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CONTRIBUTI POST 28°LAB

Definire l’umano nell’Era degli Automi e dei Borg (in margine al 28° Lab ARIPS*)
(G.Contessa / Agosto 2002)

1.      Dalla mitologia alla realtà


Tutta la storia dell’umanità è costellata di miti relativi alla trasfigurazione del corpo e a tipologie di esseri per metà umani e per metà qualcos’altro. Il dio Pan e il diavolo, il Minotauro ed i centauri, le Sirene di Ulisse, gli dei egizi, il bestiario orrifico medievale, fino alle stampe del Sette e Ottocento che raffigurano i bersagli della satira in forme animali.  L’immaginario ha sviluppato un universo di corpi ibridi, mutanti, trans-specifici, mentre in concreto si operava la trasformazione dei corpi con tatuaggi, piercing, mutilazioni o più semplici semplici trucchi, ornamenti e abbigliamenti. La tradizione ha maggiormente concentrato la sua attenzione su umani che si animalizzano, mentre la modernità ha puntato di più sugli animali e le cose che si umanizzano (da Alice a Walt Disney, da Orwell al Signore degli Anelli).

Questa tensione ha a che fare con problemi come la colpa e la morte. La trasmutazione del corpo allucina una evasione dal senso di colpa inerente l’umano, e dal timore della morte intesa come punizione per la colpa. Se il corpo può diventare un'altra cosa, se ogni cosa può diventare corpo umano, l’uomo è sollevato da colpa e mortalità, così come gli esseri animali o inanimati coi quali si ibrida.

Sono la tarda Modernità e più ancora il nascente Evo Immateriale ad inoltrarsi in concreto nell’annebbiamento dei confini dei corpi, dei sessi, delle specie. I confini fra i  mondi umano, animale, inanimato e meccanico subiscono una metamorfosi “quantica” che insedia la probabilità al posto della certezza, percorrendo quattro strade. La prima direttrice è stata quella medica che mediante vaccini, protesi, chirurgia plastica, terapie ormonali, trapianti, manipolazioni genetiche e clonazioni,  opera una progressiva mutazione del corpo.

La seconda direttrice è quella tradizionale dell’estetica, ma amplificata dall’industrializzazione degli interventi: fitness, trucco, ornamenti, abbigliamento, tatuaggi, piercing e mutilazioni. Il crescente fenomeno del transessualismo è una concreta modificazione dei corpi per via medica ed estetica.

La terza è la via chimica. Dalle pillole antifecondative agli allucinogeni, dagli anti-depressivi ai sedativi pesanti usati in psichiatria, dalle pillole dimagranti agli anabolizzanti: la ricerca degli stati alterati della mente e del corpo, tradizionalmente affidata all’erbario artigianale ed esoterico, è diventata consumo industriale di massa.

La quarta e più recente direttrice è quella meccanica e cibernetica. Dai pace makers agli stimolatori elettrici dei tetraplegici, è in pieno sviluppo la ricerca di protesi e sussidi “intelligenti”che ridiano al corpo funzionalità normali o addirittura ampliate. In parallelo sta crescendo la ricerca di macchine “umanizzate”: dagli animali robot giapponesi ai computer che parlano, dai  software in grado di “chattare” a quelli capaci di scrivere poesie e racconti, suonare musiche e dipingere.

2.      Come definire l’Umano?

Questa progressiva riduzione dei confini fra umano e organico (con la chimica),  animale (coi trapianti), inorganico (con la cibernetica) mette in difficoltà la definizione e il riconoscimento. Un essere coi reni trapiantati da un suino, un pacemaker, un innesto elettro-muscolare e un arto meccanico, come può essere definito?  E come considerare un robot rivestito da un’avanzata simulazione epidermica e in grado di parlare, vedere, apprendere ? Il transessualismo riduce le differenze di genere (per ora non si è arrivati al trapianto d’utero), e le nuove frontiere stanno riducendo le differenze di specie (umano, animale e vegetale). E’ molto avanzata la ricerca sul maialino per i ricambi d’organo. Già siamo riusciti a produrre campi di “tabacco luminoso”, innestando geni di lucciole in quelli del tabacco. Non servirà molto tempo per avere un innesto di lavanda nei geni umani, e ottenere un “sudore profumato”.  Ma alle viste c’è anche il superamento del confine fra mondo organico ed inorganico. Con l’innesto cerebrale di chip, qualche non vedente è tornato a vedere. Con innesti muscolari di elettronica, gambe e braccia tornano a muoversi fluidamente. E se l’ibridazione dei corpi con metallo e software ha dei limiti (Robocop è molto lontano), più vasto è l’orizzonte apposto. L’umanizzazione  dei sistemi di metallo e software tramite applicazioni sempre più sofisticate di memoria, percezione, verbalizzazione, reazione cinestetica e calcolo algoritmico, sta facendo passi da gigante. 

