1. Professioni del sociale e società
Obiettivo di questa riflessione è di analizzare
come la crisi delle professioni del sociale, che operano
in una società caratterizzata dal paradigma del
mercato come principio regolatore della convivenza tra
i cittadini, rappresenti una situazione costitutiva di
tali professioni, ontologica, che produce un disagio endemico
alla categoria per la sua natura a-mercantile, cioè
eccentrica rispetto al pensiero su cui si basa l'economia
di mercato.
In altri termini, la tesi che si sostiene è che
le professioni del sociale, poiché costitutivamente
diverse dalle altre professioni, sono destinate ad una
situazione di ambiguità costante nel loro riconoscimento
istituzionale, di marginalità del loro peso sociale,
rispetto al ruolo che possono svolgere nella società
di mercato e rispetto alle risorse investite per sostenerle.
Non c'è dubbio che negli ultimi decenni, l'attenzione
delle istituzioni, verso queste professioni (che per la
maggior parte fanno riferimento in modo diretto ed indiretto
ad esse come organismi da cui derivano le risorse), sia
andata modificandosi progressivamente: l'interesse si
è spostato dall'efficacia del servizio a vantaggio
del cittadino/utente (spesso a scapito dell'efficienza),
alla preoccupazione della razionalità organizzativa,
dettata dall'esigenza del contenimento dei costi di erogazione
e dall'obiettivo di ottimizzazione delle risorse investite,
attraverso la standardizzazione del servizio. La tendenza
è stata, e continua ad essere, quella di ricondurre
le professioni del sociale all'interno delle regole dell'economia
di mercato, con la conseguente logica nell'allocazione
delle risorse investite su di esse.
Questa scelta, apparentemente ragionevole, nasconde in
realtà una miopia istituzionale nel considerare
le professioni del sociale: essa ègenerata da una
cultura del lavoro basata su paradigmi inadatti a leggere
la natura e la specificità di queste professioni,
rispetto a quelle che operano, invece, nella produzione
di beni e servizi per il mercato.
Una prima questione da affrontare è quella di definire
che cosa si intende, in questo contesto, per professioni
del sociale, tentare di delineare un perimetro, seppur
approssimativo e permeabile, di ciò che caratterizza
questa tipologia di lavoro. Indipendentemente dallo status
contrattuale del lavoratore (sia esso dipendente di una
organizzazione pubblica o privata,oppure libero professionista
o volontario) la professione del sociale è caratterizzata
dall'impiego di competenze con lo scopo di soddisfare
le necessità della persona, nella sua natura specifica
di individuo in relazione con i propri simili, all'interno
del gruppo o della comunità di appartenenza. I
professionisti lavorano con la persona come portatrice
di bisogni legati al suo rapporto/legame con gli altri
individui, in quanto nodo di una rete di consimili e parte
di un sistema dinamico di soggetti in costante interazione
e influenzamento reciproco. Le professioni del sociale
mirano a incidere sui fattori costitutivi del soggetto
su cui agiscono, facilitando una evoluzione equilibrata
e armonica rispetto alla sua progettualità esistenziale.
Educatori, psicologi, insegnanti, mediatori culturali,
animatori sociali (per citare alcuni esempi), attraverso
la loro competenza, non forniscono servizi di benessere
accessori ai bisogni della persona (come nel caso del
fisioterapista o del massaggiatore), ma incidono direttamente
sul suo progetto di ben-essere in relazione al contesto
rappresentato dai consimili di specie. In questo quadro
si considerano, dunque, i professionisti del sociale che
operano direttamente con utenti/persone e non quelle professioni
che, più in generale, studiano i fenomeni del sociale
(come ricercatori e sociologi).
Nella definizione di professioni del sociale, si è
anche scelto di non includere quelle di tipo strettamente
sanitario (spesso associate ad esse) che, anche se presentano
strette somiglianze nella loro natura, privilegiano l'approccio
restaurativo, tipico della terapia, piuttosto che quello
evolutivo, caratteristico della crescita. Tuttavia, molti
dei ragionamenti che seguono possono essere applicati
anche alle professioni sanitarie.
2. Società, comunità, mercato e professioni
Poiché le professioni del sociale hanno a che fare
con la relazione, appare opportuno distinguere i due principali
contesti nei quali l'individuo vive il proprio rapporto
con gli altri consimili: la società e la comunità.
