di società
ma pure per rinnovare, in concreto e su una questione-chiave,
l'armamentario concettuale del sociologo.
Touraine
ha sviluppato sul conflitto sociale delle linee analitiche che
procedono sulla base di quattro ipotesi di lavoro di carattere
molto generale (Touraine 1975). Prima ipotesi: nella società
post-industriale i conflitti sono generalizzati; seconda ipotesi:
di fronte ad un apparato di potere sempre più integrato,
l'opposizione viene sostenuta da attori collettivi radicati quasi
esclusivamente nel contesto urbano; terza ipotesi: i conflitti
sociali tendono a confondersi con i comportamenti devianti; quarta
ipotesi: i conflitti strutturali si separano dai conflitti legati
al mutamento. La società senza classi e senza conflitti
non viene più proposta da nessuna ideologia e da nessun
partito politico. Sacralità e tradizione scompaiono e
si indeboliscono le istituzioni che garantivano la riproduzione
sociale. I conflitti penetrano progressivamente in un'area vastissima
quella della vita privata; famiglia, educazione, relazioni sessuali
vengono coinvolti in una dimensione critica e conflittuale
dai movimenti legati alla condizione femminile. Le aspettative
reciproche di comportamento vengono messe in forse in maniera
irreparabile: si ha una perdita di autorità nell'ambito
domestico e nella scuola, si parla di guerra tra i sessi e si
parla di conflitto generazionale. Le gerarchie sociali che
organizzavano un dato ordine sociale scricchiolano pericolosamente.
Una società post-industriale è una società
che mobilita in maniera sempre più generalizzata la sua
popolazione; lo sviluppo dei mass-media indebolisce il ruolo di
istituzioni intermediarie come i partiti. Il potere si confronta
direttamente con i movimenti di rivendicazione che si organizzano
a partire dai problemi concreti e senza farsi condizionare dalla
collettività politica. L'urbanizzazione progressiva
rappresenta uno degli elementi strutturali della società
post-industriale. Si assiste così ad un trasferimento del
luogo dei conflitti dalla fabbrica alla città . Lo spazio
va definito, tuttavia, in maniera concreta come luogo di una collettività .
La società post-industriale elimina la centralità
del movimento operaio organizzato anche perchè i problemi
del lavoro pur essendo di grande rilievo hanno perso autentica
centralità politica. Perde significato la differenza tra
produttivo ed improduttivo così come la distinzione tra
istanze economica, politica, ideologica un tempo fondamentali.
I due avversari principali capitalisti e operai non sono più
al centro della scena dello scontro. La nuova immagine dei
conflitti sociali " è quella di un apparato centrale,
impersonale ed integratore, che tiene sotto il suo controllo,
al di là di una semplice classe di servizio, una vera
e propria maggioranza silenziosa: ai margini di questa vengono
proiettate delle minoranze escluse, rinchiuse o semplicemente
sottoprivilegiate, quando non siano del tutto negate".
Non
ha senso, secondo Touraine che esplicita così al
massimo grado la sua natura di teorico conflittualista, la posizione
di chi prevede il riassorbimento dei conflitti strutturali in
una proliferazione di tensioni e di negoziati pratici orientati
unicamente alla gestione del mutamento. La società post-industriale
è una società che ha il problema del potere e della
dominazione sociale , è una società che non ha
rimosso i conflitti di classe ma anzi li ha generalizzati attorno
a nuovi soggetti sociali liberati dalla secolarizzazione e dalla
crescita dell'economia. "La società post-industriale
non ha altra natura che di essere il prodotto dei suoi conflitti
interni; ciò che è in gioco è il controllo
della capacità d'azione della società su se stessa
".
Con
specifico riferimento all'Europa contemporanea e dunque ad un
contesto societario dove la società post-industriale ha
uno spazio consistente, Touraine si preoccupa di definire l'espressione
movimento sociale riservandola " ai comportamenti collettivi
che mettono in causa, attraverso un conflitto sociale, l'utilizzazione
da parte di una società delle principali risorse e dei
modelli culturali di cui essa dispone : cioè, allo stesso
tempo, i suoi modelli di conoscenza, le sue principali forme di
investimento e di produzione ed i suoi modelli etici, i suoi principi
morali " (Touraine 1992,136-7). Tramite questa definizione
che ci parla dei movimenti sociali nei termini di comportamenti
collettivi di livello più elevato viene riproposta l'idea
che, almeno virtualmente, esista un conflitto centrale come primo
motore di una data società . La lotta di classe viene surrogata
al livello dell'organizzazione del lavoro da movimenti di rivendicazione
che tentano specialmente di migliorare il livello salariale.