I dispositivi corporei di esplorazione della realtà virtuale, già piuttosto avanzati, creano una realtà a partire dal corpo umano. Non è difficile pensare che arriveremo presto al contrario: dispositivi ambientali a partire dai quali si potranno creare corpi.

Vita artificiale e simulazione del linguaggio umano, in forma scritta o verbale, sono ad uno stadio avanzato: dai boids (forme simil-animali che si muovono sullo schermo secondo programmi di di partenza, ma che sviluppano una “vita” autonoma) ai chatbot (software di conversazione), ai videogames come simcity, che simulano una comunità vivente. Ma ora la frontiera è tridimensionale, col passaggio della cibernetica ai problemi di mimica e cinestesìa.  Il cane Aibo della Sony è già banale. Honda ha creato Asimo, un droide dall’aspetto umano che può fare da guida e custode nei musei. La Sony ha replicato con SDR-3X che cammina e riesce a stare su una gamba sola. Cyborg è un robot che si muove seguendo fonti luminose. Il MIT sta lavorando su droidi “mimici” cioè capaci di numerose espressioni facciali.

Ad uno stadio avanzato di queste nuove frontiere dell’Immaterialesimo, come definiremo l’Umano? Il problema sarebbe semplice se già oggi disponessimo di una definizione accettabile. Ma così non è. La esperienza che mi ha offerto il Lab Umanauti (*) è stata molto ricca di tentativi quanto povera di soluzioni accettabili.

3.      Identità soggettiva e identità sociale

La prima questione che si è posta nel lab e che ha reso il lavoro molto arduo, è quella del rapporto fra soggettività e socialità. Ognuno di noi dichiara di “sapere” di essere umano, per il fatto di avere un corpo, dei ricordi, un’immaginazione ed una coscienza. La particolare simulazione del Lab tuttavia, rendeva inaccettabili questi argomenti: primo, perché il web esclude il corpo; secondo, perché esisteva l’ipotesi della menzogna. D’altronde è assurdo assegnare al corpo ed all’ autodichiarazione una funzione dimostrativa, specie in un’epoca ottica, spettacolare e illusionistica come l’attuale. Effetti speciali, realtà virtuale, ologrammi, materiali sofisticati, consentono una manipolazione oculare, uditiva ed anche tattile al punto che i nostri sensi sono vistosamente parziali  e insicuri. Non è impresa impossibile, per esempio, se si utilizza una webcam per verificare l’identità dell’interlocutore, far “vedere” un filmato anziché il corpo reale dell’interlocutore. La vista e l’udito sono i sensi più fragili di fronte all’inganno. L’olfatto è uno dei sensi in via di sparizione a causa dell’ossessione tutta moderna contro la naturalità. Il gusto e il tatto sono sensi importanti, ma usati solo nelle relazioni molto intime.

La situazione del Lab poneva i partecipanti in una condizione pre-moderna, quando veniva considerata vera e reale, qualsiasi cosa venisse dichiarata o raccontata. La tradizione orale, le limitazioni epistolari, le creazioni artistiche hanno assegnato per secoli un valore di verità a molte cose rivelatesi nel tempo fantastiche, mitiche o false tout court. Col risultato di rendere indistinto il confine fra vero e falso, umano e immaginario. L’aggravante è che, mentre nell’era pre-moderna vigeva il  “pregiudizio di verità” (una cosa raccontata è vera fino a  prova contraria), la Modernità è cresciuta basandosi sul “pregiudizio di falsità” (una cosa è vera solo se è verificata, o meglio, falsificata). L’insieme di confini indistinti fra vero e falso e fiducia, moltiplica le potenzialità; la coesistenza di confini indistinti e dubbio, paralizza, impaurisce e rende paranoici.