Queste due tipologie di aggregazione sono caratterizzate
da diversa natura e fondate su paradigmi differenti, che
verranno analizzati di seguito e che, come vedremo, influenzano
l'attribuzione di valore alle diverse professioni e il
loro status sociale.
Nella società l'individuo partecipa quale titolare
di diritti/doveri regolati dalla norma: questa ha valore
erga omnes indistintamente, indipendentemente dalla specificità
di ciascuno. La relazione e lo scambio tra i cittadini
è governato dalla regola convenzionale, sulla base
di un legame di natura giuridica, indipendentemente dal
legame affettivo che unisce i soggetti. Nella società,
quest'ultimo viene espressamente escluso da tale rapporto,
in nome di una oggettività che rende tutti i cittadini
uguali. Diversamente, nel contesto della comunità,
la persona partecipa come portatrice di una relazione
significativa, imperniata strettamente sulla componente
affettiva, che la lega agli altri soggetti: questo legame
possiede nella relazione, anche professionale, una valenza
più significativa e determinante del ruolo formale
ricoperto dalla persona in quel contesto. Società
e comunità, quindi, sono imperniate su due sistemi
antitetici di relazione tra esseri umani: la prima vede
la norma prevalere sull'affettività, la seconda
privilegia la affettività rispetto alla norma.
Altra differenza è che la società ha per
riferimento principalmente il cittadino come individuo
produttore e consumatore di risorse, mentre la comunità
si rivolge ad un essere vivente desideroso di sviluppare
la propria soggettività all'interno di un contesto
di consimili.
La storia occidentale degli ultimi due secoli, a partire
dalla prima rivoluzione industriale, ha mostrato il progressivo
diffondersi e consolidarsi della società e la sua
crescente strutturazione sempre più invasiva nei
contesti collettivi e nelle relazionitra persone: nello
stesso periodo di tempo, questo trend ha generato la progressiva
perdita di rilevanza e di presenza delle aggregazioni
umane improntate sulla comunità, relegandole a
forme marginali e non riconosciute formalmente. Come afferma
lo storico M. Ignatieff, tra i costi generati dalla modernità
della società va data per assodata "la
perdita dei legami comunitari e di vicinato".
La struttura della società occidentale odierna
è figlia di quello che Heidegger definisce Pensiero
calcolante, divenuto, secondo il filosofo tedesco, l'unico
tipo di pensiero di cui siamo capaci: la razionalità
strumentale su cui si fonda, e che ha prodotto la cultura
del calcolo e della misurazione, ha portato a considerare
il mondo esclusivamente attraverso la categoria egemone
dell'utilità di scambio, oggettivamente definita
attraverso metriche condivise, trascurando e relegando
ai margini della cultura, la comprensione del bello, del
vero, del santo come sentimenti soggettivi. Questi fattori
sono considerati solo nel caso siano produttori di utile
economico (si pensi agli esempi dell'arte e della cultura
come business, invece che come semplice godimento soggettivo).
La tecnoscienza, sviluppatasi esponenzialmente con l'avvento
della rivoluzione digitale, si è dimostrata l'ancella
ideale del pensiero calcolante che, tuttavia, ci trova
impreparati (sempre secondo Heidegger), a comprendere
pienamente questo mondo, dal quale viene espulso il sentire
soggettivo. La razionalità strumentale nasce proprio
in ambito economico con l'obiettivo di regolare gli scambi
di beni, secondo metriche che si basano su una ragione
oggettiva. Non esiste più la soggettività
della persona (anche se enunciata enfaticamente nelle
dichiarazioni di principio delle istituzioni), ma solo
il valore dei beni che si scambiano, poiché la
ragione espelle la soggettività e valuta sulle
evidenze comuni, sul logos condiviso convenzionalmente
da tutti gli individui. Questi principi non sono figli
recenti dall'economia di mercato, ma nella nostra cultura
li ritroviamo alle origini del pensiero occidentale: già
Platone, anticipando questa prospettiva di razionalità,
sosteneva che per conoscere è necessario procedere
per idee e numeri e non fare affidamento sulle sensazioni
corporee.
Oggi, il funzionamento della società si fonda sui
paradigmi di progettazione e di controllo dell'insieme
e si articola sull'idea semplificatrice di cittadino come
entità "media", standardizzata, categoria
astratta, indipendente dalle peculiarità individuali.
