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La pratica dei gruppi verso l’empowerment di comunità*(Alberto Raviola, 2005) Torna a indice

1. LA COMUNITA’ SOLIDALE

Se noi prendiamo un qualsiasi dizionario della lingua italiana e cerchiamo la parola “SOLIDARIETÀ”, troveremo questa definizione:

IL VINCOLO DI INTERDIPENDENZA CHE UNISCE TRA LORO DETERMINATI SOGGETTI O PARTI DI UN MEDESIMO SOGGETTO; IN PARTICOLARE, L’INSIEME DEI LEGAMI AFFETTIVI E MORALI CHE UNISCONO L’UOMO SINGOLO ALLA SOCIETÀ DI CUI FA PARTE, E QUESTA CON LUI.

VINCOLO DI INTERDIPENDENZA

Ciò significa che ciascun individuo percepisce i propri comportamenti non come assoluti, ma come influenzati, dipendenti, condizionati (e viceversa) da quelli degli altri. Cioè, l’interdipendenza diventa VINCOLO se ci sente appartenenti ad un “campo psicologico”: gruppo, organizzazione, comunità. La si abita se e solo se si riconosce che il proprio mondo interno non è un nucleo compatto e singolare, ma un insieme di elementi e regioni il cui funzionamento non è molto differente, anzi direi , speculare a quello sociale.

Una comunità dunque può essere “solidale” se:

  • non è semplicemente un territorio, ma un insieme di norme e risorse che presentano una storia
  • quella dentro di noi trova un oggetto esterno dove attualizzare il  proprio sentimento di pluralità (identificazione)

LEGAMI AFFETTIVI

La solidarietà si attualizza se nella comunità viene riconosciuta la Sovranità della Legge. In quanto Norma ma soprattutto in quanto Legame.

Non basta la Legge il cui scopo è regolare comportamenti e rapporti che altrimenti sarebbero dominati dalla sola natura. Poiché la Legge in quanto  materializzazione del codice paterno, oggettivazione del Super Io, dispositivo di controllo e mutilazione dell’invadenza dell’Es, non è condizione sufficiente perché la qualità del Legame tra i cittadini sia stretto e solidale.

Il Legame come sovranità del plurale sul singolare è il fondamento della comunità.

Parafrasando E.Jaques, la legge è una risposta alla ansie persecutorie e depressive, perchè la libertà naturale popola i sogni (di individui e collettivi) di nemici e soffoca la vita col sentimento di colpa.

La qualità e la necessità di una Legge si fondano su un LEGAME, una relazione di tipo psicologico. Ciò rimanda alla SOGGETTIVITA’ e al VISSUTO, al vincolo di interdipendenza tra  individuo e comunità.

….E MORALI

Il legame non è solo psicologico, ma anche morale.

Essere generosi (oblatività) e fare bene il proprio mestiere (operosità) sono principi basilari della morale comunitaria (e non solo). La derivazione linguistica del termine comunità da “cum munus” (nel doppio senso di doni e doveri) insieme a “cum moenia” (un territorio con confini e difese) ne è testimonianza.

La comunità come campo di relazioni oblative, dove essere generosi significa, donare, darsi, contribuire senza contropartita diretta. Anche se in realtà la contropartita c’è, sia pure indiretta. Donare alla comunità significa arricchire il con-testo della propria esistenza e dunque investire in qualcosa che ineluttabilmente mi verrà restituito. Partecipare dunque ad un’economia del benessere e del valore d’uso!

Assumere i propri doveri significa essere responsabili. Significa rifiutare la logica persecutoria o depressiva, in favore di una logica di scambio e costruzione.

Solo a queste condizioni la comunità diventa un con-testo, invece di restare semplicemente uno SFONDO. La sola esistenza di elementi strutturali e obiettivi, senza un vissuto di appartenenza, non fa una comunità. La comunità che vorremmo abitare è un contenitore psichico, un organismo collettivo composto da elementi il cui assemblaggio costituisce qualcosa di diverso della pura somma dei componenti.

In questo senso la comunità è ISOMORFICA all’individuo.

