contattaci
Crisi delle professioni del sociale e società di mercato (F.Cavallin, 2021) scarica.pdf


1. Professioni del sociale e società

Obiettivo di questa riflessione è di analizzare come la crisi delle professioni del sociale, che operano in una società caratterizzata dal paradigma del mercato come principio regolatore della convivenza tra i cittadini, rappresenti una situazione costitutiva di tali professioni, ontologica, che produce un disagio endemico alla categoria per la sua natura a-mercantile, cioè eccentrica rispetto al pensiero su cui si basa l'economia di mercato.
In altri termini, la tesi che si sostiene è che le professioni del sociale, poiché costitutivamente diverse dalle altre professioni, sono destinate ad una situazione di ambiguità costante nel loro riconoscimento istituzionale, di marginalità del loro peso sociale, rispetto al ruolo che possono svolgere nella società di mercato e rispetto alle risorse investite per sostenerle.
Non c'è dubbio che negli ultimi decenni, l'attenzione delle istituzioni, verso queste professioni (che per la maggior parte fanno riferimento in modo diretto ed indiretto ad esse come organismi da cui derivano le risorse), sia andata modificandosi progressivamente: l'interesse si è spostato dall'efficacia del servizio a vantaggio del cittadino/utente (spesso a scapito dell'efficienza), alla preoccupazione della razionalità organizzativa, dettata dall'esigenza del contenimento dei costi di erogazione e dall'obiettivo di ottimizzazione delle risorse investite, attraverso la standardizzazione del servizio. La tendenza è stata, e continua ad essere, quella di ricondurre le professioni del sociale all'interno delle regole dell'economia di mercato, con la conseguente logica nell'allocazione delle risorse investite su di esse.
Questa scelta, apparentemente ragionevole, nasconde in realtà una miopia istituzionale nel considerare le professioni del sociale: essa ègenerata da una cultura del lavoro basata su paradigmi inadatti a leggere la natura e la specificità di queste professioni, rispetto a quelle che operano, invece, nella produzione di beni e servizi per il mercato.
Una prima questione da affrontare è quella di definire che cosa si intende, in questo contesto, per professioni del sociale, tentare di delineare un perimetro, seppur approssimativo e permeabile, di ciò che caratterizza questa tipologia di lavoro. Indipendentemente dallo status contrattuale del lavoratore (sia esso dipendente di una organizzazione pubblica o privata,oppure libero professionista o volontario) la professione del sociale è caratterizzata dall'impiego di competenze con lo scopo di soddisfare le necessità della persona, nella sua natura specifica di individuo in relazione con i propri simili, all'interno del gruppo o della comunità di appartenenza. I professionisti lavorano con la persona come portatrice di bisogni legati al suo rapporto/legame con gli altri individui, in quanto nodo di una rete di consimili e parte di un sistema dinamico di soggetti in costante interazione e influenzamento reciproco. Le professioni del sociale mirano a incidere sui fattori costitutivi del soggetto su cui agiscono, facilitando una evoluzione equilibrata e armonica rispetto alla sua progettualità esistenziale. Educatori, psicologi, insegnanti, mediatori culturali, animatori sociali (per citare alcuni esempi), attraverso la loro competenza, non forniscono servizi di benessere accessori ai bisogni della persona (come nel caso del fisioterapista o del massaggiatore), ma incidono direttamente sul suo progetto di ben-essere in relazione al contesto rappresentato dai consimili di specie. In questo quadro si considerano, dunque, i professionisti del sociale che operano direttamente con utenti/persone e non quelle professioni che, più in generale, studiano i fenomeni del sociale (come ricercatori e sociologi).
Nella definizione di professioni del sociale, si è anche scelto di non includere quelle di tipo strettamente sanitario (spesso associate ad esse) che, anche se presentano strette somiglianze nella loro natura, privilegiano l'approccio restaurativo, tipico della terapia, piuttosto che quello evolutivo, caratteristico della crescita. Tuttavia, molti dei ragionamenti che seguono possono essere applicati anche alle professioni sanitarie.

