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LA RETE E L’AFFRESCO
Seminario di sensibilizzazione alle relazioni di grande gruppo / 1° Laboratorio di Grande Gruppo

Riflessioni di Margherita Sberna / Novembre 2005

Il grande gruppo come setting in campo formativo, non rappresenta allo stato attuale la strategia più funzionale all’apprendimento. Il suo utilizzo, come già detto altrove da  G.Contessa, ha le sue radici fra l’altro in una recente consuetudine che deriva a sua volta dalla scarsità di risorse economiche disponibili in quest’area. Come spesso accade, le difficoltà concrete costringono ad “aguzzare l’ingegno” riflettendo su temi  dati per scontati, su teorie radicate e diventate quasi assolute, su prassi consolidate dall’abitudine e dalla routine.

D’altra parte, le ragioni che hanno portato a fondare ARIPS, ormai quasi trent’anni fa, sono proprio quelle di evitare la stasi e lo stallo intellettuali, mettendo costantemente a confronto teorie e pratiche per contribuire allo sviluppo del settore della formazione. Così da un po’ di tempo ci interessa  verificare se si possono rendere congruenti le esigenze economiche con gli obiettivi di apprendimento utilizzando un contesto diverso dal piccolo gruppo. Come si possono riprodurre in grande gruppo –anche in maniera analogica  purchè  efficace- le dinamiche che fanno del piccolo gruppo l’ambiente più adatto a stimolare la motivazione  alla crescita e all’evoluzione.

E’ stato dunque con grande curiosità che ho partecipato al primo concreto laboratorio di grande gruppo realizzato da ARIPS.  Qui mi limiterò ad alcune riflessioni su ciò che più mi ha colpito, rimandando per quanto riguarda le caratteristiche operative del seminario ad altre letture.

1-      Livello emotivo

Il nostro LAB (laboratorio) è stato avviato con un’attività di grande impatto emotivo, perché rimanere bendati per 45 minuti, senza sapere chi si ha come vicino, senza nessun intervento verbale da parte del conduttore che dia qualche riferimento sul da farsi, rappresenta un’esperienza forte ed inusuale.

Eppure gli interventi dei partecipanti successivi al periodo di cecità e solitudine non hanno espresso il vissuto dell’esperienza ed hanno invece teso a cancellarla, o comunque a considerarla un episodio trascurabile dopo il quale occorreva mettersi al lavoro concretamente.

In grande gruppo per il partecipante è più difficile esprimere le proprie sensazioni ed emozioni: per un individuo che si trova  fra molte persone poco conosciute o poco frequentate  occorre vincere il sentimento di pudore, la riservatezza, che riguardano gli aspetti più intimi della propria vita.  L’omeostasi caratteristica del grande gruppo e la tensione al conformismo propria dell’individuo impediscono comportamenti spontanei  in risposta immediata agli eventi che si creano. Probabilmente solo la paura sfugge a questa norma: se qualcuno urla  “c’è una bomba” o se scoppia un incendio, anche i partecipanti  più compassati si danno alla fuga urlando di spavento  e solo dopo riflettono su quanto è accaduto e razionalizzano il loro comportamento.  Forse perché è un evento collegato alla sopravvivenza fisica. Qualsiasi altra situazione è sopportabile anche a costo di grandi sacrifici. Nel piccolo gruppo, dove il contenuto numero di partecipanti rende l’operazione più accessibile, è comunque necessario “sbilanciare” la persona, forzarle la mano, sorprenderla, per facilitare una comunicazione completa cioè in cui siano espressi un contenuto ed un sentimento con esso congruente. Col  costituirsi del gruppo vero e proprio e col moltiplicarsi delle relazioni interpersonali significative, questo tipo di comunicazione si fa più spontaneo e più frequente, pur con alti e bassi che  caratterizzano costantemente il processo. Nel grande gruppo, anche  nei momenti ricchi di emotività,  manca l’esplicitazione a livello individuale.  I sentimenti vengono espressi solo se sono condivisi ed in modo unanime e contemporaneo: se la squadra del cuore fa goal,  dallo stadio si leva un boato. Dunque il comportamento dei partecipanti rientra nella normalità. Se non fosse che il clima culturale circostante segnala un cambiamento in atto.