Cosa è la psiche se non un arcipelago mutante, un’assemblea, un microcosmo, una repubblica degli affetti, in divenire. La comunità e l’individuo sono una polis, una moltitudine, un collettivo con regole specifiche, costituite da parti capaci di influenzarsi a vicenda. Non è forse un caso che città, moltitudine, lotta abbiano in greco la stessa matrice linguistica (pol-).

Ma oggi le Comunità oggi soffrono di seri problemi di connessione/integrazione fra le parti. Una patologia speculare ai disturbi di connessione/integrazione fra le regioni intrapsichiche e tra queste e l’esterno che colpisce l’individuo. I rapporti faccia a faccia che davano maggiore qualità alle comunità rispetto a quelli anonimi della società, sono spariti sotto il dilagare di un anonimato di tipo urbano.

Droga, criminalità, disoccupazione sono ormai un fenomeno equidistribuito fra le metropoli, le periferie e le piccole comunità.

LA EPOCALE FRANTUMAZIONE DELLE SOGGETTIVITÀ INDIVIDUALI HA UNA SUA SPECULARE PROIEZIONE NELLA DISARTICOLAZIONE DELLE COMUNITÀ.

2.  FENOMENI PROBLEMATICI DI COMUNITA’

Oggi in ogni comunità devastata da una catastrofe, il sentimento più diffuso è la PAURA: del nemico, del contagio, dell’estraneo. Il fatto è che il cerchio perverso della sicurezza risulta vistosamente ristretto all’appartamento, e qualche volta alla propria camera (come testimoniano gli aumentati casi di stragi familiari).

La paura è aspecifica, generalizzata, metafisica e si concretizza via via in ogni oggetto che abbia una parvenza di eterogeneità. Ogni diversità è percepita come potenziale conflitto, ed ogni possibile conflitto è percepito come mortale: di qui la paura e l’orrore. I casi più vistosi riguardano le minoranze etniche, ma questi non sono nemmeno i più diffusi.

La paura riguarda il vicino di casa che ha diverse opinioni; il collega di lavoro che non condivide un progetto;  il conoscente vestito in modo strano. Il potenziale conflitto non viene affrontato e simbolizzato, ma evitato mediante continui comportamenti nevrotici: fuga, sottrazione, evitamento dell’altro, del diverso, dell’eterodosso. Oppure il conflitto viene negato con periodici rituali ossessivi di fusione: allo stadio, nelle discoteche, nelle manifestazioni di piazza, nel turismo di massa.  L’orrore  per la differenza è tale che non viene demonizzata solo all’esterno, ma è repressa anche nel mondo interno. Lo sforzo costante è quello di negare la propria individualità mediante pratiche anestetiche, consolatorie, rassicuratorie, autopunitive, omologanti. Quando il nemico esterno scarseggia, è la paura di sé a diventare centrale. Allora ogni sforzo viene dedicato all’autorepressione, all’autoflagellazione, alla dissimulazione. Gli abitatori della comunità devastata vivono nell’ombra, in costante allarme, tesi continuamente a mimetizzarsi, disposti  a mutilarsi, per via chimica (droghe e alcol) o chirurgica (plastiche e piercing) per non distinguersi. La diversità individuale che, malgrado tutto, tende a dimostrare la sua irriducibilità, si esprime attraverso pratiche rischiose, pericolose, azzardate che non di raro esitano in forme di suicidio dissimulato: gli sport estremi, i massacranti rave parties, il gioco d’azzardo.

La comunità manifesta una pervicace negazione dell’evidenza, costruendo un’immagine di sé del tutto allucinata. Il dichiarato nelle scuole, nei servizi socio-sanitari, negli enti locali, nelle associazioni è che la loro comunità e quella immediatamente circostante sono il migliore dei mondi possibili. La più feroce e distruttiva competitività viene negata e soffocata da slogan inneggianti la cooperazione e il “lavoro di rete”.

Apparenza, dichiarato e illusioni non hanno alcun riscontro nella realtà.

Nessun test di realtà riesce a contenere questa posizione schizoide.