In questo pensiero, la complessità costitutiva
della soggettività della persona, emergente dall'interazione
delle componenti biologica, psico-relazionale e spirituale
che si manifestano in uno specifico tempo e contesto e
che si trasformano lungo l'arco della sua esistenza, è
ridotta in una presunta oggettività, di natura
esclusivamente giuridica e quantitativa.
La semplificazione si basa sull'assunto implicito che
la costruzione della società è dettata dalla
necessità di ridurre la complessità della
convivenza tra esseri umani, soprattutto quando il loro
numero è rilevante, al fine di semplificare il
governo dello stare assieme nel medesimo territorio e
regolare l'allocazione delle risorse. Regole sociali e
valori condivisi hanno lo scopo di contenere la pulsione
individuale a soddisfare le proprie necessità in
contrasto o prevaricando le necessità altrui: tale
evenienza renderebbe problematica la cooperazione tra
persone e, quindi, la possibilità della specie
di agire proattivamente sul contesto. La società,
pertanto, si fonda sulla riduzione condivisa o forzata,
della libertà individuale, per contenere la tendenza
dell'animale-uomo a soddisfare i propri bisogni, senza
considerare quelli altrui.
Nella società, il governo delle relazionisi fonda
sul mito della normalità come rappresentazione
di sintesi della complessità e sull'illusione di
poterla conoscere, definire e guidare attraverso questa
semplificazione. In questa operazione il rapporto tra
cittadini avviene attraverso la definizione di ruoli sociali
(e professionali) codificati e adottando metriche per
misurare, circoscrivere, governare le relazioni, al fine
di mantenerle all'interno dei confini di ciò che
è ritenuto "nella norma", perché
funzionale alla sopravvivenza del sistema sociale. Anche
le attività professionali sono regolate da un insieme
di norme che le definiscono, le legittimano e stabiliscono
gli standard sociali per il loro esercizio e determinano,
così, la loro rilevanza, anche economica, per la
collettività.
Il possesso di competenze specifiche riconosciute, o comunque
definite in modo condiviso, è una condizione che
consente lo svolgimento di gran parte delle professioni
e per questo motivo le società occidentali hanno
formalizzato il sistema educativo-scolastico, affinché
consenta l'acquisizione regolata e riconoscibile di queste
capacità (si pensi ad esempio al lavoro dell'Unione
Europea in merito al riconoscimento formale delle competenze
in tutti gli Stati aderenti).
La società basata sulla norma ha favorito lo sviluppo
dell'economia di mercato che, a sua volta, ha consentito
il consolidarsi della società stessa, secondo un
loop di auto rinforzo e di legittimazione reciproca. In
particolare, l'economia di mercato, costruita sul pensiero
calcolante, consente lo scambio di beni di proprietà
(e quindi non disponibili liberamente all'uso individuale)
attraverso metriche che stabiliscono il valore convenzionale
e, in questo modo, regolano la transazione. Contrariamente
a quanto promesso dal concetto di "libero mercato",
paradigma chiave in gran parte delle teorie economiche
contemporanee più diffuse e popolari, ci troviamo
in presenza di un contesto in cui regole e vincoli, seppure
non sempre esplicitati con la forza della norma codificata,
nei fatti rappresentano un condizionamento allo scambio
e ne determinano gli esiti.
La logica mercantile determina anche l'esercizio delle
professioni in generale, dove l'attività lavorativa
ha assunto il carattere di merce di scambio, soggetta
alle stesse regole che condizionano la transazione dei
beni di consumo. Anche le professioni dell'immateriale
(e, quindi, del sociale) sono soggette a questi vincoli
e la conoscenza, incorporata nella competenza professionale,
diviene un valore di mercato che cresce con il decrescere
della sua disponibilità.
Il valore di una attività lavorativa è determinato
dal peso che le viene attribuito della società
che, così, quantifica il valore di scambio della
prestazione professionale :nel processo di definizione
del valore, le attività di utilità sociale,
che la professione eventualmente genera, sono riconosciute
solamente se soddisfano le regole della domanda/offerta.
Non è sufficiente che una professione consenta
di soddisfare bisogni rilevanti per la vita sociale e
la coesistenza degli individui: è indispensabile
che ciò venga realizzato rispettando i criteri
economici di efficacia ed efficienza e di scambio.
L'accettazione acritica del paradigma della domanda e
dell'offerta ha generato paradossi per cui, ad esempio,
la professione di influencer ha un valore di mercato decisamente
maggiore di quella di un ricercatore universitario.
