Tutte le esperienze di apprendimento-cambiamento
sono caratterizzate dall'ambivalenza. Il desiderio si affianca
alla paura, di fronte alla novità ed all'invito a
mettersi in gioco. Nelle situazioni formative volontarie
(cioè non obbligatorie) il desiderio di cambiare-apprendere
viene dichiarato esplicitamente, ma è sempre accompagnato
da affermazioni e/o comportamenti che esprimono resistenze
e difese. Il lavoro principale di ogni operatore del cambiamento
è appunto quello di riconoscere le resistenze/difese,
interpretarle e facilitarne il superamento da parte degli
utenti. Il cambiamento avviene mediante un'alleanza fra
le parti interne di operatore e utente che lo desiderano,
contro le parti interne di entrambi, che lo temono. Una
delle difficoltà maggiori di questo processo consiste
nella forma che assumono le resistenze e le difese. Mentre
il desiderio di cambiare è dichiarato esplicitamente,
esse assumono forme mascherate, indirette, oblique, metaforizzate
che esigono un disvelamento, per diventare coscienti e dunque
superabili.
- Non si può insegnare equitazione a chi
si rifiuta di montare a cavallo. Non si può insegnare
a nuotare a chi non vuole entrare in acqua.
Cosa succede quando in un t-group viene
ripetutamente esplicitato il rifiuto ad avere relazioni?
La difesa sostituisce il desiderio, si fa esplicita, dichiarata,
esente da possibili interpretazioni e disvelamenti, consapevole.
E diventa concretamente rifiuto, diniego, evitamento.
Si crea così un cortocircuito, che rende paradossale
la situazione. Un gruppo di persone riunite con lo scopo
dichiarato di imparare sulle relazioni e sul proprio modo
di relazionarsi, dichiara di non voler esplorare, approfondire,
e nemmeno attivare relazioni che vadano oltre la mera
formalità: stallo, o meglio, scacco alla formazione.
La prima ipotesi che si affaccia alla mente
del formatore è che i presenti abbiano subìto
una qualche forma di coercizione a partecipare. La estraneità
di molto partecipanti, la loro provenienza da diverse
aree, il versamento di una quota, rendono l'ipotesi molto
remota. L'unica pressione che può esserci stata
è attribuibile alle normali interferenze sociali
abitualmente collegate all'apprendimento. Si partecipa
ad un seminario, oltre che per imparare, per competizione
con i colleghi, per evadere dalla routine, per compiacere
un superiore: niente che possa essere considerato come
coercizione.
La seconda ipotesi è che il modello
di relazione culturalmente dominante è quello della
relazione formale, che ogni altra ipotesi sia ignota e,
come tale, considerata assurda, minacciosa, terrificante,
mostruosa. Per relazione formale intendo un tipo di legame
di superficie, sufficiente per i minimi scambi della vita
quotidiana, un legame d'uso per il quale l'Altro è
funzionale per rispondere a esigenze materiali o a bisogni
narcisistici. Questo modello culturalmente dominante esprime
una coerenza con la concezione di un mondo come utensile,
e di un Io che oscilla fra un'arroganza oceanica e un'autostima
minimalista. L'individuo non è più "qualcuno"
che si espande nel legame col mondo e con l'Altro, ma
insieme un "tutto" e un "niente" con
cui nè il mondo nè l'Altro possono avere
scambi significativi.
- Intervista, interrogazione, interrogatorio,
inquisizione.
Il gruppo si apre con una lunga serie di
interviste spontanee a diversi membri. La modalità
viene instaurata spontaneamente, senza un particolare
ordine, ma coinvolge più della metà dei
partecipanti. L'intervista si esprime prima con domande
di ordine sociologico, che gradualemente esplorano anche
la sfera dei significati e dei valori soggettivi. Non
c'è interazione, scambio o reciprocità,
ma solo un'indagine che gradualmente scivola nei toni
dell'interrogazione (maestro-allievo), dell'interrogatorio
(sospettato-poliziotto) e dell'inquisizione (eretico-ortodosso).
Il legame che si istaura con questa forma inquisitiva
è di controllo-potere-dominio. L'interrogante è
il padrone e l'interrogato il servo, e viceversa. Entrambi
si alternano nel godimento del ruolo dominante, non mediante
uno scambio, bensì attraverso un calcolato gioco
di strumentalizzazione. Ognuno dei due attori usa l'altro
come oggetto del proprio sadismo o masochismo. L'interrogazione
è una forma di relazione che risponde a bisogni
psichici regressivi pre-genitali. Milioni di genitori
cercano di usare questa forma di rapporto coi figli ("come
è andata a scuola?") e ne ottengono risposte
evasive o silenzi ("come al solito..."). I genitori
cercano di imporre il loro potere con l'interrogazione
e i figli impongono il loro con la sottrazione. Il solo
risultato che il gruppo ottiene da questa primitiva forma
di sado-masochismo è la emersione di un "giullare"
e di un "nero", che accettano, pur di esistere,
il sarcasmo e la messa la bando da tutti gli altri.
- Gli scacchi e lo stallo
Ogni relazione è un legame che influenza il comportamento.
Senza legame non c'è influenzamento, e senza influenzamento
non c'è legame. L'intervista è una modalità
di evitamento dell'influenza e dunque del legame. Ma quando
un gruppo centrato sulle relazioni collude nel teorizzare
il rifiuto delle relazioni, cosa resta? Una partita a
scacchi che giunge allo stallo fra i partecipanti ed allo
scacco della formazione. Resta il silenzio, carico di
nulla. E i presenti cominciano a pensare che senso ha
restare. L'uscita dalla situazione non è più
un mero pensiero, un'ipotesi, una fuga temporanea, una
difesa da elaborare, ma diventa una prospettiva realistica
e razionale.
- Lo sguardo e il giudizio
Nel silenzio, è attivo lo sguardo. Una forma di
indagine ancora più primitiva del linguaggio. Lo
sguardo consiste di esserci senza darsi, controllare senza
rischi, partecipare senza interferire. Non a caso la forma
d'arte della modernità è quella ottica:
foto, cinema, tv. L'unica forma di partecipazione concessa
alle masse nella post-modernità è quella
di guardare: il voyeurismo è l'attitudine privilegiata
della società dello spettacolo. D'altro canto,
l'osservatore giudica senza rischiare ritorsioni e l'osservato
si sente giudicato ma evita che il giudizio sia reso esplicito.
L'osservatore gode di una forma di potere, sia pure mentale.
L'osservato gode di un'altra forma di potere: soddisfa
il suo narcisismo e inibisce l'espressività dell'osservatore.
- L'Altro e il gruppo come sineddoche del mondo.
L'Altro e il gruppo sono la sineddoche del mondo: una
parte che sta per il tutto. E il mondo può essere
inteso come oggetto dai mille colori, plurale, o in bianco
e nero, solo buono o solo cattivo. Gli individui concepiscono
il mondo esterno a colori, in bianco o in nero a seconda
di come sentono il loro mondo interno. Chi pensa al mondo
colorato, lo considera un bosco pieno di risorse come
di pericoli, un luogo da esplorare con curiosità
e prudenza, uno spazio da attraversare con rispetto ma
anche da migliorare con fatica, una fonte di ricchezza
da estrarre e insieme un organismo da curare. L'altro
"colorato" è un compagno di avventure,
un complice nel viaggio della vita, a volte un avversario,
a volte un sodale, anche un nemico: comunque qualcuno
che contribuisce alla pienezza del mio essere qualcuno,
e che mi consente di contribuire alla pienezza del suo
essere qualcuno.
- Non si impara qualcosa che si pensa di sapere
già
Chi ha del mondo interno un'idea oceanica, contenente
tutto il bene possibile, considera il mondo esterno e
dunque l'Altro, come minaccia costante, straniero ostile,
jungla pericolosa. Se tutto il bene è contenuto
in me, non ho interesse a spartire alcunchè. Se
il mondo è il nemico, meglio non avere scambi.
Nessuno e niente ha e può darmi qualcosa di buono.
Il negativo o l'insignificate che mi circonda può
solo darmi veleno, violenza o virus. Il contagio che l'esterno
può portare al mio interno va evitato con forme
drastiche di profilassi. La prima dei quali è la
colonizzazione. Conquistare, controllare, dominare il
mondo e l'Altro sono forme di prevenzione dal contagio.
