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Quando le difese
sono rifiuti espliciti (Guido
Contessa) Riflessioni su un t-group di questi tempi |
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le esperienze di apprendimento-cambiamento sono caratterizzate dall'ambivalenza.
Il desiderio si affianca alla paura, di fronte alla novità
ed all'invito a mettersi in gioco. Nelle situazioni formative volontarie
(cioè non obbligatorie) il desiderio di cambiare-apprendere
viene dichiarato esplicitamente, ma è sempre accompagnato da
affermazioni e/o comportamenti che esprimono resistenze e difese.
Il lavoro principale di ogni operatore del cambiamento è appunto
quello di riconoscere le resistenze/difese, interpretarle e facilitarne
il superamento da parte degli utenti. Il cambiamento avviene mediante
un'alleanza fra le parti interne di operatore e utente che lo desiderano,
contro le parti interne di entrambi, che lo temono. Una delle difficoltà
maggiori di questo processo consiste nella forma che assumono le resistenze
e le difese. Mentre il desiderio di cambiare è dichiarato esplicitamente,
esse assumono forme mascherate, indirette, oblique, metaforizzate
che esigono un disvelamento, per diventare coscienti e dunque superabili.
Cosa succede quando in un t-group viene ripetutamente esplicitato il rifiuto ad avere relazioni? La difesa sostituisce il desiderio, si fa esplicita, dichiarata, esente da possibili interpretazioni e disvelamenti, consapevole. E diventa concretamente rifiuto, diniego, evitamento. Si crea così un cortocircuito, che rende paradossale la situazione. Un gruppo di persone riunite con lo scopo dichiarato di imparare sulle relazioni e sul proprio modo di relazionarsi, dichiara di non voler esplorare, approfondire, e nemmeno attivare relazioni che vadano oltre la mera formalità: stallo, o meglio, scacco alla formazione. La prima ipotesi che si affaccia alla mente del formatore è che i presenti abbiano subìto una qualche forma di coercizione a partecipare. La estraneità di molto partecipanti, la loro provenienza da diverse aree, il versamento di una quota, rendono l'ipotesi molto remota. L'unica pressione che può esserci stata è attribuibile alle normali interferenze sociali abitualmente collegate all'apprendimento. Si partecipa ad un seminario, oltre che per imparare, per competizione con i colleghi, per evadere dalla routine, per compiacere un superiore: niente che possa essere considerato come coercizione. La seconda ipotesi è che il modello di relazione culturalmente dominante è quello della relazione formale, che ogni altra ipotesi sia ignota e, come tale, considerata assurda, minacciosa, terrificante, mostruosa. Per relazione formale intendo un tipo di legame di superficie, sufficiente per i minimi scambi della vita quotidiana, un legame d'uso per il quale l'Altro è funzionale per rispondere a esigenze materiali o a bisogni narcisistici. Questo modello culturalmente dominante esprime una coerenza con la concezione di un mondo come utensile, e di un Io che oscilla fra un'arroganza oceanica e un'autostima minimalista. L'individuo non è più "qualcuno" che si espande nel legame col mondo e con l'Altro, ma insieme un "tutto" e un "niente" con cui nè il mondo nè l'Altro possono avere scambi significativi.
Il gruppo si apre con una lunga serie di interviste spontanee a diversi membri. La modalità viene instaurata spontaneamente, senza un particolare ordine, ma coinvolge più della metà dei partecipanti. L'intervista si esprime prima con domande di ordine sociologico, che gradualemente esplorano anche la sfera dei significati e dei valori soggettivi. Non c'è interazione, scambio o reciprocità, ma solo un'indagine che gradualmente scivola nei toni dell'interrogazione (maestro-allievo), dell'interrogatorio (sospettato-poliziotto) e dell'inquisizione (eretico-ortodosso). Il legame che si istaura con questa forma inquisitiva è di controllo-potere-dominio. L'interrogante è il padrone e l'interrogato il servo, e viceversa. Entrambi si alternano nel godimento del ruolo dominante, non mediante uno scambio, bensì attraverso un calcolato gioco di strumentalizzazione. Ognuno dei due attori usa l'altro come oggetto del proprio sadismo o masochismo. L'interrogazione è una forma di relazione che risponde a bisogni psichici regressivi pre-genitali. Milioni di genitori cercano di usare questa forma di rapporto coi figli ("come è andata a scuola?") e ne ottengono risposte evasive o silenzi ("come al solito..."). I genitori cercano di imporre il loro potere con l'interrogazione e i figli impongono il loro con la sottrazione. Il solo risultato che il gruppo ottiene da questa primitiva forma di sado-masochismo è la emersione di un "giullare" e di un "nero", che accettano, pur di esistere, il sarcasmo e la messa la bando da tutti gli altri.
Ogni relazione è un legame che influenza il comportamento. Senza legame non c'è influenzamento, e senza influenzamento non c'è legame. L'intervista è una modalità di evitamento dell'influenza e dunque del legame. Ma quando un gruppo centrato sulle relazioni collude nel teorizzare il rifiuto delle relazioni, cosa resta? Una partita a scacchi che giunge allo stallo fra i partecipanti ed allo scacco della formazione. Resta il silenzio, carico di nulla. E i presenti cominciano a pensare che senso ha restare. L'uscita dalla situazione non è più un mero pensiero, un'ipotesi, una fuga temporanea, una difesa da elaborare, ma diventa una prospettiva realistica e razionale.