Questa logica è diffusa e condivisa da chi governa
le istituzioni e si manifesta nella minore propensione
ad investire economicamentesulle professioni utili socialmente,
ma che "consumano" risorse, invece di generare
profitto: purtroppo, questa cultura del lavoro è
anche diffusa nella maggioranza della popolazione che
considera "normale" che un giocatore di calcio
percepisca un compenso ben più elevato di un insegnante
o di un mediatore culturale. Il valore di una professione,
quindi, è determinato esclusivamente dalla logica
del mercato e non dalla sua rilevanza per il benessere
psico-sociale.
Un ulteriore elemento di riflessione deriva dalla constatazione
che molte istituzioni, prive di una visione sistemica
della complessità del sociale, hanno privilegiato
incondizionatamente l'economia di mercato di tipo liberista
o neoliberista, sostenendo politiche tese a supportare,
come priorità, la produzione economica e il lavoro
come fonte di reddito per il consumo, piuttosto che politiche
tese a potenziare il Welfare sociale dei cittadini e il
benessere psico-sociale. Anche
i provvedimenti adottati per il sociale, sono caratterizzati
dall'aziendalizzazione dei servizi dedicati, con l'introduzione
di criteri e di parametri di efficacia/efficienza tipici
delle organizzazioni profit. Si veda, a tale proposito,
l'aziendalizzazione della sanità: la legittima
aspirazione alla razionalizzazione delle attività
professionali, ha portato alla definizione di regole,
procedure, tempi, che molto spesso rendono inadeguata
l'attività di cura e di presa in carico della persona
nella sua dimensione globale e non solo in quella di paziente
portatore di un sintomo. Così l'attuale organizzazione
della sanità, anch'essa figlia del pensiero calcolante,
ha accentuato la componente tecnica nella relazione con
il malato, dove l'investimento sulla tecnologia, sempre
più evoluta e performante, è utilizzato
per intervenire, in ottica riparatoria, su un corpo portatore
di sintomi: contemporaneamente si è progressivamente
ridotto l'investimento sulla relazionedi presa in carico
dell'individuo in disagio, portatore di una complessità
unica e non standardizzabile. Appare evidente che se il
principio dell'economia di scala si adatta coerentemente
all'acquisto di beni strumentali, come i farmaci o i presidi
sanitari, esso sia inadeguato a regolare la relazione
professionale e umana tra terapeuta e malato.
Il sistema scolastico è un ulteriore esempio di
questo paradosso: l'organizzazione per materie e per tempi
pianificati, il proliferare di procedure e di vincoli
formali (imposti non solo dall'istituzione preoccupata
dell'azione di controllo, ma spesso pretesi anacronisticamente
dai lavoratori per difendere privilegi sindacali), portano
ad un agire didattico che considera lo studente una mente
da riempire di contenuti nei tempi prefissati, piuttosto
che una persona da supportare nella progettazione del
proprio futuro nella società. Anche in questo caso
la razionalità strumentale della relazione a ore,
tra docente e studente, riduce drasticamente l'efficacia
del professionista nel conseguimento dell'obiettivo educativo.
3. Specificità delle professioni del sociale
Gli esempi appena citati consentono di ampliare il ragionamento
per evidenziare alcune differenze costitutive esistenti
tra professioni del sociale e professioni di mercato.
Come vedremo, è proprio tale diversità,
ignorata dalle istituzioni, che genera l'attuale stato
di crisi su cui stiamo riflettendo.
Qualsiasi attività professionale che abbia come
oggetto la produzione di beni o di servizi di utilità
accessoria per la persona (che, quindi, non intervengano
nel supportarla e nel renderla autonoma nella sua dimensione
relazionale, come fanno le professioni del sociale), si
inserisce adeguatamente nel contesto della società
di mercato, poiché le esigenze di misurazione e
di attribuzione di valore sono possibili senza eccessiva
difficoltà. Esse risultano coerenti con l'esercizio
del pensiero calcolante e sono pertanto facilmente gestibili
dalla società e valutabili secondo le metriche
e gli strumenti della razionalità strumentale.
In queste professioni le competenze di processo sono sufficienti
ad esaurire lo scambio tra professionista e cliente/utente.
Le competenze di processo sono le conoscenze e le abilità
che consentono di realizzare il prodotto oggetto di scambio
o il servizio nella sua natura di bene fungibile: ad esempio,
nel caso di un produttore di scarpe è ciò
che consente di ottenere l'oggetto per il mercato. Analogamente
un tassista impiega un ventaglio di capacità strumentali
che lo mettono nelle condizioni di portare i clienti a
destinazione, utilizzando la propria auto.