Naturalmente, quando la crisi è profonda e  la comunità di autoassolve, occorre trovare un colpevole all’esterno. Ogni parte della comunità disloca il negativo sulle altre: la scuola funziona male a causa della famiglia; la famiglia è in crisi a causa delle famiglie vicine; i servizi sono messe in difficoltà dall’Assessorato.  E la comunità nel suo complesso disloca il negativo sulle comunità limitrofe o sui soprasistemi: nessun Comune collabora con i Comuni vicini; tutti i problemi della comunità dipendono dalla Provincia, dal Governo, dall’Unione Europea.

La forza con cui la realtà è negata e il nemico esterno reso indispensabile è tale che chiunque provi ad opporvisi rischia la lapidazione. Chiunque facendo lavoro di comunità ha sperimentato pratiche serie di ricerca valutativa, ricerca-intervento, ricerca sui climi organizzativi e comunitari ha fatto l’esperienza del capro espiatorio. Qualsiasi ricerca che metta in luce realtà sgradevoli o rischi di stimolare la consapevolezza dei processi comunitari in atto, ha solo un esito: l’oblio negli archivi più remoti e l’ostracismo perpetuo, quando non la pura ritorsione, nei confronti dei ricercatori o degli operatori responsabili.

La comunità è anche uno scenario privo di futuro; al suo interno si aggirano individui e gruppi il cui orizzonte è schiacciato sulle tribolazioni del presente. Il senso di vuoto radicale è riempito con l’affollamento di impegni quotidiani dei quali nessuno è in grado di fornire una motivazione.Tutto ciò configura un evidente quadro depressivo. Il sintomo più evidente della depressione è la SPARIZIONE DEL FUTURO. Di fronte alla frantumazione, la comunità non reagisce col progetto. L’orizzonte non supera mai l’estate: non si ha notizia (se non in rarissimi casi) di progetti a respiro triennale e tantomeno decennale. La scomparsa del futuro è anche testimoniata dal rapporto ambiguo con le nuove generazioni.

Ad un trionfalistico dichiarato di amore, rispetto e valore attribuiti ai giovani, non esiste comunità che nei fatti non agisca ogni tipo di ostacolo, vessazione o tirannia verso le nuove generazioni. La pseudo-nutritività che estende la giovinezza fino ai 35 anni non è in realtà che una punizione per la colpa dei giovani di abitare il futuro. 

Le comunità soffocano i giovani con la retorica di un amore perverso, che impedisce loro di avere una casa, una famiglia, un lavoro, uno status di cittadino (in definitiva, un’identità autonoma). L’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza sono sottratte alle età corrispondenti e trascinate in avanti, fino alla soglia dei 40 anni. Mentre gli adulti fanno a gara a comportarsi da bambini e ragazzi, i bambini ed i ragazzi veri vengono investiti di responsabilità, senso del dovere, decisioni critiche.

La sparizione del futuro è affiancato dal vuoto del presente.

Impegni, rumori, stimoli visivi hanno raggiunto una dimensione ipertrofica, come una gabbia esistenziale che ha il compito di sostenere simulacri di individui non più capaci di reggersi senza sussidi ortopedici.

La regola è la scarsità del tempo: per parlare, per pensare, per ascoltare.Le riunioni nelle comunità sono sempre più simili a stazioni ferroviarie: gente che va e viene, qualcuno che non si presenta, pochissimi che restano. Il pieno del contesto corrisponde al vuoto dell’attenzione: decine di stimoli e persone con cui si entra in contatto ogni giorno, senza che avvenga alcuna vera esperienza. L’impossibilità di “esserci” e di “essere con” è un altro sintomo della depressione.La depressione è determinista, sottomessa al destino, estranea al costruzionismo.

3. SETTE PRINCIPI PER IL LAVORO DI COMUNITA’

Lo stato psichico delle comunità italiane, grandi e piccole, è in condizioni di grande difficoltà: le Comunità oggi soffrono di seri problemi di connessione/integrazione fra le parti. Una patologia speculare ai disturbi di connessione/integrazione fra le regioni intrapsichiche (nevrosi) e tra queste e l’esterno (psicosi) che colpisce l’individuo.

Le abbiamo considerate per più di 30 anni come capaci di “ autoriparare” i propri guasti e “autosvilupparsi” in una direzione più eugenica che patogena.

In realtà oggi ciò non vale più.

