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INDIVIDUO, GRUPPO, GRANDE GRUPPO
Note in margine ad una conduzione di T/Group

di Alberto Raviola (dicembre 2005)

Il T-Group è un’esperienza di apprendimento, non solo per chi vi partecipa, ma anche per chi la conduce. L’esperienza del “gruppo di sensibilizzazione”, focalizzata sul dipanarsi delle relazioni interpersonali nella continua dinamica (contemporanea e simultanea) del gruppo,  rappresenta per i partecipanti un’occasione unica per imparare “di sé e del proprio essere in relazione”. Anche per il conduttore l’esperienza può essere foriera di stimoli per riflettere  sullo stato dei gruppi e dell’individuo, nel loro rappresentare un “frattale” del sociale e del collettivo.
Le considerazioni che presento di seguito, dunque, sono state scritte “a caldo” dopo la conduzione di un T/group, evento formativo conclusivo di un percorso di formazione per “conduttori di gruppo”. Gli oltre 30 partecipanti, appartenenti alla medesima scuola  (tranne alcuni “esterni”), alla terza esperienza autocentrata, suddivisi in tre gruppi, hanno vissuto in parallelo l’esperienza, in un week end di metà novembre.
I gruppi sono stati condotti da trainers e osservatori appartenenti ad ARIPS.

1. Assenza di conflitto: evitamento dell’altro vs. pratiche autorepressive
Il vocabolo conflitto riprende il latino conflictus, derivato dal verbo confligere, composto di ‘cum’ (con) e ‘fligere’ il cui significato è urtare, sbattere contro. Il prefisso ‘cum’ sta ad indicare che l’urto non è unilaterale: conflitto come lotta, combattimento, o contrasto, che coinvolge almeno due parti. Queste possono essere individui ma anche parti interne del singolo sé, tendenze o impulsi intrapsichici che talvolta turbano, in maniera significativa, il comportamento di una persona.
Il conflitto, durante i tre giorni di attività, non si è mai presentato, all’interno del gruppo, in forma esplicita. Di fronte ad alcuni bagliori di aggressività palese e di comunicazione alterata, i comportamenti agiti dai “contendenti” nei confronti dell’altro sono stati di fuga, sottrazione, evitamento. E chi ha provato ad esplicitare  tale diversità, attraverso pensieri e azioni differenti o di contrasto, si è fulmineamente riparato dall’orrore e rifugiato nell’omologazione. Percorrendo fino in fondo la strada (deriva!) verso vissuti di autorepressione e comportamenti di autopunizione. La sequenza attacco-fuga (di bioniana memoria) è stata sempre seguita da lunghe pause di silenzio, scuse reciproche, esplicitazione di inadeguatezza.
La paura dell’altro diventa paura di sé, delle proprie emozioni e dei propri comportamenti.
Lo  sforzo viene dedicato all’autorepressione, all’autoflagellazione, alla dissimulazione: si vive il gruppo nell’ombra, in costante allarme, tesi continuamente a mimetizzarsi, per non distinguersi.

2. Il gruppo come protesi e ortopedia
La paura dell’alterità viene messa in scena in accordo a standard comportamentali agiti e riconosciuti al fuori del gruppo di sensibilizzazione. Nella stragrande maggioranza dei casi, il riferimento è al “grande gruppo” scolastico. Il qui e ora viene di continuo tradito. Poco o nulla interessa l’altro presente: ci si concentra su come era (in altro T/group) oppure su come non è più (emotivo, razionale, gregario o leader).
Il gruppo non rappresenta più il con-testo per scrivere un testo, insieme agli altri, ma uno scenario dove prende vita e viene messa in scena la propria sostanziale estraneità agli altri.  I lunghi silenzi sono rappresentazioni “in gruppo” di vissuti artistici e i rituali affettivi (pianto e abbraccio) sono privi di pathos, poiché ciascuno si aspetta e tragicamente ottiene risposte funzionali al proprio bisogno di conferma (protesi) e/o di riparazione (ortopedia).
Tutto ciò mi ha evocato ciò che Guy Debord affermava nella sua critica al “capitalismo” come tragico motore della trasformazione delle relazioni sociali.
Nella sua forma ultima, il sociale si presenta come una immensa accumulazione di immagini, in cui tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione. Lo spettacolo non coincide però semplicemente con la sfera delle immagini: esso è "rapporto sociale fra persone, mediato attraverso le immagini", l'espropriazione e l'alienazione della stessa socialità umana.
L'esistenza individuale sembra dunque divenire così insensata da perdere ogni pathos e trasformarsi in esibizione quotidiana: nulla assomiglia alla vita della nuova umanità quanto un film pubblicitario da cui sia stata cancellata ogni traccia del prodotto reclamizzato.

3. Il grande gruppo: appartenenza come illusione terapeutica 
Ogni gruppo ricerca nell'agio il suo "modus operandi". Agio come spazio "accanto" (ad-jacens, adjacentia), luogo aperto in cui è possibile per ciascuno muoversi liberamente e in  cui la prossimità spaziale confina col tempo opportuno (ad-agio, aver agio) e la giusta relazione.
L'agio è il sentimento della sovranità di un "gruppo" su sé stesso, del benessere collegato al sentirsi a casa propria e di poter decidere della vita e del futuro.
L’agio si fonda sul legame, sovranità del plurale sul singolare.
Il gruppo è sentimento ed esperienza della pluralità; ma è anche sentimento collettivo che riconosce la soggettività, nell'unicità: è un dipinto di Enscher, l'io e i molti di Eraclito. Ma ciò è possibile, se e solo se, influenzamento reciproco e vissuto di appartenenza rappresentano forme del legame. La partecipazione, come lotta per l'appartenenza, presuppone il darsi la possibilità di influenzare e di farsi influenzare. Possibilità che non può che nascere se non nel campo definito da quegli individui, in quel luogo e in quel tempo.
Ma nei tre giorni ciò non si è dato, se non in forma di “lampo e tuono”.
Lo sviluppo del gruppo non è stato che l'altra faccia della frantumazione delle soggettività individuali. Identità frantumate che hanno prodotto, in un processo di proiezione continua, un gruppo compatto solo nella soddisfazione (protesica e ortopedica) di bisogni di sicurezza, di difesa dall'incerto, di protezione dallo sconosciuto. Perduta la caratteristica di essere fondato sul legame tra i soggetti, il gruppo ha mostrato meccanismi e articolato sistemi di soggezione e controllo del singolo. Legando in un circolo vizioso, soggettività e pluralità, per sostenere un’immagine allucinata di sé, nell’illusione di frenare l’inarrestabile deriva verso potenziali comportamenti patogeni.
Se, da una parte è stata dunque la singolarità, con la sua incapacità di collegamento tra le parti interne e di legame con l'altro, che connotava quel che rimaneva del gruppo, dall'altra la forma “grande gruppo” (degli allievi della scuola), ha rappresentato la forma ideale di risposta all'ansia  depressiva di ciascun membro. Il continuo rifarsi aldilà e al di fuori del gruppo, per riversarsi nell’ideale del  “grande gruppo”, ha presentato come risultato relazioni che non hanno proposto la valorizzazione e l'incremento di partecipazione ed appartenenza, quanto la cura del corpo (individuale), perché mai guarisca e si risvegli dal suo torpore, fisico, psicologico e mentale.