Da che cosa deriva la relativa facilità di gestione
dello scambio professionale in queste attività?
In questi contesti la qualità e la significatività
della relazione tra professionista e fruitore del bene/servizio
ha una rilevanza modesta nella percezione della qualità
del prodotto e nell'attribuzione del valore di scambio.
Ciò che è considerato come centrale e determinante
è il valore percepito del bene o dell'attività
di servizio in sé, cosa questa relativamente indipendente
dal professionista e dalla modalità di erogazione.
Se si desidera acquistare un paio di scarpe giudicate
confortevoli e il loro prezzo è ritenuto conveniente,
lo scambio avverrà anche se il venditore non è
particolarmente simpatico.
Le competenze di processo, inoltre, sono facilmente quantificabili
e misurabili, al pari dei materiali utilizzati per la
produzione di un bene: metriche come il tempo impiegato
o l'intensità della conoscenza insita sono elementi
quantificabili e utilizzabili per definire il valore di
scambio. Per questo motivo le professioni che si basano
esclusivamente su questo tipo di competenze sono facilmente
catalogabili e regolabili nella società di mercato,
mediante gli strumenti contrattuali utilizzati attualmente.
La natura delle professioni del sociale le pone in un
piano di differenza costitutiva da quelle di mercato,
che genera una difficoltà di comparazione: è
proprio la loro natura che rende le prime inadatte ad
essere regolate con le metriche dalla società di
mercato, attraverso gli strumenti elaborati della razionalità
strumentale.
Le professioni del sociale sono attività operanti
in un ambito a complessità dinamica (quello delle
relazioni umane), ben più articolato di quello
caratterizzante le professioni di produzione di beni o
di erogazione di servizi tradizionali. Il lavoro del professionista
del sociale è determinato da un intreccio di fattori
(costitutivo della complessità dinamica) che, oltre
a interagire simultaneamente, si influenzano in modo sistemico
nella loro azione rispetto al risultato. Essi sono indistinguibili
tra loro, in termini di causalità nel processo
di produzione dell'esito finale: l'espressione della competenza
specialistica del professionista è influenzata
dalla modalità di relazione con l'utente e dalla
sua soggettività, e queste risentono della natura
unica dell'esigenza di cui l'utente è portatore,
che viene trattata all'interno di un contesto ambientale
specifico e in un momento temporale particolare. L'esito
dell'azione del professionista del sociale, quindi, non
può essere concepito come un artefatto definitivo
(come avviene nelle professioni di mercato secondo un
processo lineare, un algoritmo), ma come un fenomeno emergente
dalla sinergia di questi fattori: appare evidente l'impossibilità,
oltre che di descriverlo, di misurarlo, di valutarlo e
di classificarlo secondo le classiche categorie di attribuzione
di valore del mercato. Ecco perché diviene arduo
il tentativo di standardizzare un intervento professionale,
che nella sua azione intercetta la soggettività
della persona, in una specificità temporale e contestuale.
Il lavoro nel sociale comporta che il professionista non
si possa limitare a possedere e a padroneggiare le competenze
di processo (come avviene in tutte le professioni). La
complessità dinamica in cui opera e l'intreccio
dei fattori che la caratterizzano, determinano l'esigenza
che il professionista sia in possesso anche di quelle
che potremmo definire le competenze di legame: sono queste
che rendono possibile l'efficacia e la finalizzazione
delle competenze di processo.
Le competenze di legame costituiscono un insieme di capacità
e di atteggiamenti che va oltre le tradizionali competenze
relazionali, come la capacità di ascolto attivo,
di empatia e di sospensione del giudizio nei confronti
dell'interlocutore, che sono spesso inserite nei curricula
formativi degli operatori del sociale: esse presuppongono
l'utilizzo della compassione, intesa nel senso della tradizione
filosofica orientale, come sperimentazione del desiderio
del bene nei confronti dell'altro. È la presenza
dell'altro nella sfera affettiva del professionista, la
vicinanza al prossimo, come sostiene il filosofo Byun-Chul
Han, che stabilisce una relazione, un legame, invece che
una semplice connessione tra soggetti.
Il professionista del sociale non può limitarsi
al possesso e all'esercizio delle competenze di processo,
considerando l'utente un altro da sé su cui agire.