Nel contesto attuale in cui dominano da un lato i reality dove i protagonisti noti e meno noti “esternano le loro emozioni” senza soluzione di continuità, e dall’altro persino i politici –di norma impenetrabili - si lasciano prendere dall’ira e dall’isteria, il problema di chi sta a guardare sembra essersi capovolto sostituendo all’equilibrio e alla compostezza, l’apertura e la condivisione con estranei della propria intimità. Si tratta di una nuova forma di narcisismo, oppure tutto questo è connesso all’espressione della propria identità che emerge solo davanti ad un pubblico di “guardoni” che non possono interagire. Come se in realtà fosse il contatto, la relazione possibile, che impensieriscono e impediscono ogni comunicazione significativa.

Difese e resistenze sono variabili che spiegano la situazione.  Se l’ipotesi della difficoltà di contatto è plausibile, ciò che ha impedito l’espressione di emotività è stata la concreta possibilità di avere degli scambi che potevano scalfire, stimolare una riflessione, suggerire un cambiamento. Da questo punto di vista la familiarità fra i partecipanti, tutti  provenienti dalla stessa organizzazione, ha costituito un ulteriore ostacolo. Se fossero stati tutti effettivamente estranei fra di loro, sarebbe andata nello stesso modo? L’esistenza di una socializzazione precedente fra i partecipanti, è stata un freno anziché un velocizzatore  oppure è comunque il grande gruppo che inibisce l’emotività?

Il controllo delle emozioni è considerato da molti la formula più efficace di autodifesa, ma ha come principale svantaggio che alla lunga nessuna energia  è disponibile neppure per azioni che sono funzionali. Così diventa difficile anche la realizzazione del compito, per quanto limitato possa essere. Del resto sostenere un’idea, una scelta,  una proposta  significa mettere in evidenza sè stessi e il proprio mondo.

Personalmente sono convinta  che la spiegazione  più ragionevole dell’assenza di sentimenti espressi e vissuti in maniera osservabile rimandi ad una socializzazione incompleta o solo apparente, venata di scarsa autostima  e magari di poca fiducia negli altri. Il fatto che l’emotività non si sia resa visibile non significa che essa sia mancata. Nel corso del  LAB ci sono stati dei momenti in cui la tensione era forte, tanto che ci sono stati alcuni interventi, pur rari, fatti con voce  tremante, confusi nel contenuto,  disordinati e scorretti dal punto di vista della sintassi (tutti sintomi della presenza di una forte emozione che si cerca di censurare). Ma  sembravano più sfoghi incontrollati, come se qualcuno fosse arrivato al livello di guardia e dunque gli fosse impossibile trattenersi.

Se consideriamo l’esperienza fatta,  dobbiamo prendere atto  della limitazione dell’espressività da questo punto di vista. E poiché l’aspetto emotivo è essenziale nel processo di apprendimento è cruciale trovare una soluzione, pena l’impossibilità a raggiungere  qualsiasi obiettivo in quest’area.