L’umano non può dunque essere riconosciuto dai sensi, se usiamo i criteri moderni. Ma nemmeno può bastare l’autodichiarazione. Il Lab ha messo in gioco il paradigma investigativo. La situazione era simile a quella dei classici gialli, nei quali tutti dichiarano di essere innocenti. Se abbiamo il dubbio di un disegno menzognero, ogni affermazione diventa inaccettabile se non è suffragata da un  riscontro.  La situazione del Lab era anche simile, sia pure in termini rovesciati, al famoso test di Turing. Come è noto, il test consiste nel  far sottoporre da un soggetto “cieco” delle domande a due interlocutori: uno umano e l’altro informatico. Il computer è tanto più intelligente quanto più l’interrogante tarda a riconoscere le sue risposte rispetto a quelle umane.

All’interno del Lab è anche stato fatto un piccolo test di Turing, usando poesie create da umani e poesie generate da appositi software: i partecipanti non sono stati capaci di cogliere la differenza. Una cosa simile è avvenuta relativamente ai sessi. Il lab ha registrato l’incapacità dei partecipanti di riconoscere, attraverso le sole interazioni, il sesso reale degli altri. I sensi dunque, e l’autoaffermazione, sono risultati criteri fragili o imprecisi per il riconoscimento dell’identità.

La stessa impraticabilità è attribuibile al riconoscimento interpersonale o reciproco. Spesso nel Lab qualche partecipante ha dichiarato di sentire “umano” qualcun altro, ma tale dichiarazione veniva facilmente inficiata dall’ipotesi della menzogna o dell’errore. Anche perché a sua volta il dichiarante era sottoposto al dubbio di essere un software. Nel paradigma investigativo, non è accettabile l’alibi fornito da chi a sua volta non ha alibi, o non è un testimone credibile. La stessa cosa vale per  i riconoscimenti reciproci: io penso che lui sia umano e lui pensa che lo sia io. Una simile attribuzione reciproca, alimenta il dubbio dell’alleanza complice.  La validazione interpersonale non ha valore sociale: tutt’al più identifica un’isola, un’aggregazione marginale, a rischio di esclusione.

La conclusione è che l’identità è necessariamente un’attribuzione sociale: siamo ciò che la grande maggioranza del contesto pensa che siamo. Il criterio, da scientifico diventa politico, perché il consenso prevale sulla verità. Il che implica una messa in crisi dello scientismo moderno, la cui sfida è stata appunto quello di far prevalere la verità sulla politica. Tolomeo torna a vincere su Galileo.

La cosa  non è priva di conseguenze e di rischi. Per esempio, le creazioni fantastiche e mitologiche, le falsificazioni manipolatorie, le allucinazioni e i deliri, diventano imbattibili se il consenso prevale sulla verità. Un recente B-movie televisivo era incentrato sulla storia di un piccolo villaggio dell’anonima campagna Usa, nel quale prosperità, coesione comunitaria e sicurezza sociale erano garantiti dal sacrificio annuale, per lapidazione, di un membro estratto a sorte. L’eroe della storia che, dopo mille peripezie,  denuncia il fatto all’FBI, finisce in ospedale psichiatrico perché la comunità assassina è abbastanza abile da coprire le tracce e perché lui non viene creduto. Da qui nasce l’attuale timore di molti, circa il problema dell’eutanasìa, della genetica, o di simili problemi che toccano l’esistenza alle radici. Se il riconoscimento della vita o della morte, dell’umanità e della salute, come della normalità, viene assegnato a organismi sociali (comitati etici, équipes mediche, authorities, ecc.) chi ci difenderà dai deliri, dalle prevaricazioni o dalle ideologie ?

D’altra parte è vero che il potere della società nel riconoscimento identitario si pone in ogni campo, compreso quello dell’attribuzione di umanità. E’ costante la tentazione di definire “mostri”, cioè non umani, i colpevoli di delitti efferati o socialmente inaccettabili. Su un piano meno drammatico, l’essere artisti, o professionisti qualificati, o buone madri o quant’altro è puntualmente condizionato dal riconoscimento sociale. Non è un caso che il XXI secolo sta vedendo l’esplosione di nuovi ceti di intermediazione  specializzati nei processi di certificazione, accreditamento, qualità, brevetto. La società pre-moderna aveva la competenza del riconoscimento in casi particolari e limitati. La società immateriale sta avviandosi verso regimi di certificazione onnipervasivi. Arriveremo a dover ottenere un certificato di umanità?

4.      Identità dichiarata, comportamenti visibili

Un’altra questione esplorata dal Lab è il conflitto sempre più esplicito fra le dichiarazioni di identità e la coerenza dei comportamenti visibili. Ogni individuo ha un’immagine di sé, crede fermamente di essere una certa persona. Questa costruzione non sempre ha a che fare coi comportamenti che esprime realmente, a volte addirittura né è in aperto contrasto. Ciò per molti deriva da una scarsa consapevolezza, per altri da ridotte capacità di controllo. Ma per tutti il problema nasce dalla soggettività del proprio linguaggio e sistema identitario. Chi guarda può non vedere una coerenza fra identità dichiarata e comportamento visibile, che invece per  il soggetto è evidente. Durante il Lab spesso i partecipanti facevano dichiarazioni relative alle  sensazioni o ai sentimenti (tensione, empatia, aggressività) che provavano, oppure affermazioni riguardanti aspetti della personalità (creatività, autonomia, solidarietà) che avevano. Altrettanto spesso, altri partecipanti dichiaravano di non vedere nei comportamenti o nelle comunicazioni concrete, i sentimenti o i tratti di personalità dichiarati. Il soggetto vaneggia? Finge ? O si illude? Forse tutte e tre le cose, ma forse è anche vero che gli interlocutori non ascoltano, non osservano, rifiutano i messaggi, li fraintendono per incapacità o malafede.  Ma più facilmente è vero che il soggetto si comporta in modo che ritiene coerente con le dichiarazioni che fa, secondo un linguaggio proprio, che per gli altri risulta incomprensibile o equivocabile.

Un esempio. Un partecipante dice di non essere d’accordo con un altro, poi si scusa per essere stato aggressivo. Infine conviene con le proposte dell’altro. Questa sequenza può essere interpretata in –n- modi possibili. Per il dichiarante la sequenza dimostra la coerenza con quella personalità autonoma e sensibile che ritiene e afferma di avere. Per l’altro la sequenza mostra ostilità, incapacità di gestire il senso di colpa, desiderio di quieto vivere: una personalità dipendente e invidiosa.

Un altro esempio. Alcuni partecipanti si presentano in modo tradizionale, con nome, professione e città di residenza. Qualcuno fa notare che questa presentazione non si concilia con la dichiarazione, fatta da molti, di essere “creativi”. Ma qualcuno replica che considera spregiudicato e anticonformista l’aver omesso, nella presentazione,  il titolo di studio.

Siamo ciò che pensiamo di essere, più ciò che la comunità crede che siamo. Fra i due poli si collocano comunicazione e negoziazione, due processi il cui limite consiste nell’aver bisogno di un linguaggio comune. Il paradosso della comunicazione è che “per mettere in comune”(comunicare) qualcosa occorre “avere in comune” qualcosa. La comunicazione richiede comunicazione, in un processo infinito a ritroso la cui difficoltà aumenta nelle fasi storiche di frantumazione, come l’attuale. L’identità umana dunque richiede un riconoscimento sociale, il quale deriva da una comunicazione che a sua volta richiede un’identità umana. Se in questi loops psico-logici si insinua anche il dubbio della menzogna, il problema sembra irresolubile.