Senza un'implicazione diretta nella relazione, senza la
costruzione di un legame, l'efficacia della attività
professionale risulta incompleta: le competenze tecniche
dell'agire professionale producono effetti adeguati solo
se impiegate dal professionista con la persona e non sulla
persona.
Le competenze di legame consentono di agire nella complessità
dinamica della relazione professionale, per costruirla-decostruirla-ricostruirla
in un processo circolare che rende sinergici e operanti
tutti i fattori coinvolti, adattandoli flessibilmente
nel loro manifestarsi temporale: esse generano l'energia
per il continuo ritararsi sul qui e ora della relazione,
che si costruisce nel momento in cui emerge, e per la
riprogettazione in itinere dell'azione verso gli obiettivi
finali dell'intervento.
Le competenze di legame presuppongono nel professionista
un atteggiamento oblativo, di offerta, generato dalla
cultura del dono (possibile nella comunità), invece
che da quella dello scambio (più frequente nella
società). Chi dona non si aspetta uno scambio,
un vantaggio, ma è gratificato nel privarsi di
qualcosa di significativo per sé, per generare
il benessere dell'altro nella prospettiva della compassione:
chi dona ha a cuore la relazione, il legame con l'altro
e questo assume un valore ben maggiore di quello del bene
donato. La cultura del dono, lontana dal pensiero calcolante,
non necessita di metriche di misurazione del valore di
ciò che viene dato e del risultato che esso produce
nell'altro.
È l'intreccio indissolubile tra competenze di processo
e competenze di legame che caratterizza l'essenza costitutiva
e differenziale delle professioni del sociale e che, oltre
a renderle efficaci nell'azione con le persone, le certifica
estranee alle metriche del mercato.
Nell'azione professionale non è possibile misurare,
quantificare, la qualità e la quantità del
tempo dedicato all'altro, predefinire qualità e
intensità della relazione, imbrigliare l'azione
in procedure e processi pre-definibili misurabili, verificabili
e rendicontabili. Non è possibile stabilire a priori
il tipo e la durata dell'intervento di un educatore per
raggiungere i risultati con una specifica persona o un
particolare gruppo di utenti. Per lo stesso motivo da
un insegnante non si può pretendere di definire
nel dettaglio e anticipatamente il programma e ciò
che dovrà attivare con la specifica classe di studenti
in un anno di lavoro didattico. Non è un caso che,
proprio della scuola, gli insegnanti più apprezzati
e di maggior significatività siano quelli disposti
ad impegnarsi nell'ottica del dono, senza risparmiare
tempo o ridurre l'attività a ciò che è
previsto dal contratto di lavoro.
4. Alcune ragioni di una crisi intrinseca
Le considerazioni fin qui espresse spiegano come il paradigma
della società di mercato di ricondurre le professioni
del sociale alle logiche della razionalità strumentale
del pensiero calcolante, abbia accentuato la loro crisi,
collocandole in una categoria del contesto sociale che
non ha gli strumenti concettuali per valutarne la complessità
costitutiva nel produrre benessere per la collettività.
Per loro natura, come già spiegato precedentemente,
esse sono più connaturate a contesti di Comunità,
dove il peso dell'approccio oblativo e del legame relazionale,
più che le competenze di processo impiegate, le
connotano come professioni
a-mercantili.
Nella logica di mercato, adottata dalla società
e dalle istituzioni per attribuire valore alle professioni,
è data esclusiva rilevanza alle competenze di processo,
perché più facilmente identificabili, misurabili,
e valutabili: queste sono oggetto della contrattazione
e dell'allocazione delle risorse economiche nei confronti
dei diversi settori professionali. Se questa prassi consolidata
ha senso e può risultare funzionale per le attività
di produzione di beni e servizi, rappresenta una penalizzazione,
invece, per le professioni del sociale.
Misurare il valore di queste attività, considerando
solamente le competenze di processo (perché facilmente
quantificabili) e non considerando quelle di legame (costitutive
della professione, ma non categorizzabili con gli strumenti
del pensiero calcolante), ha portato al fallimento di
tale tentativo, accentuando il disagio degli operatori,
con il probabile accentuarsi dei fenomeni di burn-out,
ma anche l'insoddisfazione dei fruitori di tali servizi,
che non vedono considerati adeguatamente i bisogni di
cui sono portatori.
