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Conflict Management di Armando Avallone (fonte ) |
Il
Corriere della Sera di sabato quattro febbraio 2006 ha pubblicato
la notizia del raggiungimento di un accordo tra lo Stato italiano
e il Metropolitan Museum di New York. Quest'ultimo restituirà
all'Italia sia il grande cratere di Eufonio, capolavoro del VI secolo
a. C., sia i quindici argenti ellenistici di Morgantina. Entrambi
provengono dal traffico archeologico clandestino, ma il ministero
per i beni e le attività culturali si è impegnato
a riconoscere 'la buona fede degli acquisti' da parte del museo
statunitense. In cambio l'Italia intensificherà i prestiti
a lungo termine (da sei a dodici anni) di altri pezzi archeologici.
Inclusi, in un futuro non vicino, proprio i beni restituiti. La
firma dell'intesa è avvenuta il quattordici e il quindici
febbraio a Roma tra il ministro Rocco Buttiglione e Philippe De
Montebello, direttore del Metropolitan. A far decidere per la nuova
linea sarebbero state alcune prove inoppugnabili sulla provenienza
non lecita dei pezzi, offerte dai carabinieri del nucleo storico-artistico:
'prove convincenti' per il portavoce del Met, Harold Hozer. A far
propendere per la restituzione avrebbe tuttavia pesato una minaccia
più grave: l'esclusione dalla politica italiana dei prestiti.
Addio mostre di grande richiamo sul pubblico internazionale; addio
trasferte verso New York di tele rinascimentali. Una prospettiva
economicamente, e culturalmente, inaccettabile per il Metropolitan.
Il
caso descritto dal Corriere può essere considerato un esempio
di conflitto concluso positivamente. Ma quali mosse hanno reso possibile
questo esito, quali elementi ne hanno agevolato il successo? Innanzitutto
la definizione di un terreno comune. Le prove sulla provenienza
illecita dei pezzi prodotte dai carabinieri sono state considerate
valide dalla dirigenza del Met, cui è stata riconosciuta
dalla controparte la 'buona fede negli acquisti'. E' stato così
possibile ancorare la negoziazione a un dato cui si attribuiva la
medesima interpretazione, qualcosa di molto simile a un 'fatto',
a un criterio 'oggettivo': c'è stato un reciproco riconoscimento.
A partire da questa considerazione, la dialettica si è concentrata
sugli interessi: l'Italia ha infatti minacciato di sospendere i
prestiti, il Metropolitan di abbandonare la trattativa. Questi diverse
istanze sono state superate da una soluzione comune, che garantisce
la restituzione delle opere contese e l'intensificazione dei prestiti
oltreoceano, e che è stata sancita il quattordici febbraio
dalla firma di un'intesa. E'
a questo punto possibile individuare alcuni elementi che hanno contribuito
a raggiungere un accordo, a elaborare il contrasto in senso generativo.
Innanzitutto l'individuazione di un terreno comune, ovvero l'attivazione
di un codice di reciproca comprensione. Successivamente l'aver ridotto
il conflitto a quello tra interessi, conflitto tipico nella nostra
società , ha reso possibile l'invenzione di una soluzione
innovativa e vantaggiosa per ambo le parti, scartando così
a priori fattori potenzialmente distruttivi. Infine l'utilizzo di
un istituto, riconducibile al contratto, che ha consentito di sancire
l'accordo rendendolo valido (appunto l'intesa firmata il quattordici
febbraio).
Mi
sembra questo un esempio interessante di come il conflitto, che
solitamente viene considerato un problema, o un costo, possa invece
istituire nuove opportunità , fornire lo spazio per soluzioni
creative. Certo deve essere gestito e contestualizzato in modo da
disinnescarne il potenziale distruttivo. Ma, se questa operazione
riesce, alle parti in causa (siano esse individui, organizzazioni,
istituzioni etc.) si schiude la possibilità di superare
reciprocamente i propri limiti e i propri orizzonti, giungendo a
una soluzione efficace e innovativa. Che ovviamente costituirà
la base di un nuovo conflitto (infatti si è aperto un nuovo
contenzioso, questa volta con il Getty Museum di Los Angeles, che
riguarderebbe circa trecento pezzi di dubbia provenienza).
