Conflict Management di Armando Avallone (fonte )
Il Corriere della Sera di sabato quattro febbraio 2006 ha pubblicato la notizia del raggiungimento di un accordo tra lo Stato italiano e il Metropolitan Museum di New York. Quest'ultimo restituirà  all'Italia sia il grande cratere di Eufonio, capolavoro del VI secolo a. C., sia i quindici argenti ellenistici di Morgantina. Entrambi provengono dal traffico archeologico clandestino, ma il ministero per i beni e le attività  culturali si è impegnato a riconoscere 'la buona fede degli acquisti' da parte del museo statunitense. In cambio l'Italia intensificherà  i prestiti a lungo termine (da sei a dodici anni) di altri pezzi archeologici. Inclusi, in un futuro non vicino, proprio i beni restituiti. La firma dell'intesa è avvenuta il quattordici e il quindici febbraio a Roma tra il ministro Rocco Buttiglione e Philippe De Montebello, direttore del Metropolitan. A far decidere per la nuova linea sarebbero state alcune prove inoppugnabili sulla provenienza non lecita dei pezzi, offerte dai carabinieri del nucleo storico-artistico: 'prove convincenti' per il portavoce del Met, Harold Hozer. A far propendere per la restituzione avrebbe tuttavia pesato una minaccia più grave: l'esclusione dalla politica italiana dei prestiti. Addio mostre di grande richiamo sul pubblico internazionale; addio trasferte verso New York di tele rinascimentali. Una prospettiva economicamente, e culturalmente, inaccettabile per il Metropolitan.
Il caso descritto dal Corriere può essere considerato un esempio di conflitto concluso positivamente. Ma quali mosse hanno reso possibile questo esito, quali elementi ne hanno agevolato il successo? Innanzitutto la definizione di un terreno comune. Le prove sulla provenienza illecita dei pezzi prodotte dai carabinieri sono state considerate valide dalla dirigenza del Met, cui è stata riconosciuta dalla controparte la 'buona fede negli acquisti'. E' stato così possibile ancorare la negoziazione a un dato cui si attribuiva la medesima interpretazione, qualcosa di molto simile a un 'fatto', a un criterio 'oggettivo': c'è stato un reciproco riconoscimento. A partire da questa considerazione, la dialettica si è concentrata sugli interessi: l'Italia ha infatti minacciato di sospendere i prestiti, il Metropolitan di abbandonare la trattativa. Questi diverse istanze sono state superate da una soluzione comune, che garantisce la restituzione delle opere contese e l'intensificazione dei prestiti oltreoceano, e che è stata sancita il quattordici febbraio dalla firma di un'intesa. E' a questo punto possibile individuare alcuni elementi che hanno contribuito a raggiungere un accordo, a elaborare il contrasto in senso generativo. Innanzitutto l'individuazione di un terreno comune, ovvero l'attivazione di un codice di reciproca comprensione. Successivamente l'aver ridotto il conflitto a quello tra interessi, conflitto tipico nella nostra società , ha reso possibile l'invenzione di una soluzione innovativa e vantaggiosa per ambo le parti, scartando così a priori fattori potenzialmente distruttivi. Infine l'utilizzo di un istituto, riconducibile al contratto, che ha consentito di sancire l'accordo rendendolo valido (appunto l'intesa firmata il quattordici febbraio).
Mi sembra questo un esempio interessante di come il conflitto, che solitamente viene considerato un problema, o un costo, possa invece istituire nuove opportunità , fornire lo spazio per soluzioni creative. Certo deve essere gestito e contestualizzato in modo da disinnescarne il potenziale distruttivo. Ma, se questa operazione riesce, alle parti in causa  (siano esse individui, organizzazioni, istituzioni etc.) si schiude la possibilità  di superare reciprocamente i propri limiti e i propri orizzonti, giungendo a una soluzione efficace e innovativa. Che ovviamente costituirà  la base di un nuovo conflitto (infatti si è aperto un nuovo contenzioso, questa volta con il Getty Museum di Los Angeles, che riguarderebbe circa trecento pezzi di dubbia provenienza). 