5.      Cosa ci rende umani ?

Esiste qualcosa che possiamo ritenere prova o sintomo specifico dell’umano? La differenza fra umano e animale o vegetale è attribuita, fra l’altro, alla simbolizzazione, all’individuazione, all’accumulazione culturale. La differenza fra umano e inorganico è attribuita alla riproduzione. Ma qual è la differenza fra umano e umanoide? Fra umano e cibernetico? Le prossime frontiere dei processori sono due. La creazione di qubit, basati sul probabilismo quantico. E la creazione di processori con materiale biologico. Quando il nostro hardware avrà un cuore fatto di due atomi, o del dna di ratto, oltre ad essere veloce come il nostro cervello, sarà capace di sfumature, cioè di vita artificiale e pensiero umano sofisticati. Dove possiamo fissare il confine dell’umano, in un corpo manipolato geneticamente e fatto vivere con protesi, trapianti e macchine ?

Il Laboratorio ha offerto molte idee in proposito, ma nessuna apparentemente decisiva.

La prima è quella che viene dal film “Blade Runner”: i ricordi, dunque le emozioni ed i sentimenti definiscono l’umano. Dopo “Blade Runner” è venuto Total Recall, la cui vicenda nasce da un’agenzia di viaggi che offre innesti di memoria su misura e comprendenti ogni emozione “a menù”. Si tratta solo di films, ma anche di profezìe. Che potranno avverarsi quando la IBM terminerà il computer  che ha iniziato a costruire nel 2001: capace di 100 trilioni di operazioni al secondo. Come riconosceremo la telefonata di cordoglio di un parente da quella fatta da un software capace di usare una voce rotta dal pianto e che rievoca episodi reali della vita del defunto?  

La seconda ipotesi riguarda la poesia, la fantasia, l’arte, l’immaginazione. Secondo questa idea solo l’umano è capace di parlare di cose che non ci sono, di creare associazioni o simboli astratti,  raccontare emozioni senza parole convenzionali. Purtroppo questa ipotesi è già oggi confutata dai software che creano poesie, racconti, discorsi, quadri, musiche,  del tutto originali o “alla maniera di” imitando perfettamente uno stile artistico.

La terza idea, più avvincente, concerne l’umorismo. Nessuna altra specie ride. L’umano ride e fa ridere utilizzando o situazioni ripetitive ma “buffe” (cadute, torte in faccia, difetti fisici, ecc.) o associazioni paradossali, contrasti, provocazioni. Il riso nasce da uno sgambetto logico, da una sorpresa o da uno piazzamento; oppure nasce dalla soddisfazione di vedere capitare ad altri ciò che temiamo; o infine dalla attivazione di ricordi o bisogni infantili, associati a gratificazioni. Il limite del riso come definizione dell’umano risiede nella sua élitarietà e fragilità. Il comico è un dialetto: vale solo fra coloro che conoscono bene la cultura e la lingua. Ed è anche una dimensione fragile ed effimera: richiede un preciso contesto, senza il quale sparisce. Se arrivassimo a definire l’umano con l’umorismo e il riso, rischieremmo di non considerare umano chi non fa ridere o  non ride, magari solo perché non ha il linguaggio giusto (verbale, gestuale o mimico), o perché il contesto non è adatto. Senza contare che immagazzinando in un programma tutte le battute di Totò, Groucho Marx o Woody Allen, potremmo strappare una risata a chiunque. 

Il problema  della distinzione fra umano e cibernetico sta nel fatto che  il secondo mondo è interamente figlio del primo. I mondi animale, vegetale e minerale sono stati creati o si sono sviluppati prima e senza quello umano. L’universo informatico è invece interamente prodotto dal genere umano a sua immagine e somiglianza. Anche manufatti ed artefatti sono prodotti umani, ma, sia pur tecnologicamente o artisticamente sofisticati, sono limitati alla sfera materiale, cioè sono sempre “cose”. Anche un libro e un quadro sono imprigionati nei loro supporti materiali. La cibernetica è un prodotto umano smaterializzato, che ancora si radica su una base materiale, ma che imita gli strumenti umani immateriali: intelligenza, memoria, parola, gesto, emozioni, apprendimento. L’umano produce un nuovo universo immateriale a sua somiglianza: in che modo potrà distinguersi da esso ?

6.      L’ipotesi della “libertà di fare male” e il paradosso dell’Angelo

L’ipotesi che il Lab mi ha suscitato è che l’umano si riconosca essenzialmente dal Male. Non solo dalla libertà di fare il male, ma anche dalla sua concreta attuazione. La libertà di fare male che non si attua mai, è indistinguibile dall’omologazione impersonale. L’errore, il difetto, la mancanza, il peccato, la trasgressione, la perversione, i vizi sono l’estremo confine dell’umano. La sua frontiera esclusiva; il segno distintivo della sua unicità di specie sul Pianeta Terra. L’umano è l’unica specie capace di fare il Male, per il gusto di farlo o per danneggiare qualcuno. Il negativo, il diabolico, la cattiveria, la sgradevolezza, la viziosità: tutto ciò che danneggia se stesso o il mondo (dai simili alle montagne) è tipicamente umano. L’umano di definisce e riconosce per ciò che non va in lui. Gli animali e le piante, come i sassi, sono programmati per seguire il loro destino e la loro funzione sul pianeta. Non dirottano, non trasgrediscono; seguono le leggi della natura. L’umano ha una cultura e questa prevede la distruttività, auto o etero. L’umano ha la libertà di fare il male e si definisce come umanissimo proprio nel farlo.

Questa idea contraddice il senso comune che attribuisce al male qualcosa di mostruoso, estraneo all’umano, lontano dalla specie. Ma essa apre una contraddizione anche maggiore. Quella di una specie che si definisce per il negativo, ma che mette al centro della sua cultura gli sforzi per superarlo. Come se l’umano avesse la missione di trascendere da sé, negarsi, evaporare dalla sua natura. Molti delitti o trasgressioni vengono spesso definiti come “contro natura”, a partire dalla illusione che il male sia “mostruoso”. In verità i delitti e le trasgressioni sono semmai “contro cultura”, perché la natura dell’umano è invece intrisa di negativo e la cultura è appunto il guardiano del male. Chiamerei “paradosso dell’Angelo” questo destino dell’umano di definirsi per il diabolico, ma di dover negare la propria natura: chiamato a diventare angelo, quindi meno  umano. Chi indica come compito principale del transito sulla terra, quello di migliorarsi e migliorare il mondo, affinare la “scultura di sé”, implicitamente ammette la condanna dell’umano a negarsi, negando il suo negativo.

La libertà di fare male è speculare alla libertà di fare bene che è pure un tratto dell’umano, anche se questa seconda libertà si concreta nella sua negazione. La libertà di fare bene si esprime facendo male.

7.      Cosa sarebbe  un cyborg malefico?

L’ipotesi del male può essere falsificata, se pensiamo all’idea di creare un borg o droide capace di fare male. Asimov ha eliminato questa ipotesi fissando, fra le sue leggi della robotica, l’impossibilità per gli automi di danneggiare l’umano. Ammettendo di voler ignorare questa legge, un computer programmato per fare il male eliminerebbe il confine fra umano e informatico? La risposta al quesito è stata esplorata da molta letteratura dal Golem a Frankenstein. Un artefatto che possedesse la “libertà di fare male”, riprodurrebbe il mito di Lucifero rivoltandosi contro il suo creatore. Tale libertà sarebbe caotica e incontrollabile, cioè non traducibile in algoritmi, non limitabile da divieti programmati. Tuttavia questo carattere, se fosse accompagnato dalla libertà di far seguire il bene al male, assimilerebbe l’automa all’umano.

Un computer che invece avesse una programmazione per fare il male in modo ciclico, reattivo a certe condizioni o anche randomizzato, non sarebbe “libero”, quindi non sarebbe umano. Lo stesso discorso varrebbe per un borg malefico per “errore”. Il bug lo condannerebbe ad un “male coatto”, lontano dall’umana libertà di fare male.

*NOTA: Il Laboratorio di Dinamiche di Gruppo e di Comunità “UMANAUTI” si è tenuto sul web dal marzo al giugno 2002. La simulazione si basava sui seguenti elementi:

       I partecipanti dovevano identificare eventuali borg sabotatori infiltrati

       Per identificare i borg occorreva definire l’umano e in non umano

      L’attività era gestita da software apposito, dichiaratamente non umano