2. Società, comunità, mercato e professioni

Poiché le professioni del sociale hanno a che fare con la relazione, appare opportuno distinguere i due principali contesti nei quali l'individuo vive il proprio rapporto con gli altri consimili: la società e la comunità. Queste due tipologie di aggregazione sono caratterizzate da diversa natura e fondate su paradigmi differenti, che verranno analizzati di seguito e che, come vedremo, influenzano l'attribuzione di valore alle diverse professioni e il loro status sociale.
Nella società l'individuo partecipa quale titolare di diritti/doveri regolati dalla norma: questa ha valore erga omnes indistintamente, indipendentemente dalla specificità di ciascuno. La relazione e lo scambio tra i cittadini è governato dalla regola convenzionale, sulla base di un legame di natura giuridica, indipendentemente dal legame affettivo che unisce i soggetti. Nella società, quest'ultimo viene espressamente escluso da tale rapporto, in nome di una oggettività che rende tutti i cittadini uguali. Diversamente, nel contesto della comunità, la persona partecipa come portatrice di una relazione significativa, imperniata strettamente sulla componente affettiva, che la lega agli altri soggetti: questo legame possiede nella relazione, anche professionale, una valenza più significativa e determinante del ruolo formale ricoperto dalla persona in quel contesto. Società e comunità, quindi, sono imperniate su due sistemi antitetici di relazione tra esseri umani: la prima vede la norma prevalere sull'affettività, la seconda privilegia la affettività rispetto alla norma. Altra differenza è che la società ha per riferimento principalmente il cittadino come individuo produttore e consumatore di risorse, mentre la comunità si rivolge ad un essere vivente desideroso di sviluppare la propria soggettività all'interno di un contesto di consimili.

La storia occidentale degli ultimi due secoli, a partire dalla prima rivoluzione industriale, ha mostrato il progressivo diffondersi e consolidarsi della società e la sua crescente strutturazione sempre più invasiva nei contesti collettivi e nelle relazionitra persone: nello stesso periodo di tempo, questo trend ha generato la progressiva perdita di rilevanza e di presenza delle aggregazioni umane improntate sulla comunità, relegandole a forme marginali e non riconosciute formalmente. Come afferma lo storico M. Ignatieff, tra i costi generati dalla modernità della società va data per assodata "la perdita dei legami comunitari e di vicinato".
La struttura della società occidentale odierna è figlia di quello che Heidegger definisce Pensiero calcolante, divenuto, secondo il filosofo tedesco, l'unico tipo di pensiero di cui siamo capaci: la razionalità strumentale su cui si fonda, e che ha prodotto la cultura del calcolo e della misurazione, ha portato a considerare il mondo esclusivamente attraverso la categoria egemone dell'utilità di scambio, oggettivamente definita attraverso metriche condivise, trascurando e relegando ai margini della cultura, la comprensione del bello, del vero, del santo come sentimenti soggettivi. Questi fattori sono considerati solo nel caso siano produttori di utile economico (si pensi agli esempi dell'arte e della cultura come business, invece che come semplice godimento soggettivo).
La tecnoscienza, sviluppatasi esponenzialmente con l'avvento della rivoluzione digitale, si è dimostrata l'ancella ideale del pensiero calcolante che, tuttavia, ci trova impreparati (sempre secondo Heidegger), a comprendere pienamente questo mondo, dal quale viene espulso il sentire soggettivo. La razionalità strumentale nasce proprio in ambito economico con l'obiettivo di regolare gli scambi di beni, secondo metriche che si basano su una ragione oggettiva. Non esiste più la soggettività della persona (anche se enunciata enfaticamente nelle dichiarazioni di principio delle istituzioni), ma solo il valore dei beni che si scambiano, poiché la ragione espelle la soggettività e valuta sulle evidenze comuni, sul logos condiviso convenzionalmente da tutti gli individui. Questi principi non sono figli recenti dall'economia di mercato, ma nella nostra cultura li ritroviamo alle origini del pensiero occidentale: già Platone, anticipando questa prospettiva di razionalità, sosteneva che per conoscere è necessario procedere per idee e numeri e non fare affidamento sulle sensazioni corporee.
Oggi, il funzionamento della società si fonda sui paradigmi di progettazione e di controllo dell'insieme e si articola sull'idea semplificatrice di cittadino come entità "media", standardizzata, categoria astratta, indipendente dalle peculiarità individuali.
In questo pensiero, la complessità costitutiva della soggettività della persona, emergente dall'interazione delle componenti biologica, psico-relazionale e spirituale che si manifestano in uno specifico tempo e contesto e che si trasformano lungo l'arco della sua esistenza, è ridotta in una presunta oggettività, di natura esclusivamente giuridica e quantitativa.
La semplificazione si basa sull'assunto implicito che la costruzione della società è dettata dalla necessità di ridurre la complessità della convivenza tra esseri umani, soprattutto quando il loro numero è rilevante, al fine di semplificare il governo dello stare assieme nel medesimo territorio e regolare l'allocazione delle risorse. Regole sociali e valori condivisi hanno lo scopo di contenere la pulsione individuale a soddisfare le proprie necessità in contrasto o prevaricando le necessità altrui: tale evenienza renderebbe problematica la cooperazione tra persone e, quindi, la possibilità della specie di agire proattivamente sul contesto. La società, pertanto, si fonda sulla riduzione condivisa o forzata, della libertà individuale, per contenere la tendenza dell'animale-uomo a soddisfare i propri bisogni, senza considerare quelli altrui.
Nella società, il governo delle relazionisi fonda sul mito della normalità come rappresentazione di sintesi della complessità e sull'illusione di poterla conoscere, definire e guidare attraverso questa semplificazione. In questa operazione il rapporto tra cittadini avviene attraverso la definizione di ruoli sociali (e professionali) codificati e adottando metriche per misurare, circoscrivere, governare le relazioni, al fine di mantenerle all'interno dei confini di ciò che è ritenuto "nella norma", perché funzionale alla sopravvivenza del sistema sociale. Anche le attività professionali sono regolate da un insieme di norme che le definiscono, le legittimano e stabiliscono gli standard sociali per il loro esercizio e determinano, così, la loro rilevanza, anche economica, per la collettività.
Il possesso di competenze specifiche riconosciute, o comunque definite in modo condiviso, è una condizione che consente lo svolgimento di gran parte delle professioni e per questo motivo le società occidentali hanno formalizzato il sistema educativo-scolastico, affinché consenta l'acquisizione regolata e riconoscibile di queste capacità (si pensi ad esempio al lavoro dell'Unione Europea in merito al riconoscimento formale delle competenze in tutti gli Stati aderenti).
La società basata sulla norma ha favorito lo sviluppo dell'economia di mercato che, a sua volta, ha consentito il consolidarsi della società stessa, secondo un loop di auto rinforzo e di legittimazione reciproca. In particolare, l'economia di mercato, costruita sul pensiero calcolante, consente lo scambio di beni di proprietà (e quindi non disponibili liberamente all'uso individuale) attraverso metriche che stabiliscono il valore convenzionale e, in questo modo, regolano la transazione. Contrariamente a quanto promesso dal concetto di "libero mercato", paradigma chiave in gran parte delle teorie economiche contemporanee più diffuse e popolari, ci troviamo in presenza di un contesto in cui regole e vincoli, seppure non sempre esplicitati con la forza della norma codificata, nei fatti rappresentano un condizionamento allo scambio e ne determinano gli esiti.
La logica mercantile determina anche l'esercizio delle professioni in generale, dove l'attività lavorativa ha assunto il carattere di merce di scambio, soggetta alle stesse regole che condizionano la transazione dei beni di consumo. Anche le professioni dell'immateriale (e, quindi, del sociale) sono soggette a questi vincoli e la conoscenza, incorporata nella competenza professionale, diviene un valore di mercato che cresce con il decrescere della sua disponibilità.
Il valore di una attività lavorativa è determinato dal peso che le viene attribuito della società che, così, quantifica il valore di scambio della prestazione professionale :nel processo di definizione del valore, le attività di utilità sociale, che la professione eventualmente genera, sono riconosciute solamente se soddisfano le regole della domanda/offerta. Non è sufficiente che una professione consenta di soddisfare bisogni rilevanti per la vita sociale e la coesistenza degli individui: è indispensabile che ciò venga realizzato rispettando i criteri economici di efficacia ed efficienza e di scambio.
L'accettazione acritica del paradigma della domanda e dell'offerta ha generato paradossi per cui, ad esempio, la professione di influencer ha un valore di mercato decisamente maggiore di quella di un ricercatore universitario.