2-      Organizzazione autonoma

Un secondo evento  inatteso è stata la velocità con cui i partecipanti al LAB si sono suddivisi in sottogruppi di lavoro senza che questo derivasse in alcun modo dal conduttore. Normalmente, anche nei piccoli gruppi, la presa di decisioni e la conseguente operatività si verificano quando il gruppo si è formato ed esiste fra i partecipanti una coesione effettiva anche se non definitiva (essa si può sviluppare e rafforzare ulteriormente nel tempo in rapporto agli eventi che caratterizzano l’esperienza collettiva). Prima di questo evento, si assiste ad un fenomeno di creazione di norme di comportamento implicite, che dunque influenzano la vita del gruppo, ma che non sono frutto di una decisione  condivisa. Accade come nel famoso caso dell’invitato a pranzo che si trova accanto al piatto un numero esagerato di posate e che,  non sapendo quale usare per mangiare l’antipasto, imita gli altri commensali.  Il fenomeno di influenzamento viene generato dalla  insicurezza e dalla difficoltà ad assumersi delle responsabilità di chi agisce più che dalla forza/potere di chi fa la proposta o addirittura dà un ordine.

Questo meccanismo ha agito anche nel grande gruppo, e questo è un primo aspetto inusuale perché le dimensioni dell’organismo consentono facili vie di fuga e di evasione rispetto al comportamento richiesto dato che è comunque difficile esercitare un effettivo ed efficace controllo su tutti i membri.

L’azione è stata supportata dalle seguenti condizioni:

a-      presenza fra i partecipanti di persone con ruoli diversi  gerarchicamente significativi;

b-     esplicitazione del processo decisorio con la necessità, per   chi non fosse stato d’accordo, di evidenziare la propria posizione di dissenso e di investire energie consistenti in un conflitto di esito altamente incerto  (la proposta era ragionevole e apparentemente congruente col compito che il grande gruppo doveva  svolgere);

c-      collusione fra proposta operativa e difese/resistenze rispetto alla situazione emotiva in atto;

d-     assenza di opposizione da parte del conduttore per controllare la solidità del processo decisorio

e-      controdipendenza nei confronti dello staff ritenuto responsabile della difficoltà del compito da svolgere.

Eppure il fenomeno mantiene caratteristiche di eccezionalità per le condizioni in cui si è verificato:

1-     tutti dovevano stare nella stessa stanza – perciò  si disturbavano reciprocamente  ed era obiettivamente difficile ascoltarsi ed interloquire

2-     la composizione dei sottogruppi era ininfluente – ad un certo punto il conduttore del momento ha formato un ulteriore sotto gruppo prendendo un membro da ciascuno di quelli esistenti senza che accadesse niente  né da parte dei sottogruppi né da parte degli individui allontanati

3-     il fenomeno  ha avuto una durata di quasi 3 ore intervallate dalla pausa per il pranzo fra l’altro senza che ci fosse una qualche forma di raccordo fra i vari sottogruppi per controllare lo stato di avanzamento dei lavori 

4-     l’attività  si è conclusa per iniziativa degli stessi partecipanti.

Un comportamento simile ha riguardato anche le pause dal lavoro che avrebbero dovuto essere autogestite  - individualmente, si pensava – e che hanno coinvolto tutti in contemporanea per una durata abituale in seminari di formazione (dai 20 ai 30 minuti).

Sembrava quasi di trovarsi ad un incontro di militari in congedo che assumono automaticamente i comportamenti tipici della loro vita in caserma  perché hanno impressa nel cuore e nella mente  la disciplina e insieme perchè  non conoscono nessun altro mezzo per entrare in rapporto. Ciò non diminuisce l’effetto strabiliante e quasi miracoloso di una tale situazione.  Oppure poteva sembrare una esercitazione della Protezione Civile  o della Croce Rossa  dal titolo  “Tutti al proprio posto di combattimento”!

L’origine di questo comportamento apparentemente autonomo ed autodeterminante potrebbe essere  il grande gruppo che stimola la controdipendenza e che per questo facilita l’ operatività concreta. Possibile che non possa esistere in un tale setting la fase della dipendenza? Che conseguenze può avere sull’apprendimento questa assenza?

3-      Conduttore influente ma transitorio

L’affermazione potrebbe parere in contrasto con la controdipendenza nei confronti dello staff citata in precedenza. In realtà  il fenomeno ne è  un’altra  espressione.