Zoom
Il
tema del conflitto ha una storia controversa: pur essendo stato
affrontato in diversi ambiti, molto raramente è stato oggetto
di uno studio complessivo e organico. Una significativa eccezione
è rappresentata da 'Il conflitto. Interessi, culture, identità ',
ultimo libro di Ugo Morelli, edito da Meltemi nel 2006. Fondamento
di questa analisi è l'ipotesi che il conflitto sia una proprietà
costitutiva di ogni relazione e di ogni processo di conoscenza.
Lo stesso modo di porsi di fronte a un altro, mentre lascia emergere
le opportunità di apprendimento e relazione, è peculiarmente
conflittuale. Il conflitto è perciò un incontro i
cui esiti potranno essere generativi o degenerativi, conducendo
a una situazione antagonistica o cooperativa, a seconda del modo
in cui viene gestito, delle forme e delle strutture che ne consentono
l'elaborazione. Proprio all'individuazione e all'analisi di queste
forme e di queste strutture è dedicata la parte centrale
del libro, che percorrendo le categorie di ambiguità , mancanza,
margine e invidia delinea un approccio globale alle problematiche
del conflitto e, nella parte conclusiva del testo, alla sua gestione.
Ma
cosa significa gestire il conflitto, e perchè potrebbe diventare
un elemento centrale e costitutivo delle discipline e delle prassi
manageriali? Abbiamo a lungo ritenuto che apprendere per prove ed
errori sia il nostro unico modo di agire e di conoscere. In base
a questa visione prevalente il rapporto con gli altri ha assunto
un carattere lineare o antagonistico. La stessa visione scientifica
classica, fondata sulla meccanica razionale, ha legittimato a lungo
questo orientamento, che è stato adottato anche nel campo
degli studi psicologici. Se si osserva a distanza un mondo privo
di incertezza, o dove al massimo questa rappresenta un disturbo,
il concetto di conflitto è spurio, inutile. Ma forse l'apprendimento
per prova ed errore non è più sufficiente per affrontare
la complessità del presente, che impone di trattare le relazioni
e il mondo in un modo non esclusivamente lineare e deterministico.
I più recenti sviluppi in diversi campi scientifici, dalla
biologia alle neuroscienze, dalla psicologia all'economia, testimoniano
questo mutamento di prospettiva, che comincia ad essere considerato
anche dalle discipline manageriali (cito ad esempio il recentissimo
libro di Alberto de Toni e Luca Comello 'Prede o ragni. Uomini e
organizzazioni nella ragnatela della complessità '). Ancora
molta strada rimane da percorrere in questa direzione, ma alcune
importanti scoperte indicano che la via tracciata potrebbe essere
fertile e proficua. Per questo la tematica della gestione dei conflitti
non può essere ignorata da chi studia e anima l'attività
delle organizzazioni: queste ultime infatti, in un mondo dove l'incertezza
è un elemento costitutivo, non possono limitarsi alle relazioni
lineari e determinabili (che per altro sono assai poche), ma devono
affrontare il compito più impegnativo e sfidante di pensare
il futuro. Gestione del conflitto e immaginazione e invenzione del
presente e del futuro sono strettamente connessi. Si tratta di predisporre
le condizioni educative e culturali per lo sviluppo delle capacità
di immaginazione e invenzione dell'inedito. Queste passano in buona
misura per la messa a punto di una scienza e di una prassi di gestione
evolutiva dei conflitti.
Conflitto
e neuroscienze: i neuroni specchio
Fino
a tempi recenti gli economisti hanno trattato il cervello umano
come una 'scatola nera' e suggerito equazioni matematiche che ne
semplificassero il funzionamento. Questo approccio ha portato indubbiamente
enormi successi, ma forse non è l'unico percorribile. Recentemente
infatti discipline come le neuroscienze e la psicologia delle decisioni
hanno fatto passi importanti nel tentativo di comprendere le basi
neurobiologiche e cognitive del comportamento umano, come testimonia
l'interessante testo di Alain Berthoz 'La scienza delle decisioni'.