Questa logica è diffusa e condivisa da chi governa le istituzioni e si manifesta nella minore propensione ad investire economicamentesulle professioni utili socialmente, ma che "consumano" risorse, invece di generare profitto: purtroppo, questa cultura del lavoro è anche diffusa nella maggioranza della popolazione che considera "normale" che un giocatore di calcio percepisca un compenso ben più elevato di un insegnante o di un mediatore culturale. Il valore di una professione, quindi, è determinato esclusivamente dalla logica del mercato e non dalla sua rilevanza per il benessere psico-sociale.

Un ulteriore elemento di riflessione deriva dalla constatazione che molte istituzioni, prive di una visione sistemica della complessità del sociale, hanno privilegiato incondizionatamente l'economia di mercato di tipo liberista o neoliberista, sostenendo politiche tese a supportare, come priorità, la produzione economica e il lavoro come fonte di reddito per il consumo, piuttosto che politiche tese a potenziare il Welfare sociale dei cittadini e il benessere psico-sociale. Anche i provvedimenti adottati per il sociale, sono caratterizzati dall'aziendalizzazione dei servizi dedicati, con l'introduzione di criteri e di parametri di efficacia/efficienza tipici delle organizzazioni profit. Si veda, a tale proposito, l'aziendalizzazione della sanità: la legittima aspirazione alla razionalizzazione delle attività professionali, ha portato alla definizione di regole, procedure, tempi, che molto spesso rendono inadeguata l'attività di cura e di presa in carico della persona nella sua dimensione globale e non solo in quella di paziente portatore di un sintomo. Così l'attuale organizzazione della sanità, anch'essa figlia del pensiero calcolante, ha accentuato la componente tecnica nella relazione con il malato, dove l'investimento sulla tecnologia, sempre più evoluta e performante, è utilizzato per intervenire, in ottica riparatoria, su un corpo portatore di sintomi: contemporaneamente si è progressivamente ridotto l'investimento sulla relazionedi presa in carico dell'individuo in disagio, portatore di una complessità unica e non standardizzabile. Appare evidente che se il principio dell'economia di scala si adatta coerentemente all'acquisto di beni strumentali, come i farmaci o i presidi sanitari, esso sia inadeguato a regolare la relazione professionale e umana tra terapeuta e malato.
Il sistema scolastico è un ulteriore esempio di questo paradosso: l'organizzazione per materie e per tempi pianificati, il proliferare di procedure e di vincoli formali (imposti non solo dall'istituzione preoccupata dell'azione di controllo, ma spesso pretesi anacronisticamente dai lavoratori per difendere privilegi sindacali), portano ad un agire didattico che considera lo studente una mente da riempire di contenuti nei tempi prefissati, piuttosto che una persona da supportare nella progettazione del proprio futuro nella società. Anche in questo caso la razionalità strumentale della relazione a ore, tra docente e studente, riduce drasticamente l'efficacia del professionista nel conseguimento dell'obiettivo educativo.

3. Specificità delle professioni del sociale

Gli esempi appena citati consentono di ampliare il ragionamento per evidenziare alcune differenze costitutive esistenti tra professioni del sociale e professioni di mercato. Come vedremo, è proprio tale diversità, ignorata dalle istituzioni, che genera l'attuale stato di crisi su cui stiamo riflettendo.
Qualsiasi attività professionale che abbia come oggetto la produzione di beni o di servizi di utilità accessoria per la persona (che, quindi, non intervengano nel supportarla e nel renderla autonoma nella sua dimensione relazionale, come fanno le professioni del sociale), si inserisce adeguatamente nel contesto della società di mercato, poiché le esigenze di misurazione e di attribuzione di valore sono possibili senza eccessiva difficoltà. Esse risultano coerenti con l'esercizio del pensiero calcolante e sono pertanto facilmente gestibili dalla società e valutabili secondo le metriche e gli strumenti della razionalità strumentale.
In queste professioni le competenze di processo sono sufficienti ad esaurire lo scambio tra professionista e cliente/utente. Le competenze di processo sono le conoscenze e le abilità che consentono di realizzare il prodotto oggetto di scambio o il servizio nella sua natura di bene fungibile: ad esempio, nel caso di un produttore di scarpe è ciò che consente di ottenere l'oggetto per il mercato. Analogamente un tassista impiega un ventaglio di capacità strumentali che lo mettono nelle condizioni di portare i clienti a destinazione, utilizzando la propria auto.