Tuttavia questa forma non è senza rischi: nella
lotta coloniale potrei anche perdere. E allora entra in
campo la seconda forma di profilassi: l'evitamento. La
castità è la forma più sicura di
prevenzione dell'AIDS. L'evitamento della relazione è
ancora più sicura della castità e funziona
come prevenzione dal contagio di ogni malessere, fisico
e psichico. La "castità delle emozioni",
una specie di castrazione psichica auto-indotta, si fonda
sull'assunto che il soggetto non ha nulla da ricevere
e nulla da dare. L'anoressìa affettiva caratterizza
ogni ipotesi di relazione, che si ferma allo stato formale-funzionale:
"che tempa fa? passami il sale..." Non ha senso
cercare di imparare qualcosa, e nessuno ti può
insegnare qualcosa, se pensi di sapere già tutto.
- Voracità e tossicodipendenza
Il rovescio della concezione oceanica del sè e
diabolica dell'Altro, è la concezione del sè
come vuoto e del mondo come seno. Il mondo, il gruppo,
l'Altro sono pieni, onnipotenti, invidiabili, depositari
illegali di tutto il bene che mi manca. Il mio mondo interno
è una landa desolata, un deserto post-atomico,
un neonato piangente che sopravvive solo succhiando il
seno del mondo (e il senso dal mondo). La tossicodipendenza
è la metafora della concezione dominante circa
le relazioni nella tarda modernità. Il soggetto
vuoto deve riempirsi di sempre maggiori dosi di chimica,
che non servono a crescere o cambiare ma solo a "mantenere".
Il mondo diventa un grande seno e l'individuo si estingue
nell'oralità. Succhiare, mangiare, mettere dentro
diventano attività esclusive senza riuscire mai
ad estinguere la sete, la fame, il vuoto che caratterizza
il soggetto della voracità. La bulimia affettiva
è la faccia speculare dell'anoressìa emotiva.
Nel gruppo, è un infinito chiedere aiuti, spiegazioni,
chiarimenti, insegnamenti che non bastano mai, perchè
nulla è finalizzato a cambiare, ma tutto solo al
temporaneo sollievo.
- La libertà? Fuga o crimine (o più
normalmente, pietrificazione).
Nel silenzio dello stallo, di fronte allo sguardo inquisitore
del gruppo, quando il mondo è la minaccia e l'Altro
si sottrae alla voracità, si riducono vicino allo
zero gli spazi di libertà e di invenzione nei comportamenti.
Nessuno pensa a cambiare qualcosa, giocare un altro gioco,
mandare massaggi di apertura o fare scambi di pace. Nessuno
apre le porte e le finestre, rischia di scendere in piazza,
si offre al contagio.
Alla mente si affacciano due sole opzioni. La prima e
più diffusa, ma più terrificante, è
quella del crimine. Qualsiasi cosa farò o faranno
sarà inutile, aggressiva, nefasta, criminale: se
io sono vuoto non posso produrre che vacuità o
violenza; se il mondo è cattivo non può
che aggredirmi. Il fantasma che si aggira e paralizza
tutti, è quello del crimine. Il giudizio degli
altri non può che essere una condanna: per loro
malvagità o per mia colpa. Nessuno è sfiorato
dall'ipotesi che ci si possano "scambiare doni",
tutti paventano lo scambio di "ferite". La frase
"Non contano gli schiaffi che diamo, ma i baci
che non diamo" lascia esterrefatti
per la sua incongruenza con la cultura circolante, nel
gruppo e nel mondo.
La seconda ipotesi, più realistica, è quella
della fuga. Andarsene, togliere il disturbo, è
il comportamento più socialmente accettato, più
"educato", meno rischioso in quanto meno soggetto
a ritorsioni. Inoltre la fuga è la "profezia
che si autoavvera". Chi scappa trova conferma alla
propria visione del mondo: andare via è scampare
a un pericolo mortale, ed insieme togliere dal mosaico
una tessera priva di valore. Ma anche chi resta, viene
aiutato da chi scappa a mantenere inalterata la propria
concezione: fuggire è tradire, lasciar andare via
è la prova della malvagità del mondo. Se
il crimine è terrificante, la fuga richiede coraggio,
perchè disocculta il gioco, manifesta l'impasse,
esprime un'impossibilità ad uscire dallo stallo.
Per questo la scelgono solo in due.
Gli altri restano e continuano e finiscono l'esperienza,
all'ombra della ripetuta dichiarazione: "non voglio
avere relazioni, se non formali". Cui si accompagna
il comportamento oggi più normale e diffuso. Un misto
di pietrificazione, stupore, stordimento e narcosi come
quello che prova chi è stato colpito da un fulmine;
chi ha sollevato un velo, vedendo un mostro; chi ha messo
l'occhio al telescopio, e ha visto morire una stella. |