Abbiamo usato la strumentazione della PsicoSociologia (piccoli gruppi) e della Psicologia di Comunità (grandi gruppi e comunità) per scoprire che queste discipline sono insufficienti e richiedono il supporto di una visione PsicoPolitica.

E dunque di una Strategia di Sviluppo Comunitario (a medio lungo termine) che si fondi su alcune indicazioni di METODO (sette), che poi devono trovare una traduzione comunità per comunità.

1.                 il principio della DE-TERRITORIALIZZAZIONE, deve ispirare azioni finalizzate a connettere singoli e le comunità con il maggior numero di realtà esterne. Vanno moltiplicati gli scambi con  altre comunità nazionali e estere. Deve inoltre essere concretamente utilizzata la tecnologia telematica: le reti civiche e il web saranno lo strumento centrale di ogni SSC.

2.                 va sviluppata la REINTEGRAZIONE dei settori; occorre abbandonare la settorializzazione (txd, giovani, alimentazione, hiv, etc.) e agire simultaneamente su più aspetti della convivenza e su più fasce di popolazione. Ogni progetto deve colpire tempo libero e lavoro; sport e assistenza, formazione e socialità, arte ed ecologia, minori e anziani, donne e giovani. Con il maggior numero di innesti e contaminazioni possibili. Se per motivi formali la comunità attinge a progetti e/o finanziamenti afferenti a normative diverse diventa prioritario unificarli nelle fasi operative sul campo.

3.                 il NUOVO VOLONTARIATO INDIVIDUALE deve essere la base sia del ruolo di controllo politico, sia delle equipe di intervento operativo. Gli apicali delle istituzioni e gli operatori sociali interessati parteciperanno come singoli cittadini. Occorre recuperare le infinite risorse individuali inutilizzate e riattivare circuiti di scambio diretto.

4.                 porre la maggiore attenzione ai singoli e ai gruppi meno inclusi: i non utenti, i non fruitori, i non aggregati. INCORAGGIARE I MARGINI E LE PERIFERIE. La reintegrazione di una comunità frantumata richiede la massima distribuzione della leadership e l’inclusione del maggior numero di soggetti “non connessi”. L’elite (professionale e volontaria) tradizionale non va penalizzata, ma deve essere aiutata ad assumere un carattere generativo e promozionale, invece che esclusivo.

5.                 accentuare la dimensione del FUTURO e del PROGETTO; una SSC è un cammino verso l’ignoto, non la gestione dell’ordinario. La frammentazione ha compromesso le funzioni di integrazione dell’identità comunitaria, riducendo le capacità di proiezione nel futuro, di immaginazione e di progettualità di sistema. Occorre lanciare gare di idee sul futuro, effettuare ricerche DELPHI (metodo di ricerca sociale basato su interiste circolari a testimoni esperti, focalizzate sulle  previsioni del futuro), realizzare simulazioni profetiche

6.                 il principale criterio di valutazione di un’azione di SSC deve essere la QUANTITA’ di CONNESSIONI tra PERSONE che favorisce. Un sistema è definito non dai suoi sub-sistemi, ma dalle relazioni fra questi. Sono i legami, le sinapsi, le connessioni che decidono della qualità di un insieme.

7.                 infine una SSC è un cammino di trasformazione intenzionale. Ciò richiede costanti AZIONI DI RIFLESSIVITA’ di tutta la comunità. L’insieme in cammino deve monitorarsi, valutare la sua posizione e il suo movimento, interrogarsi su sé, costantemente. In pratica questo richiede una periodica analisi dei processi a partire da una solida base di dati informativi. Ricerche di sfondo, monitor degli indicatori cruciali, termometri del clima sociale, valutazioni di efficacia sono attività essenziali alla SSC.

 

* da Convegno GRUPPI E RETI DI CURA NEL SOCIALE - Metodologie e pratiche di intervento nelle relazioni di aiuto - UDINE 16-17 Novembre2005
Le idee e le opinioni che incontrate in questa relazione appartengono alla riflessione culturale del gruppo di professionisti dell’immateriale che si riconosce in ARIPS.  In particolare due sono gli scritti ai quali mi sono ispirato: