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Il linguaggio della cultura: in difesa di PSICOPOLIS
(Guido Contessa, 2021) Torna a indice


Il linguaggio della cultura è diverso da quello del commercio e della politica.

Il commerciante e il politico devono vendere, quindi devono farsi capire, sedurre, attirare, convincere. Devono parlare con semplicità alla massa, per farsi capire ed accettare dal maggior numero possibile di persone. Il loro linguaggio deve essere moralista, seguire le regole consolidate, accarezzare il buonsenso comune, esprimersi come si esprime il gruppo sociale cui si rivolge.
Malgrado ciò anche i commercianti e i politici ricorrono spesso a un linguaggio ostico, iniziatico, criptico. L'anglo-tecno-burocratese dilaga. Le metafore e gli acronimi sono figure linguistiche ormai diffusissime sia nella pubblicità che in politica. Il "linguaggio della gente" però è anonimo, e infatti a nessuno interessa conoscere l'autore.

Gli operatori culturali (scrittore, saggista, musicista, performer, pittore, scultore, regista, attore, pensatore, scienziato, ecc.) hanno il solo compito di esprimersi, nella massima libertà possibile, anche se ciò significa provocare, spiazzare, innovare, trasgredire, deludere. Non devono vendere niente, ma solo mostrare. Il linguaggio della cultura non può essere anonimo, ma ha sempre un autore, un soggetto che si esprime come individuo o al massimo come piccolo gruppo.
Spesso avviene che gli operatori culturali neghino se stessi, per presentarsi come venditori o politici. Il che produce a volte un discreto successo, ma anche la condanna all'oblìo della storia.
Quando tutto il mondo adorava le icone bizantine, immobili e impersonali, Giotto si è messo a dipingere persone vere. Quando ancora dominava la pittura neo-classica figurativa, Van Gogh dipingeva sbilenche macchie di colore e Picasso presentava corpi e volti scomposti e tridimensionali.
Quando tutta l'europa colta parlava ancora una specie di latino degradato, Dante si esprimeva con un linguaggio quasi sconosciuto, poi chiamato lingua italiana.
James Joyce ha scritto l'incomprensibile Ulisse, Carlo Marx e Lacan sono talmente oscuri che pochissimi li hanno letti.
Mentre la massa si deliziava con le melodie di Gino Latilla e Claudio Villa, arrivarono un Modugno che urlava di tonnare, Elvis con il rock e i Beatles con le loro magìe. Ai films delle tende e dei divani bianchi, hanno risposto i neo-realisti italiani, cambiando la storia del cinema.

Sicuramente in molti hanno detto a Giotto, Van Gogh, Picasso, Joyce, Lacan, Elvis o De Sica di essere più "popolari", di usare un linguaggio più consueto, di seguire l'onda e farsi accettare dalla massa. Sicuramente qualche esperto del mercato d'arte ha detto a Picasso di passare al figurativismo. Di certo qualche "spin doctor" dell'Ottocento ha detto a Marx che non avrebbe fatto carriera senza senplificare il suo linguaggio.

PSICOPOLIS è un'opera sicuramente definibile come culturale. E' una comunità virtuale di operatori socili; è la simulazione di una città; è un archivio di strumenti e una biblioteca elettronica. E' un'antologia: un'opera multimediale prodotta da diversi autori e da un curatore identificabile. E' un volume di circa 50.000 pagine, con illustrazioni e fonti allegate.
PSICOPOLIS
non vuole vendere niente, pubblicare pubblicità e raccogliere i dati dei navigatori. E'solo l'espressione di singoli esseri umani, con nome e cognome.

Alcuni critici denunciano la presenza di troppi links su una pagina. Li invitiamo a contare i links di una qualsiasi pagina di FaceBook. PSICOPOLIS non è un libro di testo da imparare riga per riga. Di fronte alla pagina il navigatore può scegliere 1/2 links oggi e 1/2 links domani. Nessuno si ferma sulla pagina di un Social per clikkare tutti i links che trova.
Altri critici segnalano la eccessiva lunghezza dei testi: i quali però raramente superano 1/2 pagine. Il linguaggio di una qualsiasi opera culturale richiede un ragionamento, un'articolazione, un'apertura e una conclusione. Certo siamo lontani dai 140 caratteri di Twitter, dagli slogan pubblictari, dalle parole d'ordine dei partiti o dalle 300 parole del "nuovo cinema italiano", ma PSICOPOLIS non cerca pubblico, non fa marketing e non si candida alle prossime elezioni.
Altri critici vorrebbero un linguaggio più semplice, alla mano, meno tecnico. Sono gli stessi che non battono ciglio di fronte agli spot pubblicitari in inglese; non si scandalizzano per i titoli fatti solo di sigle ed acrostici; non obiettano ai discorsi infarciti di tecno-burocratese.
Infine, qualcuno trova difficile la navigazione come trovava difficile seguire il filo di Joyce, vedere le figure in Guernica, trovare la melodia di un concerto jazz. A costoro possiamo solo chiedere di navigare un un qualsiasi sito istituzionale, per fare un confronto.

Certamente oggi PSICOPOLIS non ha l'importanza di un'opera di Giotto, di Dante, di Marx o dei Beatles. Oggi. Chi può dire come sarà valutata fra un secolo?