Anche Touraine legge la storia politica recente dei paesi occidentali
industrialmente avanzati in chiave di istituzionalizzazione dei
conflitti industriali. Ogni società -Stato si è
attrezzata con una sua forma di istituzionalizzazione dalla socialdemocrazia
dei paesi nordici, alla via della industrial democracy
battuta dall' Inghilterra, al Welfare State proposto in
Italia ed in Francia. Ma non ha più senso parlare solo
degli operai,le collettività studentesche, con i loro
problemi di inserimento in una società che si complessifica
e che prolunga all'estremo il loro status di incertezza, occupano
uno spazio nuovo ed autonomo. In questo modo i movimenti
collettivi hanno calibrato la loro capacità di rottura
ed hanno funzionato come canali di partecipazione diffusa e di
impulso quasi sempre riformista.
Il
punto chiave dell'analisi delle nuove forme di conflitto sociale
pertiene prima all'obiettivo della lotta ma pure all'attore
che la sostiene. Non si tratta più di sviluppare un conflitto
per l'economia ma piuttosto per la gestione. "Nelle società
economicamente più avanzate la lotta investe un più
ampio sistema di organizzazione sociale, l'accumulazione del potere
da parte degli apparati e la manipolazione crescente di tutti
i settori dell'attività sociale. La rivendicazione, difensiva
o offensiva che sia, attacca un modo di decisione e di gestione,
investe il comportamento di attori sociali, più che delle
leggi economiche" (Touraine 1974,180-1). Il conflitto
sociale assume una nuova forma anche nel senso che si trasferisce
dalla fabbrica ad altre istituzioni che prendono una nuova centralità ,
come l'università . L'università è il luogo
dove si forma una nuova lite rivendicativa perchè
la scienza è forse, oggi, la principale forza che alimenta
lo sviluppo tecnologico ed è intrecciata sempre più,
diversamente da quanto avveniva in passato, con il sistema economico
e con il sistema politico. D'altro canto è chiaro che la
massa studentesca non può identificarsi con una massa sottoprivilegiata
e dunque viene a mancare una precondizione per la formazione di
un 'movimento sociale completo'. "Una società
in rapido mutamento tende piuttosto a valorizzare la giovinezza
a spese dell'esperienza. I sottoprivilegiati della nostra società
si situano sicuramente più sul versante degli anziani che
su quello dei giovani". Nel 1968, ma non solo all'interno
di quel ciclo di lotte, non poco mitizzato, si assiste - non a
caso- al tentativo di una saldatura fra gli studenti e gli operai.
Altrettanto emblematico, anche se non è stato studiato
con la dovuta attenzione, il ruolo svolto dai giovani operai nella
partecipazione al momento conflittuale, spesso in aperta opposizione
non solo con i padroni ma anche con gli altri operai ligi alle
direttive delle centrali sindacali e di partito.
Nel
quadro di questa ridefinizione delle dinamiche conflittuali la
gioventù si propone come neo-attore politico. La nostra
società si definisce più per quello che può
essere che per quello che è stata e per quello che è
attualmente. I giovani possono essere identificati come titolari
di privilegi ambivalenti soprattutto attraverso una comparazione
con gli anziani che la nuova società depotenzia in quanto
titolari di un' autorità non sostenuta da un'adeguata
competenza. I giovani sono promotori di rivendicazione e l'anima
dei movimenti sociali anche perchè hanno un nuovo modo
di pensare, sono attratti dalle nuove forme di comunicazione e
ne sono il veicolo più convinto. Naturalmente la condizione
giovanile non è omogenea, al centro delle dinamiche conflittuali
stanno soprattutto i giovani universitari, quelli che sono stati
socializzati nelle grandi città e possono anche permettersi
di aspettare una collocazione professionale congruente.
Touraine comprende assai bene tuttavia che l'attore giovane è
un promotore di rivendicazione temporaneo esposto alle suggestioni
della congiuntura economica e politica, insofferente di ogni inquadramento
organizzativo e dunque a sua volta elemento che condiziona non
poco il successo del movimento. Tutto può accadere: dall'affermazione
di una democrazia iperpartecipata, all'affermazione di una leadership
carismatica labile,alla riduzione della rivolta sociale in violenza;
alla fuga da ogni responsabilità .In questi ultimi lustri,
non ci si deve sorprendere, l'apatia politica giovanile sembra
pesante anche se periodicamente si assiste a delle eruzioni che
indicano nella gioventù uno dei possibili principali attori
di innovazione. Trent'anni di movimentismo hanno dimostrato che
il campo dei conflitti si è esteso,si è differenziato
ma si è anche frantumato. Il conflitto si è presentato
con il volto di una radicalizzazione a cicli che ha giovato non
poco anche al sistema di potere, il quale comunque ha saputo,non
di rado,adattarsi alle domande di rivendicazione. Siamo in una
fase prolungata di ridefinizione delle posizioni e dei ruoli:
gioventù come ultima speranza? Non si tratta di affidarsi
solo ed unicamente ai giovani; i fronti del conflitto sono aperti,
mutevoli e molteplici e vanno letti comunque come un dato strutturale
di apertura della società contemporanea.
"L'attore
non è più definito in base al suo posto o
alle sue funzioni in una comunità ; lo definiscono invece
le tensioni, i conflitti, le trasformazioni culturali e i rapporti
sociali che gestisce; ma anche la rivolta che lo mobilita contro
un dominio sempre più esteso e capace di presentarsi come
razionale e naturale" (Touraine 1974,200). Dunque, ancora
una volta, l'identità sociale si costruisce attraverso
l'opposizione; il conflitto ha una funzione importante per la
costruzione di nuovi soggetti e per permettere alla società
di sfuggire ai pericoli della pietrificazione dei valori sacrificati
sui deboli altari dell'efficienza e del consumismo.
11.Globalizzazione,
società multiculturale e conflitti etnici. Nell'ultimo
quarto di secolo si è assistito ad una progressiva estensione
dello sviluppo di conflitti di carattere etnico nelle diverse
società occidentali, la fenomenologia del conflitto sociale
acquista così un ulteriore tratto specifico. Le analisi
e le spiegazioni teoriche avanzate in questo periodo dalla letteratura
sociologica sono molteplici, a partire dalle critiche rivolte
agli orientamenti assimilazionisti presenti nella sociologia statunitense
degli anni Sessanta e Settanta. In questa direzione si collocano
le posizioni di A. Cohen e di N. Glazer e D.P. Moynihan , che
sostengono una 'deculturalizzazione' della concettualizzazione
dei gruppi etnici nella loro ridefinizione come gruppi di interesse.
Secondo Cohen è possibile interpretare l'identità
etnica come identità politica che si struttura nell'interazione
con gli altri gruppi etnici in funzione di influenza dei processi
decisionali. In questo senso, scrive Cohen si può intendere
il temine di etnicità come riferito " al grado di
conformità da parte dei membri della collettività
alle norme condivise nel corso dell'interazione sociale"
(Cohen 1974, 136). Su questa linea si collocano anche Glazer
e Moynihan i quali, rilevato il fallimento delle politiche assimilazioniste
negli Stati Uniti, sostengono l'ipotesi che l'identità
etnica costituisca un elemento di elaborazione di una identità
politica in quanto sostanzialmente connessa all'appartenenza di
classe. In una linea di lettura di ispirazione neo-marxista il
conflitto etnico viene quindi spiegato come una peculiare configurazione
della lotta per il controllo di risorse di potere o direttamente
della lotta di classe. Secondo questa interpretazione, assai diffusa
nel settore radicale delle scienze sociali americane, la dimensione
culturale che caratterizza i conflitti etnici non farebbe altro
che celare una logica di mobilitazione per quelli che sono ritenuti
i veri conflitti, e cioè solo i conflitti di interesse.
Un
limite importante di questa interpretazione consiste nella riduzione
della dimensione simbolica ed identitaria connessa alla cultura
a semplice simulacro dietro al quale si svolgerebbe la vera realtà
conflittuale. Una posizione meno radicale è sostenuta da
Daniel Bell che, nel ricostruire il processo di declino delle
ideologie, indica nella tendenza alla ripresa delle identità
etniche una chiara manifestazione dell'importanza dell'identità
come fattore strutturante i comportamenti collettivi. La tesi
di fondo di Bell è che nel procedere della razionalizzazione
e della differenziazione sociale i ruoli si fanno sempre più
astratti e impersonali e ciò produce un senso di smarrimento
dell'identità , che trova nel recupero delle identità
etniche un possibile punto di forza. Bisogna però considerare
che i conflitti che si sviluppano tra i gruppi etnici possono
- secondo Bell ' strutturarsi prevalentemente intorno agli interessi
delle parti in gioco, rivelandosi così un caso particolare
di conflitti di interesse. Il contributo di Bell è significativo
perchè comunque contribuisce ad indicare un ruolo importante
dell'identità etnica nella lotta politica. Tra la metà
degli anni Settanta e la metà del decennio successivo
una posizione che ha ripreso in misura significativa il tema del
conflitto etnico come conflitto culturale è stata quella
di Horowitz (Horowitz 1975 e 1985). Richiamandosi alla teorizzazione
simmeliana dell'identità , Horowitz sostiene che è
nel conflitto che si struttura l'identità . L'identità
etnica viene qui intesa come costituita da due dimensioni strutturanti:
da un lato i tratti ascrittivi, i tratti cioè che si acquisiscono
con la nascita come il genere, ma anche la lingua, dall'altro
lato i tratti volontari che permettono di considerare l'identità
etnica come una scelta. Entrambi questi elementi contribuiscono
a costruire l'identità etnica nei contesti caratterizzati
da pluralismo culturale. Nelle condizioni di omogeneità
culturale, infatti, l'identità etnica viene costruita