Da che cosa deriva la relativa facilità di gestione dello scambio professionale in queste attività? In questi contesti la qualità e la significatività della relazione tra professionista e fruitore del bene/servizio ha una rilevanza modesta nella percezione della qualità del prodotto e nell'attribuzione del valore di scambio. Ciò che è considerato come centrale e determinante è il valore percepito del bene o dell'attività di servizio in sé, cosa questa relativamente indipendente dal professionista e dalla modalità di erogazione. Se si desidera acquistare un paio di scarpe giudicate confortevoli e il loro prezzo è ritenuto conveniente, lo scambio avverrà anche se il venditore non è particolarmente simpatico.
Le competenze di processo, inoltre, sono facilmente quantificabili e misurabili, al pari dei materiali utilizzati per la produzione di un bene: metriche come il tempo impiegato o l'intensità della conoscenza insita sono elementi quantificabili e utilizzabili per definire il valore di scambio. Per questo motivo le professioni che si basano esclusivamente su questo tipo di competenze sono facilmente catalogabili e regolabili nella società di mercato, mediante gli strumenti contrattuali utilizzati attualmente.
La natura delle professioni del sociale le pone in un piano di differenza costitutiva da quelle di mercato, che genera una difficoltà di comparazione: è proprio la loro natura che rende le prime inadatte ad essere regolate con le metriche dalla società di mercato, attraverso gli strumenti elaborati della razionalità strumentale.
Le professioni del sociale sono attività operanti in un ambito a complessità dinamica (quello delle relazioni umane), ben più articolato di quello caratterizzante le professioni di produzione di beni o di erogazione di servizi tradizionali. Il lavoro del professionista del sociale è determinato da un intreccio di fattori (costitutivo della complessità dinamica) che, oltre a interagire simultaneamente, si influenzano in modo sistemico nella loro azione rispetto al risultato. Essi sono indistinguibili tra loro, in termini di causalità nel processo di produzione dell'esito finale: l'espressione della competenza specialistica del professionista è influenzata dalla modalità di relazione con l'utente e dalla sua soggettività, e queste risentono della natura unica dell'esigenza di cui l'utente è portatore, che viene trattata all'interno di un contesto ambientale specifico e in un momento temporale particolare. L'esito dell'azione del professionista del sociale, quindi, non può essere concepito come un artefatto definitivo (come avviene nelle professioni di mercato secondo un processo lineare, un algoritmo), ma come un fenomeno emergente dalla sinergia di questi fattori: appare evidente l'impossibilità, oltre che di descriverlo, di misurarlo, di valutarlo e di classificarlo secondo le classiche categorie di attribuzione di valore del mercato. Ecco perché diviene arduo il tentativo di standardizzare un intervento professionale, che nella sua azione intercetta la soggettività della persona, in una specificità temporale e contestuale.
Il lavoro nel sociale comporta che il professionista non si possa limitare a possedere e a padroneggiare le competenze di processo (come avviene in tutte le professioni). La complessità dinamica in cui opera e l'intreccio dei fattori che la caratterizzano, determinano l'esigenza che il professionista sia in possesso anche di quelle che potremmo definire le competenze di legame: sono queste che rendono possibile l'efficacia e la finalizzazione delle competenze di processo.
Le competenze di legame costituiscono un insieme di capacità e di atteggiamenti che va oltre le tradizionali competenze relazionali, come la capacità di ascolto attivo, di empatia e di sospensione del giudizio nei confronti dell'interlocutore, che sono spesso inserite nei curricula formativi degli operatori del sociale: esse presuppongono l'utilizzo della compassione, intesa nel senso della tradizione filosofica orientale, come sperimentazione del desiderio del bene nei confronti dell'altro. È la presenza dell'altro nella sfera affettiva del professionista, la vicinanza al prossimo, come sostiene il filosofo Byun-Chul Han, che stabilisce una relazione, un legame, invece che una semplice connessione tra soggetti.
Il professionista del sociale non può limitarsi al possesso e all'esercizio delle competenze di processo, considerando l'utente un altro da sé su cui agire. Senza un'implicazione diretta nella relazione, senza la costruzione di un legame, l'efficacia della attività professionale risulta incompleta: le competenze tecniche dell'agire professionale producono effetti adeguati solo se impiegate dal professionista con la persona e non sulla persona.
Le competenze di legame consentono di agire nella complessità dinamica della relazione professionale, per costruirla-decostruirla-ricostruirla in un processo circolare che rende sinergici e operanti tutti i fattori coinvolti, adattandoli flessibilmente nel loro manifestarsi temporale: esse generano l'energia per il continuo ritararsi sul qui e ora della relazione, che si costruisce nel momento in cui emerge, e per la riprogettazione in itinere dell'azione verso gli obiettivi finali dell'intervento.
Le competenze di legame presuppongono nel professionista un atteggiamento oblativo, di offerta, generato dalla cultura del dono (possibile nella comunità), invece che da quella dello scambio (più frequente nella società). Chi dona non si aspetta uno scambio, un vantaggio, ma è gratificato nel privarsi di qualcosa di significativo per sé, per generare il benessere dell'altro nella prospettiva della compassione: chi dona ha a cuore la relazione, il legame con l'altro e questo assume un valore ben maggiore di quello del bene donato. La cultura del dono, lontana dal pensiero calcolante, non necessita di metriche di misurazione del valore di ciò che viene dato e del risultato che esso produce nell'altro.
È l'intreccio indissolubile tra competenze di processo e competenze di legame che caratterizza l'essenza costitutiva e differenziale delle professioni del sociale e che, oltre a renderle efficaci nell'azione con le persone, le certifica estranee alle metriche del mercato.
Nell'azione professionale non è possibile misurare, quantificare, la qualità e la quantità del tempo dedicato all'altro, predefinire qualità e intensità della relazione, imbrigliare l'azione in procedure e processi pre-definibili misurabili, verificabili e rendicontabili. Non è possibile stabilire a priori il tipo e la durata dell'intervento di un educatore per raggiungere i risultati con una specifica persona o un particolare gruppo di utenti. Per lo stesso motivo da un insegnante non si può pretendere di definire nel dettaglio e anticipatamente il programma e ciò che dovrà attivare con la specifica classe di studenti in un anno di lavoro didattico. Non è un caso che, proprio della scuola, gli insegnanti più apprezzati e di maggior significatività siano quelli disposti ad impegnarsi nell'ottica del dono, senza risparmiare tempo o ridurre l'attività a ciò che è previsto dal contratto di lavoro.

4. Alcune ragioni di una crisi intrinseca

Le considerazioni fin qui espresse spiegano come il paradigma della società di mercato di ricondurre le professioni del sociale alle logiche della razionalità strumentale del pensiero calcolante, abbia accentuato la loro crisi, collocandole in una categoria del contesto sociale che non ha gli strumenti concettuali per valutarne la complessità costitutiva nel produrre benessere per la collettività. Per loro natura, come già spiegato precedentemente, esse sono più connaturate a contesti di Comunità, dove il peso dell'approccio oblativo e del legame relazionale, più che le competenze di processo impiegate, le connotano come professioni
a-mercantili.
Nella logica di mercato, adottata dalla società e dalle istituzioni per attribuire valore alle professioni, è data esclusiva rilevanza alle competenze di processo, perché più facilmente identificabili, misurabili, e valutabili: queste sono oggetto della contrattazione e dell'allocazione delle risorse economiche nei confronti dei diversi settori professionali. Se questa prassi consolidata ha senso e può risultare funzionale per le attività di produzione di beni e servizi, rappresenta una penalizzazione, invece, per le professioni del sociale.
Misurare il valore di queste attività, considerando solamente le competenze di processo (perché facilmente quantificabili) e non considerando quelle di legame (costitutive della professione, ma non categorizzabili con gli strumenti del pensiero calcolante), ha portato al fallimento di tale tentativo, accentuando il disagio degli operatori, con il probabile accentuarsi dei fenomeni di burn-out, ma anche l'insoddisfazione dei fruitori di tali servizi, che non vedono considerati adeguatamente i bisogni di cui sono portatori.