Lo staff non voleva enfatizzare il ruolo del conduttore, per cercare di studiare l’evoluzione del grande gruppo in maniera il più possibile asettica o comunque limitando le variabili derivanti da una particolare  modalità di conduzione. Così si era deciso che i conduttori si sarebbero alternati, secondo un ordine casuale e predefinito che sarebbe stato rispettato a prescindere dai successivi eventi  che si sarebbero potuti verificare. Nonostante questo, la formazione comune, la possibilità di vedere il grande gruppo attraverso un impianto video, la condivisione dell’analisi delle situazioni che si andavano verificando, hanno consentito di mantenere una sorta di “filo rosso”  fra i conduttori che si passavano il testimone,  senza sacrificarne le caratteristiche personali.

Dato il tempo limitato dell’esperienza, ciascun conduttore aveva  un compito ed un obiettivo da raggiungere nel tempo che doveva gestire e da questo punto di vista il grande gruppo si è in genere comportato in modo conforme alle richieste. Ma è mancato un “effetto accumulo” che consentisse non tanto di aumentare il potere del conduttore, ma piuttosto di  rendere efficace il lavoro del grande gruppo  in merito al compito da svolgere.  I partecipanti traducevano le suggestioni contenute negli interventi del conduttore in comportamenti, ma  ad un livello di  pura  apparenza, e di superficialità che non consentiva  l’apprendimento né in termini di contenuti, né di modalità o strategie di azione. Come se preferissero fallire nel compito assegnato piuttosto che avere successo “grazie a”. Questo capita anche nel piccolo gruppo,  che  rimane un meccanismo essenziale  per facilitare e stimolare l’apprendimento. Forse  nel grande gruppo, perché questa opposizione venga superata da un comportamento più funzionale al compito, occorre  più tempo. Nonostante  l’uso di acceleratori vari, il tempo rimane una variabile importante in rapporto ai risultati.

Un altro elemento che merita di essere rivisto è la classica sequenza delle fasi di elaborazione del rapporto con l’autorità. Nel piccolo gruppo si passa dalla dipendenza, alla controdipendenza, all’interdipendenza. La nostra esperienza in merito con il grande gruppo mette al primo posto la controdipendenza: potrebbe essere che la dipendenza sia successiva? Come se in un clima generale di sfiducia, che peraltro caratterizza tutta la nostra società,  sia necessario mettere alla prova chi ha un ruolo di responsabilità per poi potersi fidare di lui. Si tratta di una tesi fragile, dato che si fonda su un unico caso, ma non  parrebbe tanto incredibile! E’ vero che le tante disillusioni accumulate personalmente o di cui si è stati testimoni  frenano ogni entusiasmo  nei confronti di qualsiasi cosa. E’ altrettanto vero che è un po’ persecutorio ritenere che tutti ce l’abbiano con noi.  Parafrasando  E. Fromm, occorre amarsi per essere amati, ma ci si ama se si ha avuto un’esperienza come oggetto d’amore. Dunque la faccenda è piuttosto complessa. Attualmente la nostra vita si svolge in un contesto culturale in cui è più facile darsi da fare per i “ninos de rua” piuttosto  che invitare la vicina a prendere un caffè. Diffidenza e sospetto permeano la nostra vita quotidiana  ed anche l’intimità della famiglia è spesso un sogno che solo raramente e per brevi attimi si concretizza.  Dunque il comportamento osservato nel grande gruppo pare congruente alla mentalità diffusa nella quotidianità.

Il grande gruppo ha caratteristiche proprie, diverse da quelle del piccolo a cui siamo abituati. In esso le relazioni interpersonali sono  effettivamente più difficili e più superficiali, benché apparentemente più numerose. La scala di valori a cui si fa riferimento è fondata sulla preservazione di sé, sulla difesa dall’esterno piuttosto che sulla condivisione e sulla partecipazione soprattutto se queste ultime significano intrusione nei propri spazi di vita. Il leader formale  deve il suo ruolo al suo carisma ed ha funzioni diverse da un conduttore che si propone come strumento per l’apprendimento. Le tecniche di intervento si fondano sulla manipolazione, sull’enfatizzazione degli aspetti positivi, su un’emotività indotta ed esacerbata che un formatore di solito non utilizza. Per le sue caratteristiche il ruolo di un conduttore che ha per obiettivo l’apprendimento, è anche quello di aumentare la consapevolezza del partecipante sulla sua identità e la sua situazione e questo può non essere gradevole. Addirittura può essere percepito come aggressivo, squalificante, demotivante. Perché può spaventare la differenza fra chi si è e chi si vorrebbe essere, così come la quantità di cambiamenti necessari a passare da un punto all’altro.  Più facile lavorare in miniera ed aspirare a diventarne il padrone piuttosto che  arricchire la propria identità tenendo conto dei feed-back. Tanto più se essi derivano dal conduttore.

Per certi aspetti pare una situazione patologica, che dunque richiede un intervento riparatorio prima che propositivo ed attivo. La difficoltà di relazione col conduttore in un grande gruppo è strettamente collegata col  grado di sicurezza e di autostima. Merci rare di questi tempi.

Non credo però che ciò renda necessario un cambiamento radicale delle modalità di gestione del gruppo da parte del conduttore, nonostante le differenze del contesto specifico. La soddisfazione delle sue aspettative rispetto alle interazioni coi partecipanti deve essere differita ulteriormente.  In un setting  vasto, forse ottiene migliori risultati una  presenza più significativa del conduttore attraverso più interventi.  Rispetto alla loro qualità, credo si dovrebbero eliminare soprattutto quelli strutturali (nel LAB i nostri di questo tipo non hanno ottenuto i risultati sperati) mentre dovrebbero essere moltiplicati in particolare gli interventi emotivi, quelli analogici e quelli   riflessivi.

Questo non impedirà che il comportamento del conduttore diventi un modello utilizzabile anche dai partecipanti. In questo caso l’apprendimento sarebbe estremamente significativo inserendo un principio di cambiamento nella percezione della realtà.

4-      La simulazione

Spesso in ARIPS si è parlato di questo argomento, discutendo sul grado di “vicinanza” alla realtà che è più utile all’apprendimento. Il problema non è mai stato risolto in maniera definitiva. Pro e contro si equilibrano, alla fine. Ciò che rende più facile alcune dinamiche, ne ostacola altre. E così via.

In questo LAB, a posteriori, il quesito in merito a questo argomento è più radicale: valeva la pena provare ad applicare le procedure del T-group al posto di qualsiasi tipo di simulazione? Non esiste risposta, dato che l’esperienza è stata impostata diversamente.

La scelta mi pare connessa alla capacità dello staff nel suo complesso e di ogni singolo conduttore, di trasgredire le regole e alle procedure che connotano la metodologia del T-group “classica”, usata nel piccolo gruppo.  In altre parole alla capacità di rischiare e di mettersi in gioco  in assenza di punti di riferimento.

Ciò che la sociologia dice sul grande gruppo è poco utilizzabile nell’area della formazione ed in ogni caso rappresenta   un punto di vista diverso.

Non avere riferimenti precisi significa elevare la percentuale dei possibili errori, mettersi in una situazione di insicurezza, sentire la pressione del gruppo  e quindi  esserne maggiormente influenzati, avere difficoltà  impreviste, fare i conti con la propria autostima. Infine c’è l’aspetto di responsabilità nei confronti dei partecipanti: è la difesa più difficile da superare per noi che riteniamo di avere come primo dovere  non solo quello di non danneggiarli, ma soprattutto quello di consentirgli di raggiungere gli obiettivi  contrattati.

Dunque ci vorrà un po’ di allenamento anche per noi, consapevoli che non siamo onnipotenti , nel bene e nel male.

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