Indubbiamente si tratta solo di primi passi, e un approccio assiomatico
e deduttivo al problema della scelta resta fondamentale, ma quest'approccio
può e deve essere integrato tenendo conto delle ipotesi proposte
dagli scienziati sperimentali.
Una
di queste è la scoperta dei cosiddetti 'neuroni specchio',
raccontata da Giacomo Rizzolatti, neuroscienziato di Parma, nel
libro 'So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio'
(Cortina, 2006). Ha evidenziato come dalle 'pieghe stesse della
scienza' debba emergere una risposta filosofica, che nel citato
volume è affidata a Corrado Sinigaglia.
La
ricerca prende le mosse dando una nuova valorizzazione al sistema
motorio, superando l'idea che le aree motorie della corteccia cerebrale
siano destinate ai soli compiti esecutivi. I ricercatori di Parma
hanno dimostrato come il sistema motorio sia connesso in modo stretto
e complesso con le aree visive, uditive e tattili e come i neuroni,
attivandosi in relazione ad atti motori, rispondano selettivamente
quando si osserva o si interagisce con gli oggetti. A livello corticale
quindi, il sistema motorio compie atti complessi e non semplici
movimenti (le braccia si muovono in modo coordinato per afferrare
e consultare un libro, per stringere la mano di un conoscente, etc.).
Sono atti consapevoli: la dinamica dell'azione struttura processi
percettivi e cognitivi, e il cervello agisce e comprende anche grazie
all'attivazione dei neuroni specchio. In tal modo essi, correlati
alle competenze e al patrimonio motorio, consentono al cervello
stesso di riconoscere e capire, coordinandolo al proprio, il comportamento
altrui senza dover ricorrere al ragionamento. Il sistema dei neuroni
specchio potrebbe costituire quindi la struttura portante di forme
di imitazione, di apprendimento, di comunicazione e agevola la possibilità
di cogliere le reazioni emotive degli altri, di 'mettersi nei loro
panni', di immedesimarci nel prossimo: 'la percezione del dolore
o del disgusto altrui attivano le stesse aree della corteccia
cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare disgusto
o dolore'. Questo nuovo approccio al problema dell'intersoggettività
viene confermato dalla recente affermazione del paradigma della
cosiddetta 'embodied cognition', proposto da Gallese e Lakoff, che
esaltano il ruolo del sistema sensomotorio nella formazione del
pensiero concettuale.
I
neuroni specchio, quindi, potrebbero essere considerati i 'neuroni
dell'empatia', in quanto consentono di percepire ed elaborare le
intenzioni e le sensazioni degli altri. Dato l'evidente carattere
interdisciplinare di tale scoperta, si può ipotizzare come
essa decifri la relazione conflittuale, facendo una luce parziale
sulla dinamica biologica sottostante. Le azioni e le emozioni altrui,
condivisibili o disprezzabili, diventano immediatamente percepite,
innescando l'interazione. E non si può pensare che ci sia
interazione senza conflitto.
Sicuramente
aver riconosciuto la centralità di questo processo neurofisiologico
non esaurisce la spiegazione dei processi alla base dell'intersoggettività ,
ma l'aver individuato un elemento fondativo nella traduzione delle
intenzioni altrui può essere fertile, se si rinuncia alla
deterministica pretesa di spiegare univocamente l'interazione e
il conflitto, e se, di contro, si tende a integrare questa ricerca
nella comprensione dei rapporti storico-sociali, delle strutture
economiche e istituzionali, delle tendenze politiche e culturali,
dei processi psicologici e cognitivi. In questo modo sarà
possibile esplorare la dimensione conflittuale della mente relazionale,
sviluppando il rapporto tra neuroscienze, psicologia e management,
nell'ottica di proporre una visione più ampia ed integrata
dei processi cognitivi e decisionali (in questa direzione ad esempio
muove il libro 'Psicologia e Management', di Paolo Legrenzi e Manuele
Arielli).