Le istituzioni, perseguendo l'idea di regolare le professionalità
del sociale con gli stessi principi degli altri tipi di
professione, hanno ignorato l'importanza delle competenze
di legame: si è prodotta, così, un'offerta
di servizi sociali spersonalizzata, esclusivamente basata
sulla tecnicalità, con un negligente inaridimento
nei professionisti, delle competenze di legame, perché
mai valorizzate e richieste espressamente. Queste si sono
manifestate, in modo non sistematico, solo nei professionisti
che per propria iniziativa e disponibilità hanno
deciso di operare utilizzandole oblativamente e con spirito
di compassione per l'utente, seppure non fossero richieste
dal vincolo contrattuale.
L'assenza di attenzione alla dimensione del legame, nei
servizi sociali gestiti dalle istituzioni, ha generato
un fenomeno collaterale di accentuazione dell'offerta
da parte di nuovi professionisti e organismi che si propongono
privatamente, in alternativa alle istituzioni pubbliche,
nell'erogazione di questi servizi.
Oblatività e compassione spesso agite da questi
soggetti extra istituzionali, possono spiegare l'apprezzamento
ottenuto da persone impegnate nel sociale, magari prive
di competenze professionali specifiche riconosciute formalmente
e che agiscono nel contesto del volontariato. Si pensi
a singoli individui, membri di ordini religiosi, appartenenti
ad associazioni di vario tipo, che operano nel settore
dell'animazione, dell'educazione, della formazione, della
crescita personale, al di fuori e in parallelo dei canali
istituzionali pubblici che si occupano del sociale. Questi
vengono vissuti dagli operatori istituzionali (che fanno
riferimento ad enti e organizzazioni specifici dai quali
ricevono le risorse) come competitori irregolari, poiché
non possiedono sempre le competenze riconosciute formalmente
che, invece, sono loro richieste per poter operare.
Probabilmente la ragione del loro successo e della loro
diffusione, oltre che del loro apprezzamento da parte
degli utenti coinvolti, deriva proprio dall'aver accentuato
maggiormente questa dimensione di oblatività e
di compassione, proprio perché non interessati
e/o non costretti a rimanere all'interno delle regole
di mercato.
La crisi delle professioni del sociale è un ulteriore
fattore che evidenzia, se ancora ce ne fosse bisogno,
la profonda crisi della società fondata sul mercato
e resa ancora più critica dalla globalizzazione
come processo di omogeneizzazione dei comportamenti umani
e delle culture. La centralità della persona, seppure
enunciata pomposamente nelle dichiarazioni istituzionali,
rimane solo una dichiarazione di principio che si scontra
costantemente con scelte istituzionali e individuali generate
dalla centralità del mercato nel determinare la
vita delle società occidentali. È naturale,
quindi, che le professioni che si occupano della persona
(come individuo psicosociale appartenente ad un insieme
di simili e non come produttore/consumatore votato al
profitto) risentano di questa incongruenza e subiscano
una penalizzazione per la loro natura a-mercantile.
La crisi delle professioni sociali non appare oggi risolvibile
facilmente perché è solo un piccolo segmento
di una crisi più generale che è soprattutto
culturale.
Forse un piccolo strumento d'azione potrebbe essere quello
di accrescere la resilienza degli operatori del sociale,
rendendoli consapevoli che la loro professione è
solo in parzialmente inscrivibile nella logica del mercato
e valutabile e remunerabile con i suoi principi. Accettando
consapevolmenteche parte della propria attività
sia caratterizzata anche dall'oblatività, dalla
cultura del dono ed essendo consapevole che questo agire
possa rappresentare in sé un possibile "riconoscimento",
che nessun mercato è in grado di quantificare,
l'operatore del sociale potrebbe convivere con questa
crisi costitutiva della sua professione, eliminando la
frustrazione di non sentirsi considerato come iprofessionisti
del mercato.
Per far questo è indispensabile cambiare paradigma
attraverso il quale considerare la professione e in ciò
può venire in aiuto quello che Heidegger, in contrapposizione
al pensiero calcolante, definiva pensiero meditante, riflettente,
ideativo, creativo: un pensiero senza misura, sovrabbondante,
che tiene conto della complessità e delle contraddizioni
che essa inevitabilmente porta e che non è limitato
da metriche razionali e da algoritmi. È il pensiero
che ha generato artisti, poeti, narratori, letterari e,
perché no, forse anche i professionisti del sociale.
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