principalmente attraverso i tratti ascrittivi, ma nelle condizioni
proprie della società multiculturale e del conflitto etnico
l'identità etnica diviene anche un esito di un processo
di autoposizionamento. Il merito della teoria di Horowitz è
di mettere al centro del dibattito la considerazione secondo la
quale se l'identità si struttura nella relazione allora
essa tenderà "espandersi in un contesto in espansione
e a contrarsi in un contesto in contrazione" (Horowitz 1975,
137). Ciò significa che in un contesto multiculturale non
si può più parlare esclusivamente di assimilazione,
ma anche di differenziazione e di integrazione parziale in collettività
più ampie. In questo senso Horowitz parla di processi di
'fusione' e di 'scissione' etnica. Nell'analisi dei processi di
sviluppo del conflitto etnico Horowitz rileva che in determinate
condizioni i gruppi etnici possono persino sacrificare il proprio
interesse economico pur di conservare l'identità , in controtendenza
con quanto sostenuto dalle teorie precedenti. Nel tentativo di
individuare gli elementi costitutivi delle identità etniche,
Horowitz indica soprattutto gli elementi di natura psicologica
ed emotiva, come la paura della subordinazione, o della propria
estinzione oppure il rapporto tra pregiudizio e autostima. Secondo
Horowitz una condizione scatenante del conflitto etnico è
la comparazione che i membri di uno o più gruppi etnici
tendono a fare tra il proprio gruppo e gli altri sviluppando in
questo confronto sentimenti di antipatia e di antagonismo che
possono rinforzare il senso di identità in chiave nettamente
conflittuale.
Lo
sviluppo dei processi di globalizzazione ha ridefinito le modalità
di marcatura dei confini e delle identità etiche e culturali,
generando nuove condizioni di incontro e di conflitto. In questa
prospettiva si colloca la teoria proposta da Roland Robertson
sul rapporto tra identità etnica, conflitti e globalizzazione.
Rifiutando le tesi secondo le quali l'identità etnica
costituirebbe un elemento residuale a fronte dei processi globalizzanti,
Robertson sostiene la posizione secondo la quale la globalizzazione
sviluppa una serie di effetti di compressione collegando tra di
loro in modi inediti gruppi etnici e società . In questa
nuova ridefinizione delle relazioni la vicinanza e la lontananza
non definiscono più la capacità maggiore o minore
di esercitare influenza, cioè si può essere lontani
fisicamente ed esercitare un'influenza maggiore di coloro che
sono vicini, ma anche viceversa. Robertson concettualizza questa
crescente interpenetrazione degli attori della globalizzazione
nel termine di glocalizzazione. Da questo punto di vista
la globalizzazione non produce la distruzione delle comunità
locali, ma "implica la ricostruzione, in un certo senso la
produzione, del senso dell' 'essere a casa', della comunità .
In questo senso il locale non può essere visto (') come
un contrappunto al globale. Infatti esso può essere visto
(') come un aspetto della globalizzazione" (Robertson 1995,
30). In questa prospettiva la ricerca di un'identità etnica
costituisce quindi uno dei possibili esiti dei processi di globalizzazione.
Vittorio Cotesta ha osservato che "la ricerca dell'identità
comporta la 'riscoperta', l'invenzione o la ri-costruzione delle
proprie tradizioni" (Cotesta 1997, 46). Anche l'irrigidimento
delle identità etniche nel fondamentalismo costituisce
un possibile sviluppo dei processi di globalizzazione, in quanto
ne è allo stesso tempo il prodotto e la reazione.
La
prospettiva di Robertson mette in luce un aspetto nuovo della
fenomenologia dei conflitti etnici, evidenziando come da un lato
i processi di sviluppo della tarda modernità non siano
esenti dalla genesi di forme di identità in apparenza
tradizionali e antimoderne, che appaiono caratterizzare anche
le forme più radicali del conflitto etnico.
Dal
punto di vista tipologico i processi di globalizzazione cui si
è ora fatto riferimento agiscono sulla fenomenologia dei
conflitti in vari modi, in particolare, però, la dimensione
quantitativa sembra costituire un aspetto importante meritevole
di una particolare riflessione. La letteratura sui conflitti può
essere, infatti, classificata secondo una distribuzione tipologica
che tenga conto della trasformazione dei conflitti in relazione
con il variare del numero degli attori coinvolti. La complessità
dei conflitti si trova in una stretta relazione con la diversa
complessità organizzativa e sistemica generata dall'incremento
del numero degli attori.
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1
Questo paragrafo è stato scritto da Marco Bontempi.
2
Questo paragrafo è stato scritto da Marco Bontempi.