Le istituzioni, perseguendo l'idea di regolare le professionalità del sociale con gli stessi principi degli altri tipi di professione, hanno ignorato l'importanza delle competenze di legame: si è prodotta, così, un'offerta di servizi sociali spersonalizzata, esclusivamente basata sulla tecnicalità, con un negligente inaridimento nei professionisti, delle competenze di legame, perché mai valorizzate e richieste espressamente. Queste si sono manifestate, in modo non sistematico, solo nei professionisti che per propria iniziativa e disponibilità hanno deciso di operare utilizzandole oblativamente e con spirito di compassione per l'utente, seppure non fossero richieste dal vincolo contrattuale.
L'assenza di attenzione alla dimensione del legame, nei servizi sociali gestiti dalle istituzioni, ha generato un fenomeno collaterale di accentuazione dell'offerta da parte di nuovi professionisti e organismi che si propongono privatamente, in alternativa alle istituzioni pubbliche, nell'erogazione di questi servizi.
Oblatività e compassione spesso agite da questi soggetti extra istituzionali, possono spiegare l'apprezzamento ottenuto da persone impegnate nel sociale, magari prive di competenze professionali specifiche riconosciute formalmente e che agiscono nel contesto del volontariato. Si pensi a singoli individui, membri di ordini religiosi, appartenenti ad associazioni di vario tipo, che operano nel settore dell'animazione, dell'educazione, della formazione, della crescita personale, al di fuori e in parallelo dei canali istituzionali pubblici che si occupano del sociale. Questi vengono vissuti dagli operatori istituzionali (che fanno riferimento ad enti e organizzazioni specifici dai quali ricevono le risorse) come competitori irregolari, poiché non possiedono sempre le competenze riconosciute formalmente che, invece, sono loro richieste per poter operare.
Probabilmente la ragione del loro successo e della loro diffusione, oltre che del loro apprezzamento da parte degli utenti coinvolti, deriva proprio dall'aver accentuato maggiormente questa dimensione di oblatività e di compassione, proprio perché non interessati e/o non costretti a rimanere all'interno delle regole di mercato.

La crisi delle professioni del sociale è un ulteriore fattore che evidenzia, se ancora ce ne fosse bisogno, la profonda crisi della società fondata sul mercato e resa ancora più critica dalla globalizzazione come processo di omogeneizzazione dei comportamenti umani e delle culture. La centralità della persona, seppure enunciata pomposamente nelle dichiarazioni istituzionali, rimane solo una dichiarazione di principio che si scontra costantemente con scelte istituzionali e individuali generate dalla centralità del mercato nel determinare la vita delle società occidentali. È naturale, quindi, che le professioni che si occupano della persona (come individuo psicosociale appartenente ad un insieme di simili e non come produttore/consumatore votato al profitto) risentano di questa incongruenza e subiscano una penalizzazione per la loro natura a-mercantile.
La crisi delle professioni sociali non appare oggi risolvibile facilmente perché è solo un piccolo segmento di una crisi più generale che è soprattutto culturale.
Forse un piccolo strumento d'azione potrebbe essere quello di accrescere la resilienza degli operatori del sociale, rendendoli consapevoli che la loro professione è solo in parzialmente inscrivibile nella logica del mercato e valutabile e remunerabile con i suoi principi. Accettando consapevolmenteche parte della propria attività sia caratterizzata anche dall'oblatività, dalla cultura del dono ed essendo consapevole che questo agire possa rappresentare in sé un possibile "riconoscimento", che nessun mercato è in grado di quantificare, l'operatore del sociale potrebbe convivere con questa crisi costitutiva della sua professione, eliminando la frustrazione di non sentirsi considerato come iprofessionisti del mercato.
Per far questo è indispensabile cambiare paradigma attraverso il quale considerare la professione e in ciò può venire in aiuto quello che Heidegger, in contrapposizione al pensiero calcolante, definiva pensiero meditante, riflettente, ideativo, creativo: un pensiero senza misura, sovrabbondante, che tiene conto della complessità e delle contraddizioni che essa inevitabilmente porta e che non è limitato da metriche razionali e da algoritmi. È il pensiero che ha generato artisti, poeti, narratori, letterari e, perché no, forse anche i professionisti del sociale.