Nel silenzio, è attivo lo sguardo. Una forma di indagine ancora più primitiva del linguaggio. Lo sguardo consiste di esserci senza darsi, controllare senza rischi, partecipare senza interferire. Non a caso la forma d'arte della modernità è quella ottica: foto, cinema, tv. L'unica forma di partecipazione concessa alle masse nella post-modernità è quella di guardare: il voyeurismo è l'attitudine privilegiata della società dello spettacolo. D'altro canto, l'osservatore giudica senza rischiare ritorsioni e l'osservato si sente giudicato ma evita che il giudizio sia reso esplicito. L'osservatore gode di una forma di potere, sia pure mentale. L'osservato gode di un'altra forma di potere: soddisfa il suo narcisismo e inibisce l'espressività dell'osservatore.
L'Altro e il gruppo sono la sineddoche del mondo: una parte che sta per il tutto. E il mondo può essere inteso come oggetto dai mille colori, plurale, o in bianco e nero, solo buono o solo cattivo. Gli individui concepiscono il mondo esterno a colori, in bianco o in nero a seconda di come sentono il loro mondo interno. Chi pensa al mondo colorato, lo considera un bosco pieno di risorse come di pericoli, un luogo da esplorare con curiosità e prudenza, uno spazio da attraversare con rispetto ma anche da migliorare con fatica, una fonte di ricchezza da estrarre e insieme un organismo da curare. L'altro "colorato" è un compagno di avventure, un complice nel viaggio della vita, a volte un avversario, a volte un sodale, anche un nemico: comunque qualcuno che contribuisce alla pienezza del mio essere qualcuno, e che mi consente di contribuire alla pienezza del suo essere qualcuno.
Chi ha del mondo interno un'idea oceanica, contenente tutto il bene possibile, considera il mondo esterno e dunque l'Altro, come minaccia costante, straniero ostile, jungla pericolosa. Se tutto il bene è contenuto in me, non ho interesse a spartire alcunchè. Se il mondo è il nemico, meglio non avere scambi. Nessuno e niente ha e può darmi qualcosa di buono. Il negativo o l'insignificate che mi circonda può solo darmi veleno, violenza o virus. Il contagio che l'esterno può portare al mio interno va evitato con forme drastiche di profilassi. La prima dei quali è la colonizzazione. Conquistare, controllare, dominare il mondo e l'Altro sono forme di prevenzione dal contagio. Tuttavia questa forma non è senza rischi: nella lotta coloniale potrei anche perdere. E allora entra in campo la seconda forma di profilassi: l'evitamento. La castità è la forma più sicura di prevenzione dell'AIDS. L'evitamento della relazione è ancora più sicura della castità e funziona come prevenzione dal contagio di ogni malessere, fisico e psichico. La "castità delle emozioni", una specie di castrazione psichica auto-indotta, si fonda sull'assunto che il soggetto non ha nulla da ricevere e nulla da dare. L'anoressìa affettiva caratterizza ogni ipotesi di relazione, che si ferma allo stato formale-funzionale: "che tempa fa? passami il sale..." Non ha senso cercare di imparare qualcosa, e nessuno ti può insegnare qualcosa, se pensi di sapere già tutto.
Il rovescio della concezione oceanica del sè e diabolica dell'Altro, è la concezione del sè come vuoto e del mondo come seno. Il mondo, il gruppo, l'Altro sono pieni, onnipotenti, invidiabili, depositari illegali di tutto il bene che mi manca. Il mio mondo interno è una landa desolata, un deserto post-atomico, un neonato piangente che sopravvive solo succhiando il seno del mondo (e il senso dal mondo). La tossicodipendenza è la metafora della concezione dominante circa le relazioni nella tarda modernità. Il soggetto vuoto deve riempirsi di sempre maggiori dosi di chimica, che non servono a crescere o cambiare ma solo a "mantenere". Il mondo diventa un grande seno e l'individuo si estingue nell'oralità. Succhiare, mangiare, mettere dentro diventano attività esclusive senza riuscire mai ad estinguere la sete, la fame, il vuoto che caratterizza il soggetto della voracità. La bulimia affettiva è la faccia speculare dell'anoressìa emotiva. Nel gruppo, è un infinito chiedere aiuti, spiegazioni, chiarimenti, insegnamenti che non bastano mai, perchè nulla è finalizzato a cambiare, ma tutto solo al temporaneo sollievo.
Nel silenzio dello stallo, di fronte allo sguardo
inquisitore del gruppo, quando il mondo è la minaccia e l'Altro
si sottrae alla voracità, si riducono vicino allo zero gli
spazi di libertà e di invenzione nei comportamenti. Nessuno
pensa a cambiare qualcosa, giocare un altro gioco, mandare massaggi
di apertura o fare scambi di pace. Nessuno apre le porte e le finestre,
rischia di scendere in piazza, si offre al contagio. |