 
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Il tema del conflitto ha una storia controversa: pur essendo stato affrontato in diversi ambiti, molto raramente è stato oggetto di uno studio complessivo e organico. Una significativa eccezione è rappresentata da 'Il conflitto. Interessi, culture, identità ', ultimo libro di Ugo Morelli, edito da Meltemi nel 2006. Fondamento di questa analisi è l'ipotesi che il conflitto sia una proprietà  costitutiva di ogni relazione e di ogni processo di conoscenza. Lo stesso modo di porsi di fronte a un altro, mentre lascia emergere le opportunità  di apprendimento e relazione, è peculiarmente conflittuale. Il conflitto è perciò un incontro i cui esiti potranno essere generativi o degenerativi, conducendo a una situazione antagonistica o cooperativa, a seconda del modo in cui viene gestito, delle forme e delle strutture che ne consentono l'elaborazione. Proprio all'individuazione e all'analisi di queste forme e di queste strutture è dedicata la parte centrale del libro, che percorrendo le categorie di ambiguità , mancanza, margine e invidia delinea un approccio globale alle problematiche del conflitto e, nella parte conclusiva del testo, alla sua gestione.
Ma cosa significa gestire il conflitto, e perchè potrebbe diventare un elemento centrale e costitutivo delle discipline e delle prassi manageriali? Abbiamo a lungo ritenuto che apprendere per prove ed errori sia il nostro unico modo di agire e di conoscere. In base a questa visione prevalente il rapporto con gli altri ha assunto un carattere lineare o antagonistico. La stessa visione scientifica classica, fondata sulla meccanica razionale, ha legittimato a lungo questo orientamento, che è stato adottato anche nel campo degli studi psicologici. Se si osserva a distanza un mondo privo di incertezza, o dove al massimo questa rappresenta un disturbo, il concetto di conflitto è spurio, inutile. Ma forse l'apprendimento per prova ed errore non è più sufficiente per affrontare la complessità  del presente, che impone di trattare le relazioni e il mondo in un modo non esclusivamente lineare e deterministico. I più recenti sviluppi in diversi campi scientifici, dalla biologia alle neuroscienze, dalla psicologia all'economia, testimoniano questo mutamento di prospettiva, che comincia ad essere considerato anche dalle discipline manageriali (cito ad esempio il recentissimo libro di Alberto de Toni e Luca Comello 'Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità '). Ancora molta strada rimane da percorrere in questa direzione, ma alcune importanti scoperte indicano che la via tracciata potrebbe essere fertile e proficua. Per questo la tematica della gestione dei conflitti non può essere ignorata da chi studia e anima l'attività  delle organizzazioni: queste ultime infatti, in un mondo dove l'incertezza è un elemento costitutivo, non possono limitarsi alle relazioni lineari e determinabili (che per altro sono assai poche), ma devono affrontare il compito più impegnativo e sfidante di pensare il futuro. Gestione del conflitto e immaginazione e invenzione del presente e del futuro sono strettamente connessi. Si tratta di predisporre le condizioni educative e culturali per lo sviluppo delle capacità  di immaginazione e invenzione dell'inedito. Queste passano in buona misura per la messa a punto di una scienza e di una prassi di gestione evolutiva dei conflitti. 
Conflitto e neuroscienze: i neuroni specchio
Fino a tempi recenti gli economisti hanno trattato il cervello umano come una 'scatola nera' e suggerito equazioni matematiche che ne  semplificassero il funzionamento. Questo approccio ha portato indubbiamente enormi successi, ma forse non è l'unico percorribile. Recentemente infatti discipline come le neuroscienze e la psicologia delle decisioni hanno fatto passi importanti nel tentativo di comprendere le basi neurobiologiche e cognitive del comportamento umano, come testimonia l'interessante testo di Alain Berthoz 'La scienza delle decisioni'. Indubbiamente si tratta solo di primi passi, e un approccio assiomatico e deduttivo al problema della scelta resta fondamentale, ma quest'approccio può e deve essere integrato tenendo conto delle ipotesi proposte dagli scienziati sperimentali. 
Una di queste è la scoperta dei cosiddetti 'neuroni specchio', raccontata da Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato di Parma, nel libro 'So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio' (Cortina, 2006). Ha evidenziato come dalle 'pieghe stesse della scienza' debba emergere una risposta filosofica, che nel citato volume è affidata a Corrado Sinigaglia.
La ricerca prende le mosse dando una nuova valorizzazione al sistema motorio, superando l'idea che le aree motorie della corteccia cerebrale siano destinate ai soli compiti esecutivi. I ricercatori di Parma hanno dimostrato come il sistema motorio sia connesso in modo stretto e complesso con le aree visive, uditive e tattili e come i neuroni, attivandosi in relazione ad atti motori, rispondano selettivamente quando si osserva o si interagisce con gli oggetti. A livello corticale quindi, il sistema motorio compie atti complessi e non semplici movimenti (le braccia si muovono in modo coordinato per afferrare e consultare un libro, per stringere la mano di un conoscente, etc.). Sono atti consapevoli: la dinamica dell'azione struttura processi percettivi e cognitivi, e il cervello agisce e comprende anche grazie all'attivazione dei neuroni specchio. In tal modo essi, correlati alle competenze e al patrimonio motorio, consentono al cervello stesso di riconoscere e capire, coordinandolo al proprio, il comportamento altrui senza dover ricorrere al ragionamento. Il sistema dei neuroni specchio potrebbe costituire quindi la struttura portante di forme di imitazione, di apprendimento, di comunicazione e agevola la possibilità  di cogliere le reazioni emotive degli altri, di 'mettersi nei loro panni', di immedesimarci nel prossimo: 'la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano  le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare disgusto o dolore'. Questo nuovo approccio al problema dell'intersoggettività  viene confermato dalla recente affermazione del paradigma della cosiddetta 'embodied cognition', proposto da Gallese e Lakoff, che esaltano il ruolo del sistema sensomotorio nella formazione del pensiero concettuale.
I neuroni specchio, quindi, potrebbero essere considerati i 'neuroni dell'empatia', in quanto consentono di percepire ed elaborare le intenzioni e le sensazioni degli altri. Dato l'evidente carattere interdisciplinare di tale scoperta, si può ipotizzare come essa decifri la relazione conflittuale, facendo una luce parziale sulla dinamica biologica sottostante. Le azioni e le emozioni altrui, condivisibili o disprezzabili, diventano immediatamente percepite, innescando l'interazione. E non si può pensare che ci sia interazione senza conflitto.
Sicuramente aver riconosciuto la centralità  di questo processo neurofisiologico non esaurisce la spiegazione dei processi alla base dell'intersoggettività , ma l'aver individuato un elemento fondativo nella traduzione delle intenzioni altrui può essere fertile, se si rinuncia alla deterministica pretesa di spiegare univocamente l'interazione e il conflitto, e se, di contro, si tende a integrare questa ricerca nella comprensione dei rapporti storico-sociali, delle strutture economiche e istituzionali, delle tendenze politiche e culturali, dei processi psicologici e cognitivi. In questo modo sarà  possibile esplorare la dimensione conflittuale della mente relazionale, sviluppando il rapporto tra neuroscienze, psicologia e management, nell'ottica di proporre una visione più ampia ed integrata  dei processi cognitivi e decisionali (in questa direzione ad esempio muove il libro 'Psicologia e Management', di Paolo Legrenzi e Manuele Arielli). 
Conflitto e pensiero scientifico
Il nome di Thomas Kuhn, fisico, storico e filosofo della scienza statunitense, è indissolubilmente legato all'opera 'La struttura delle rivoluzioni scientifiche' (1962, tr. it. 1969), dove sostiene che il «progresso» scientifico non ha uno sviluppo di carattere cumulativo, dato che al suo interno si possono incontrare sistemi concettuali tra loro «incommensurabili». Le rivoluzioni scientifiche, che scandiscono le diverse fasi della storia della scienza, non devono essere concepite come confutazioni di singole ipotesi prima accreditate, ma come cambiamenti complessivi degli impegni teorici di una comunità  scientifica, definiti paradigmi.
Queste idee sono ribadite e ulteriormente perfezionate nei saggi compresi ne 'La tensione essenziale e altri saggi'; 2006; Piccola Biblioteca Einaudi, dove Kuhn giunge a individuare nel lavoro dello scienziato e nell'evoluzione della scienza un processo di natura conflittuale: 'solo indagini fortemente radicate nella tradizione scientifica contemporanea hanno probabilità  di rompere questa tradizione e dare origine a una nuova'1. Ecco quindi la 'tensione essenziale' implicita nella ricerca scientifica, che deve essere abitata e gestita per poter essere risolta in senso generativo.
Kuhn distingue due modalità  di crescita della conoscenza: una sostanzialmente cumulativo, in cui si aggiungono nuovi edifici alla 'città ' della scienza, e una non cumulativo in cui interi quartieri possono venir rasi al suolo per essere ricostruiti da cima a fondo. Solo in quest'ultimo caso si può parlare di mutamento rivoluzionario: nel primo, invece, si avrebbe a che fare con la cosiddetta 'scienza normale'. Nei periodi di scienza normale le ricerche avvengono sotto la guida di una teoria particolarmente forte (il paradigma) che individua problemi e metodi di soluzioni. In questa fase gli scienziati non tentano di scardinare le teorie accettate, ma lavorano a risolvere i problemi e le difficoltà  emergenti nella ricerca, operando comunque con la convinzione che la soluzione sia reperibile all'interno del paradigma stesso. Nelle condizioni normali 'lo scienziato ricercatore non è un innovatore, ma un risolutore di rompicapi, e i rompicapi sui quali si concentra sono proprio quelli che egli pensa possano essere sia impostati che risolti nell'ambito della tradizione scientifica esistente'2. In seguito alla scoperta di anomalie particolarmente gravi possono però sorgere delle crisi che si risolvono con un mutamento rivoluzionario. Ma per essere anomalie esse devono trovarsi in esplicito e inequivocabile contrasto con qualche elemento strutturalmente centrale del pensiero scientifico corrente. Perciò il loro riconoscimento e la loro valutazione dipendono da uno stabile collegamento con la tradizione scientifica contemporanea. Il passaggio da una teoria all'altra comporta tanti e tali mutamenti nelle concezioni del mondo, nelle abitudini linguistiche, negli atteggiamenti psicologici degli scienziati, da rendere inevitabile il fallimento di ogni tentativo di comprendere questi sconvolgimenti entro un modello di razionalità  scientifica che si occupi esclusivamente dei nessi logico-causali e di procedure sperimentali. Sembra invece più interessante, utile e fertile affrontare il problema della transizione tra paradigmi, quindi dell'evoluzione della scienza, nell'ottica del conflitto. Questa è la conclusione cui giunge l'autore ne 'la tensione essenziale'; egli non ha dubbi sul fatto che lo scienziato debba essere, almeno potenzialmente, un innovatore, che egli debba possedere flessibilità  mentale, e che debba essere preparato a riconoscere difficoltà  dove esistano. Ma, e questa è l'altra faccia della medaglia, deve essere anche un deciso tradizionalista, un solutore di rompicapi, un pensatore convergente. Se a questo punto, come sostiene Kuhn, 'dobbiamo cercare di capire come questi due modi, superficialmente discordanti, di risolvere problemi possono essere riconciliati nell'ambito dell'individuo o nel gruppo'3  è proprio la logica del conflitto a fornire gli strumenti necessari a superare quest'apparente dicotomia. In quest'ottica infatti lo scienziato deve essere contemporaneamente tradizionalista e iconoclasta, percorrendo  entrambi gli approcci, in modo da valorizzare nell'oggetto della sua ricerca opportunità  sempre nuove e interessanti, che emergono soltanto facendosi carico della 'tensione essenziale', gestendola in senso generativo, trasformandola in una fonte di possibilità  per il raggiungimento di traguardi, sicuramente parziali, ma non per questo meno importanti o meno concreti. 'Lo scienziato produttivo, per essere un innovatore di successo che scopre nuove regole e nuovi elementi con i quali giocare, deve essere un tradizionalista cui piace giocare complicati giochi secondo regole prestabilite'4. Credo che a questo punto siano evidenti le implicazioni che una visione di questo tipo comporta in ambito gestionale e organizzativo. L'azione del manager, infatti, come quella dello scienziato Kuhniano, si situa sempre tra continuità  e cambiamento, tradizione e innovazione. Solo una conoscenza approfondita della realtà  su cui si opera può consentire di pensare e attivare quei processi innovativi che rendono un'organizzazione in grado di adattarsi all'ambiente e di essere efficiente e competitiva. In questa prospettiva la gestione del conflitto, della 'tensione essenziale', diventa decisiva. 
Conflitto e cambiamento
L'economia è una disciplina che sta attraversando una fase peculiare del suo sviluppo, contraddistinta da una rinnovata attenzione ad ambiti che nell'ultimo secolo sono stati considerati strettamente non economici. Uno di questi è rappresentato dal tema dell'emergere delle istituzioni e dell'evoluzione delle norme sociali. 'Understanding the Process of Economic Change', il più recente libro di Douglass C. North, è un suggerimento a fare altri passi in questa direzione. North non è un economista, ma uno storico dell'economia, che ha riscosso tanto successo tra gli economisti da meritare il premio Nobel nel 1993, per le sue ricerche sul legame tra istituzioni e crescita di lungo periodo. In questo lavoro egli arricchisce l'analisi svolta in precedenza sul ruolo delle istituzioni con concetti tipici delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Si trova quindi a discutere della natura dell'incertezza, dell'importanza dell'apprendimento adattivo per il cambiamento, di come lo studio del funzionamento della mente può cambiare il modo di intendere le istituzioni economiche e sociali. Il punto di partenza è l'idea di Herbert Simon che la mente umana ragioni e calcoli in modo necessariamente parziale e incompleto. Per questo, sostiene North, gli uomini inventano le istituzioni: per ridurre l'incertezza, che altrimenti renderebbe vano ogni tentativo degli individui di concretizzare le loro capacità . Oppure, come già  sostenuto da von Hayek, per risolvere il problema di coordinamento implicito nella necessità  di mettere insieme le decisioni di milioni di persone che agiscono simultaneamente e indipendentemente, sulla base di opinioni in merito a ciò che stanno facendo tutti gli altri partecipanti al gioco sociale. Ma proprio il fatto che le azioni individuali si basino su opinioni spesso errate implica che l'incertezza sociale non si possa davvero eliminare. Il fatto stesso che gli esseri umani nel loro agire sociale abbiano l'obiettivo di introdurre cambiamenti rende, infatti, l'ambiente sempre mutevole. In pratica, dunque, le società  si evolvono commettendo errori e imparando adattivamente dagli errori commessi in precedenza.
Per questo il processo del cambiamento economico deve considerarsi strutturalmente conflittuale. Le istituzioni sono limiti che l'uomo pone all'interazione. Questi limiti, fornendo incentivi che influenzano l'azione di individui e organizzazioni, definiscono le opportunità  di un'economia. Le opportunità  influenzano le caratteristiche delle organizzazioni che emergeranno e avranno successo, ma allo stesso tempo l'attività  di queste organizzazioni, radicata in un contesto competitivo, indurrà  un cambiamento istituzionale. La percezione di nuove e diverse opportunità , possibile solo all'interno di un modello istituzionale definito, produrrà  dinamiche che altereranno il contesto stesso, schiudendo così nuove opportunità , e così via.
'Il margine tra intenzioni e risultati riflette la persistente tensione tra le costruzioni che gli uomini erigono per comprendere il loro ambiente e la sempre mutevole 'realtà ' di questo ambiente'5, e proprio da questa ineliminabile tensione emerge il processo del cambiamento economico. Ancora una volta il conflitto emerge come caratteristica del processo evolutivo dei fatti economici. 
Conflitto e strategia
"The Strategy of Conflict" è l'opera più conosciuta di Thomas Schelling, economista atipico, pioniere della teoria dei giochi e premio Nobel del 2005. Il libro è diventato un classico delle scienze sociali poichè ha introdotto elementi critici del pensiero economico in diverse discipline, quali le scienze politiche, la sociologia, le relazioni internazionali. Unendo diversi saggi, Schelling ha contribuito a stabilire un campo interdisciplinare, che è stato poi variamente definito come "teoria della negoziazione", "teoria del conflitto" o "teoria della strategia". Egli ha inoltre mostrato come alcune teorie elementari, applicate all'economia, alla sociologia, alle scienze politiche, persino alla giurisprudenza, alla filosofia e forse all'antropologia, sono applicabili a problemi di natura pratica.
L'ipotesi da cui muove la sua analisi è che, quando più persone devono affrontare insieme un problema, questa situazione contenga sia interessi comuni che interessi divergenti, e che possa essere analizzata con gli strumenti forniti dalla teoria dei giochi non cooperativi. La negoziazione, infatti, contiene un elemento conflittuale: le parti si trovano spesso a bilanciare l'interesse a ottenere il miglior risultato possibile, e l'interesse a concludere la trattativa stessa (nell'ipotesi in cui a nessuna delle due parti convenga strettamente rinunciare al gioco). L'idea rivoluzionaria di Schelling è che può essere conveniente limitare le proprie opzioni per ottenere concessioni dall'altra parte in causa. Credo che un esempio tratto dal comportamento animale, utilizzato da Ugo Morelli, possa contribuire a chiarire questo aspetto. Pensiamo a una gazzella, che si riposa o pascola nel deserto, praticamente invisibile. Appare un lupo; ci si aspetterebbe che la gazzella si fermi immobile, facendo il possibile per non essere vista. E invece no: si alza e colpisce rumorosamente il suolo con le zampe anteriori, tutto ciò guardando il lupo. Questi si avvicina; ci si aspetterebbe che la gazzella scappi il più velocemente possibile. Ebbene no: quasi sempre si mette a saltare sulle quattro zampe, parecchie volte, e solo dopo inizia a correre. Perche la gazzella si rivela così a un predatore che magari non l'avrebbe neppure vista? Perchè spreca tempo ed energia con quei saltelli invece di dileguarsi il più rapidamente possibile? La gazzella sta segnalando al predatore che l'ha visto: 'perdendo tempo' e saltando dimostra in modo inequivocabile di essere in grado di sfuggire al lupo. Il lupo, dal canto suo, accorgendosi di aver perso l'occasione di sorprendere la preda e avendo capito che quella gazzella è al meglio delle sue condizioni fisiche, può decidere di cambiare zona, oppure di dirigere la sua attenzione verso prede più facili. Anche entità  che hanno relazioni così difficili come preda e predatore possono comunicare tra loro se hanno qualche interesse in comune, in questo caso evitare una caccia senza fine. La gazzella cerca di convincere il lupo che lei non rappresenta la facile preda che lui sta cercando e che quindi perderebbe tempo ed energia nel darle la caccia. Pur essendo sicura di poter sfuggire al lupo anche la gazzella preferirebbe evitare una fuga faticosa e rischiosa: se correndo si rompesse una zampa andrebbe infatti incontro a morte certa. Ma per convincere il lupo a non darle la caccia deve spendere tempo ed energie preziose, che le sarebbero assolutamente necessarie se il lupo non intendesse il segnale e decidesse in ogni caso di tentarne la cattura. Lo scontro tra la gazzella e il lupo esemplifica assai bene l'idea di committment, ovvero la tesi fondamentale di Schelling: per poter funzionare, i segnali devono essere attendibili, e per essere attendibili devono essere costosi.       
Gestire il conflitto    
Credo di aver presentato una panoramica significativa, anche se sicuramente non esaustiva, di come un approccio centrato sul conflitto possa risultare in diversi ambiti uno strumento utile e interessante. Innanzitutto gli sviluppi delle neuroscienze, e specificamente le ricerche sui neuroni specchio, sembrano sostenere l'ipotesi che la relazione sia costitutiva del pensiero e dell'essere umano.  Poi, presentando i lavori di Thomas Kuhn e Douglass North, ho messo in luce come l'evoluzione delle teorie scientifiche e il cambiamento economico-istituzionale possano essere spiegati in senso conflittuale, come originati da una tensione di fondo (tra innovazione e tradizione in un caso, tra regole e attori nell'altro). Infine, sulla scorta di Thomas Schelling, ho presentato il committment  come una delle strategie che consentono di comporre il conflitto.
A questo punto credo doveroso affrontare direttamente il tema del conflict management, cercando essenzialmente di far luce su un quesito: come si affronta un conflitto? Utile per chiarire questo aspetto risulta il testo di Franco Fornari 'Psicoanalisi della guerra'. Per lo studioso piacentino la guerra originerebbe dalla proiezione all'esterno di un pericolo interno, e dalla negazione e alienazione della morte in un'entità  esterna persecutrice, che occorre distruggere per poter sopravvivere, sentendo la vita nella sua dimensione originaria. Insomma, si attribuirebbero al nemico tutte le colpe di tutti i 'mali', anche di quelli di cui evidentemente non è responsabile, anche di quelli di cui i responsabili siamo noi. Abitare il conflitto, saperlo gestire costruttivamente, significa innanzitutto riconoscere questo processo rischioso ed evitarlo: al contrario della guerra, infatti, il conflitto esige la piena coscienza e la piena responsabilità  da entrambe le parti in causa, pena la sua degenerazione. Per cogliere le opportunità  che la situazione conflittuale schiude, dobbiamo quindi 'metterci nei panni dell'altro', cercando di vederci come ci potrebbe vedere l'altro, e di guardarlo allentando i vincoli posti dalla nostra individualità . Solo così, facendo un passo indietro rispetto a noi stessi, possiamo farne uno avanti nella relazione; inoltre segnalando con sufficiente chiarezza la nostra intenzione, possiamo difenderci da comportamenti non cooperativi.
Le indicazioni che derivano da questa analisi non sono esaustive, ma possono suggerire modi che rendano più accessibile l'elaborazione del conflitto e la sua gestione. Alcune di queste modalità  sono:
  • Individuare l'esistenza nel campo relazionale di un interesse comune. Le parti possono così ancorare la relazione a questo interesse, evitando di radicalizzare il conflitto concentrandosi sulle rispettive identità .
  • Accentuare la disponibilità  e l'impegno a investire in segnali efficaci, i quali per essere tali, devono essere attendibili, quindi costosi.
  • Evidenziare il riconoscimento dell'esistenza di una relazione logica tra il segnale e il messaggio che il segnale trasmette, ma anche del fatto che qualunque segnale genera risultati solo in parte determinabili, in un mondo in cui l'incertezza è una proprietà  costitutiva.
  • Focalizzare l'attenzione sul punto di vista dell'altro mentre si ascolta il bisogno di dare senso al proprio punto di vista.
In queste forme possono risiedere alcune delle possibili vie di elaborazione efficace del conflitto; così 'L'altro può essere riconosciuto come ciò che di fatto è: la fonte delle nostre stesse possibilità , mentre è anche per noi un vincolo'6. Gestire il conflitto diventa così un'operazione consapevole e complessa di conoscenza. 
 
'E' sono molte cose che discosto paiano terribile, insopportabile, strane, e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabile, dimestiche; e però si dice che sono maggiori li spaventi ch'e mali: e questa è una di quelle'7 

 

Bibliografia

  • Alain Berthoz: La scienza della decisione; 2004; Codice Edizioni.
  • Alberto F. de Toni, Luca Comello: Prede o ragni, uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità ; 2006; Utet libreria.
  • Franco Fornari: Psicoanalisi della guerra; 1966; Feltrinelli.
  • Thomas Kuhn: La tensione essenziale e altri saggi; 2006; Piccola Biblioteca Einaudi.
  • Paolo Legrenzi, Manuele Arielli: Psicologia e management; 2005; Sole 24 Ore
  • Ugo Morelli: Conflitto; 2006; Meltemi.
  • Douglass C. North: Understanding the process of economic change; 2005; Princeton University Press.
  • Giacomo Rizzolatti, Corrado Sinigaglia: So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio; 2006; Cortina.
  • Thomas C. Schelling: The strategy of conflict; 1960; Harvard University Press. 
  • 1Thomas Kuhn: La tensione essenziale (p. 82)
  • 2 Thomas Kuhn: La tensione essenziale (p. 90)
  • 3 Thomas Kuhn: La tensione essenziale (p. 93)
  • 4 Thomas Kuhn: La tensione essenziale (94)
  • 5Douglass C. North: Understanding the process of economic change (p. IX)
  • 6 Ugo Morelli: Il conflitto
  • 7 Niccolò Machiavelli: La Mandragola (atto III, scena XI)