Conflitto
e pensiero scientifico
Il
nome di Thomas Kuhn, fisico, storico e filosofo della scienza statunitense,
è indissolubilmente legato all'opera 'La struttura delle
rivoluzioni scientifiche' (1962, tr. it. 1969), dove sostiene
che il «progresso» scientifico non ha uno sviluppo di carattere
cumulativo, dato che al suo interno si possono incontrare sistemi
concettuali tra loro «incommensurabili». Le rivoluzioni scientifiche,
che scandiscono le diverse fasi della storia della scienza, non
devono essere concepite come confutazioni di singole ipotesi prima
accreditate, ma come cambiamenti complessivi degli impegni teorici
di una comunità scientifica, definiti paradigmi.
Queste
idee sono ribadite e ulteriormente perfezionate nei saggi compresi
ne 'La tensione essenziale e altri saggi'; 2006; Piccola Biblioteca
Einaudi, dove Kuhn giunge a individuare nel lavoro dello scienziato
e nell'evoluzione della scienza un processo di natura conflittuale:
'solo indagini fortemente radicate nella tradizione scientifica
contemporanea hanno probabilità di rompere questa tradizione
e dare origine a una nuova'1. Ecco
quindi la 'tensione essenziale' implicita nella ricerca scientifica,
che deve essere abitata e gestita per poter essere risolta in senso
generativo.
Kuhn
distingue due modalità di crescita della conoscenza: una
sostanzialmente cumulativo, in cui si aggiungono nuovi edifici alla
'città ' della scienza, e una non cumulativo in cui interi
quartieri possono venir rasi al suolo per essere ricostruiti da
cima a fondo. Solo in quest'ultimo caso si può parlare di
mutamento rivoluzionario: nel primo, invece, si avrebbe a che fare
con la cosiddetta 'scienza normale'. Nei periodi di scienza normale
le ricerche avvengono sotto la guida di una teoria particolarmente
forte (il paradigma) che individua problemi e metodi di soluzioni.
In questa fase gli scienziati non tentano di scardinare le teorie
accettate, ma lavorano a risolvere i problemi e le difficoltà
emergenti nella ricerca, operando comunque con la convinzione che
la soluzione sia reperibile all'interno del paradigma stesso. Nelle
condizioni normali 'lo scienziato ricercatore non è un innovatore,
ma un risolutore di rompicapi, e i rompicapi sui quali si concentra
sono proprio quelli che egli pensa possano essere sia impostati
che risolti nell'ambito della tradizione scientifica esistente'2. In seguito alla scoperta di anomalie particolarmente
gravi possono però sorgere delle crisi che si risolvono con
un mutamento rivoluzionario. Ma per essere anomalie esse devono
trovarsi in esplicito e inequivocabile contrasto con qualche elemento
strutturalmente centrale del pensiero scientifico corrente. Perciò
il loro riconoscimento e la loro valutazione dipendono da uno stabile
collegamento con la tradizione scientifica contemporanea. Il passaggio
da una teoria all'altra comporta tanti e tali mutamenti nelle concezioni
del mondo, nelle abitudini linguistiche, negli atteggiamenti psicologici
degli scienziati, da rendere inevitabile il fallimento di ogni tentativo
di comprendere questi sconvolgimenti entro un modello di razionalità
scientifica che si occupi esclusivamente dei nessi logico-causali
e di procedure sperimentali. Sembra invece più interessante,
utile e fertile affrontare il problema della transizione tra paradigmi,
quindi dell'evoluzione della scienza, nell'ottica del conflitto.
Questa è la conclusione cui giunge l'autore ne 'la tensione
essenziale'; egli non ha dubbi sul fatto che lo scienziato debba
essere, almeno potenzialmente, un innovatore, che egli debba possedere
flessibilità mentale, e che debba essere preparato a riconoscere
difficoltà dove esistano. Ma, e questa è l'altra
faccia della medaglia, deve essere anche un deciso tradizionalista,
un solutore di rompicapi, un pensatore convergente. Se a questo
punto, come sostiene Kuhn, 'dobbiamo cercare di capire come questi
due modi, superficialmente discordanti, di risolvere problemi possono
essere riconciliati nell'ambito dell'individuo o nel gruppo'3 è proprio la logica del conflitto a fornire
gli strumenti necessari a superare quest'apparente dicotomia. In
quest'ottica infatti lo scienziato deve essere contemporaneamente
tradizionalista e iconoclasta, percorrendo entrambi gli approcci,
in modo da valorizzare nell'oggetto della sua ricerca opportunità
sempre nuove e interessanti, che emergono soltanto facendosi carico
della 'tensione essenziale', gestendola in senso generativo, trasformandola
in una fonte di possibilità per il raggiungimento di traguardi,
sicuramente parziali, ma non per questo meno importanti o meno concreti.
'Lo scienziato produttivo, per essere un innovatore di successo
che scopre nuove regole e nuovi elementi con i quali giocare, deve
essere un tradizionalista cui piace giocare complicati giochi secondo
regole prestabilite'4. Credo
che a questo punto siano evidenti le implicazioni che una visione
di questo tipo comporta in ambito gestionale e organizzativo. L'azione
del manager, infatti, come quella dello scienziato Kuhniano, si
situa sempre tra continuità e cambiamento, tradizione e
innovazione. Solo una conoscenza approfondita della realtà
su cui si opera può consentire di pensare e attivare quei
processi innovativi che rendono un'organizzazione in grado di adattarsi
all'ambiente e di essere efficiente e competitiva. In questa prospettiva
la gestione del conflitto, della 'tensione essenziale', diventa
decisiva.
Conflitto
e cambiamento
L'economia
è una disciplina che sta attraversando una fase peculiare
del suo sviluppo, contraddistinta da una rinnovata attenzione ad
ambiti che nell'ultimo secolo sono stati considerati strettamente
non economici. Uno di questi è rappresentato dal tema dell'emergere
delle istituzioni e dell'evoluzione delle norme sociali. 'Understanding
the Process of Economic Change', il più recente libro di
Douglass C. North, è un suggerimento a fare altri passi in
questa direzione. North non è un economista, ma uno storico
dell'economia, che ha riscosso tanto successo tra gli economisti
da meritare il premio Nobel nel 1993, per le sue ricerche sul legame
tra istituzioni e crescita di lungo periodo. In questo lavoro egli
arricchisce l'analisi svolta in precedenza sul ruolo delle istituzioni
con concetti tipici delle scienze cognitive e delle neuroscienze.
Si trova quindi a discutere della natura dell'incertezza, dell'importanza
dell'apprendimento adattivo per il cambiamento, di come lo studio
del funzionamento della mente può cambiare il modo di intendere
le istituzioni economiche e sociali. Il punto di partenza è
l'idea di Herbert Simon che la mente umana ragioni e calcoli in
modo necessariamente parziale e incompleto. Per questo, sostiene
North, gli uomini inventano le istituzioni: per ridurre l'incertezza,
che altrimenti renderebbe vano ogni tentativo degli individui di
concretizzare le loro capacità . Oppure, come già
sostenuto da von Hayek, per risolvere il problema di coordinamento
implicito nella necessità di mettere insieme le decisioni
di milioni di persone che agiscono simultaneamente e indipendentemente,
sulla base di opinioni in merito a ciò che stanno facendo
tutti gli altri partecipanti al gioco sociale. Ma proprio il fatto
che le azioni individuali si basino su opinioni spesso errate implica
che l'incertezza sociale non si possa davvero eliminare. Il fatto
stesso che gli esseri umani nel loro agire sociale abbiano l'obiettivo
di introdurre cambiamenti rende, infatti, l'ambiente sempre mutevole.
In pratica, dunque, le società si evolvono commettendo errori
e imparando adattivamente dagli errori commessi in precedenza.
Per
questo il processo del cambiamento economico deve considerarsi strutturalmente
conflittuale. Le istituzioni sono limiti che l'uomo pone all'interazione.
Questi limiti, fornendo incentivi che influenzano l'azione di individui
e organizzazioni, definiscono le opportunità di un'economia.
Le opportunità influenzano le caratteristiche delle organizzazioni
che emergeranno e avranno successo, ma allo stesso tempo l'attività
di queste organizzazioni, radicata in un contesto competitivo, indurrà
un cambiamento istituzionale. La percezione di nuove e diverse opportunità ,
possibile solo all'interno di un modello istituzionale definito,
produrrà dinamiche che altereranno il contesto stesso, schiudendo
così nuove opportunità , e così via.
'Il
margine tra intenzioni e risultati riflette la persistente tensione
tra le costruzioni che gli uomini erigono per comprendere il loro
ambiente e la sempre mutevole 'realtà ' di questo ambiente'5, e proprio da questa ineliminabile tensione emerge il
processo del cambiamento economico. Ancora una volta il conflitto
emerge come caratteristica del processo evolutivo dei fatti economici.
Conflitto
e strategia
"The
Strategy of Conflict" è l'opera più conosciuta
di Thomas Schelling, economista atipico, pioniere della teoria dei
giochi e premio Nobel del 2005. Il libro è diventato un classico
delle scienze sociali poichè ha introdotto elementi critici
del pensiero economico in diverse discipline, quali le scienze politiche,
la sociologia, le relazioni internazionali. Unendo diversi saggi,
Schelling ha contribuito a stabilire un campo interdisciplinare,
che è stato poi variamente definito come "teoria della
negoziazione", "teoria del conflitto" o "teoria
della strategia". Egli ha inoltre mostrato come alcune teorie
elementari, applicate all'economia, alla sociologia, alle scienze
politiche, persino alla giurisprudenza, alla filosofia e forse all'antropologia,
sono applicabili a problemi di natura pratica.
L'ipotesi
da cui muove la sua analisi è che, quando più persone
devono affrontare insieme un problema, questa situazione contenga
sia interessi comuni che interessi divergenti, e che possa essere
analizzata con gli strumenti forniti dalla teoria dei giochi non
cooperativi. La negoziazione, infatti, contiene un elemento conflittuale:
le parti si trovano spesso a bilanciare l'interesse a ottenere il
miglior risultato possibile, e l'interesse a concludere la trattativa
stessa (nell'ipotesi in cui a nessuna delle due parti convenga strettamente
rinunciare al gioco). L'idea rivoluzionaria di Schelling è
che può essere conveniente limitare le proprie opzioni per
ottenere concessioni dall'altra parte in causa. Credo che un esempio
tratto dal comportamento animale, utilizzato da Ugo Morelli, possa
contribuire a chiarire questo aspetto. Pensiamo a una gazzella,
che si riposa o pascola nel deserto, praticamente invisibile. Appare
un lupo; ci si aspetterebbe che la gazzella si fermi immobile, facendo
il possibile per non essere vista. E invece no: si alza e colpisce
rumorosamente il suolo con le zampe anteriori, tutto ciò
guardando il lupo. Questi si avvicina; ci si aspetterebbe che la
gazzella scappi il più velocemente possibile. Ebbene no:
quasi sempre si mette a saltare sulle quattro zampe, parecchie volte,
e solo dopo inizia a correre. Perche la gazzella si rivela così
a un predatore che magari non l'avrebbe neppure vista? Perchè
spreca tempo ed energia con quei saltelli invece di dileguarsi il
più rapidamente possibile? La gazzella sta segnalando al
predatore che l'ha visto: 'perdendo tempo' e saltando dimostra in
modo inequivocabile di essere in grado di sfuggire al lupo. Il lupo,
dal canto suo, accorgendosi di aver perso l'occasione di sorprendere
la preda e avendo capito che quella gazzella è al meglio
delle sue condizioni fisiche, può decidere di cambiare zona,
oppure di dirigere la sua attenzione verso prede più facili.
Anche entità che hanno relazioni così difficili come
preda e predatore possono comunicare tra loro se hanno qualche interesse
in comune, in questo caso evitare una caccia senza fine. La gazzella
cerca di convincere il lupo che lei non rappresenta la facile preda
che lui sta cercando e che quindi perderebbe tempo ed energia nel
darle la caccia. Pur essendo sicura di poter sfuggire al lupo anche
la gazzella preferirebbe evitare una fuga faticosa e rischiosa:
se correndo si rompesse una zampa andrebbe infatti incontro a morte
certa. Ma per convincere il lupo a non darle la caccia deve spendere
tempo ed energie preziose, che le sarebbero assolutamente necessarie
se il lupo non intendesse il segnale e decidesse in ogni caso di
tentarne la cattura. Lo scontro tra la gazzella e il lupo esemplifica
assai bene l'idea di committment, ovvero la tesi fondamentale
di Schelling: per poter funzionare, i segnali devono essere attendibili,
e per essere attendibili devono essere costosi.
Gestire
il conflitto
Credo
di aver presentato una panoramica significativa, anche se sicuramente
non esaustiva, di come un approccio centrato sul conflitto possa
risultare in diversi ambiti uno strumento utile e interessante.
Innanzitutto gli sviluppi delle neuroscienze, e specificamente le
ricerche sui neuroni specchio, sembrano sostenere l'ipotesi che
la relazione sia costitutiva del pensiero e dell'essere umano.
Poi, presentando i lavori di Thomas Kuhn e Douglass North, ho messo
in luce come l'evoluzione delle teorie scientifiche e il cambiamento
economico-istituzionale possano essere spiegati in senso conflittuale,
come originati da una tensione di fondo (tra innovazione e tradizione
in un caso, tra regole e attori nell'altro). Infine, sulla scorta
di Thomas Schelling, ho presentato il committment
come una delle strategie che consentono di comporre il conflitto.
A
questo punto credo doveroso affrontare direttamente il tema del
conflict management, cercando essenzialmente di far luce su un quesito:
come si affronta un conflitto? Utile per chiarire questo aspetto
risulta il testo di Franco Fornari 'Psicoanalisi della guerra'.
Per lo studioso piacentino la guerra originerebbe dalla proiezione
all'esterno di un pericolo interno, e dalla negazione e alienazione
della morte in un'entità esterna persecutrice, che occorre
distruggere per poter sopravvivere, sentendo la vita nella sua dimensione
originaria. Insomma, si attribuirebbero al nemico tutte le colpe
di tutti i 'mali', anche di quelli di cui evidentemente non è
responsabile, anche di quelli di cui i responsabili siamo noi. Abitare
il conflitto, saperlo gestire costruttivamente, significa innanzitutto
riconoscere questo processo rischioso ed evitarlo: al contrario
della guerra, infatti, il conflitto esige la piena coscienza e la
piena responsabilità da entrambe le parti in causa, pena
la sua degenerazione. Per cogliere le opportunità che la
situazione conflittuale schiude, dobbiamo quindi 'metterci nei panni
dell'altro', cercando di vederci come ci potrebbe vedere l'altro,
e di guardarlo allentando i vincoli posti dalla nostra individualità .
Solo così, facendo un passo indietro rispetto a noi stessi,
possiamo farne uno avanti nella relazione; inoltre segnalando con
sufficiente chiarezza la nostra intenzione, possiamo difenderci
da comportamenti non cooperativi.
Le
indicazioni che derivano da questa analisi non sono esaustive, ma
possono suggerire modi che rendano più accessibile l'elaborazione
del conflitto e la sua gestione. Alcune di queste modalità
sono:
In
queste forme possono risiedere alcune delle possibili vie di elaborazione
efficace del conflitto; così 'L'altro può essere riconosciuto
come ciò che di fatto è: la fonte delle nostre stesse
possibilità , mentre è anche per noi un vincolo'6. Gestire il conflitto diventa così un'operazione
consapevole e complessa di conoscenza.
'E'
sono molte cose che discosto paiano terribile, insopportabile, strane,
e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabile, dimestiche;
e però si dice che sono maggiori li spaventi ch'e mali: e
questa è una di quelle'7.
Bibliografia
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