DA NOTIZIARIO N.16  - settembre-dicembre 1983

Il prossimo dicembre si concludono 5 anni di vita dell’ARIPS. Quando i fondatori hanno dato vita  all’associazione si erano dati proprio 5 anni di tempo per avviare l’impresa. Ora è tempo di verifiche. Il Consiglio Direttivo  ora in carica ha stabilito di  effettuare una verifica ed una valutazione di ampio respiro, che culminerà in un incontro di 2 giorni. All’incontro sono invitati non solo gli operatori ed i soci dell’associazione, ma anche i fondatori, i simpatizzanti, gli ex-soci persi per strada, gli utenti, i clienti. Tutti coloro insomma che hanno o hanno avuto rapporti con l’ARIPS  e che sono disponibili  a dare un loro contributo alla riflessione.

I giorni 16 e 17dicembre, ad orari continuati, si susseguiranno comunicazioni, tavole rotonde e testimonianze alle quali sarà possibile partecipare anche con una breve visita. L’iniziativa non vuole affatto essere celebrativa, ma si propone l’obiettivo del confronto, del test di realtà e della riprogettazione critica. Allo scopo di facilitare il dibattito si è deciso di:

a) effettuare una ricerca di opinioni sull’Arips
b) inviare a tutti gli interessati  un bilancio storico dei primi cinque anni di vita
c) inviare una serie di proposte strategiche per i prossimi anni.

Presentiamo di seguito una lista di tesi e di problemi che consideriamo basilari e crediamo possano costituire uno stimolo alla riflessione.

IL SIGNIFICATO E IL VALORE DI ARIPS di Guido Contessa

Dopo cinque anni di vita di un’associazione è legittimo  interrogarsi sul suo significato e valore. L’Arips è un’associazione privata senza scopo di lucro, priva di finanziamenti, finalizzata alla ricerca psicologica e sociale e organizzata secondo criteri largamente comunitari. Qual è, se ne esiste uno, il senso ed il valore di una simile realtà nella situazione italiana, negli anni ’80?

Si tratta di un’impresa folle, senza futuro fuori dalla realtà, priva di valore? O piuttosto non è un sogno coraggioso, basato su bisogni reali e insopprimibili, come l’autonomia, il bisogno di conoscere e di cambiare l’esplorazione e lo scambio simbolico? Tante volte ci siamo detti che c’è l’Università, che ha il ruolo di studiare le scienze sociali. E che i prodotti scientifici e cultuali  sono sottoposti al mercato, come merci, ed alle sue regole economiche. E che la specializzazione si accompagna  alla professionalità, non al volontariato. E che rasentava l’arroganza voler operare senza agganci, senza padrini,  senza legami con le realtà (partiti, sindacati, gruppi di pressione, poteri pubblici) che fanno la storia. Puntare sul merito  e sull’efficacia, in un’epoca dominata dal valore dell’affiliazione e della sottomissione. E tante volte ci hanno detto che professionalità è d’élite; che la scienza è di pochi: impossibile dunque trasformarle in questioni di gruppo o comunitarie. Ci siamo detti spesso queste cose, oppure ce le hanno dette o fatte capire, magari con qualche smorfia di disprezzo o d’ironia. Malgrado ciò abbiamo continuato per 5 anni ad operare fuori mercato, autofinanziandoci, facendo ricerche ed interventi “di gruppo”, e ricercando di continuo una dimensione comunitaria. Abbiamo sbagliato? Dobbiamo cambiare o continuare?

Rifondare le scienze sociali mediante l’interdisciplinarità

L’associazione è sorta  anche sulla base di una riflessione epistemologica  che concerneva le scienze umane e sociali in Italia. Ci sembrava e ci sembra che il nostro Paese mostri in questo campo ritardi anche maggiori che in altri. Quasi tutta la psicologia e la sociologia italiane si fondano su teorie e ricerche effettuate in altri Paesi ed in tempi abbastanza remoti. Su dieci libri di scienze umane, pubblicati da italiani, nove sono “sulla” psicologia, solo uno è “di” psicologia. La fioritura di pubblicazioni, anche estere, sulle scienze umane presenta a centinaia nuovi “modelli” , riformulazioni, diversi “modi di dire”, ma quante sono i veri avanzamenti teorici e tecnici? Ci siamo dunque proposti di riprendere dall’inizio  il filo della matassa; di rimettere ordine in un mare aggrovigliato di teorie; di rimettere alla prova, oggi e in Italia, molte idee che erano valide  50 anni fa negli USA  o a Londra. Abbiamo iniziato con pazienza un lavoro  storico e teorico, in qualche settore anche sperimentale. Un lavoro appena iniziato, ma che spesso ironicamente abbiamo definito  di “monachesimo laico” identificandoci con i monaci medievali che, per salvare la cultura classica dalla barbarie, si erano messi prima a ricopiarla e poi a reinterpretarla. Non si va molto avanti, in 5 anni, su questa strada; ma qualche idea cominciamo ad averla, almeno sulla direzione da prendere. Questa direzione è l’interdisciplinarità, sia in senso orizzontale (fra psicologia, sociologia, antropologia e i loro derivati), che in senso verticale (fra le scienze umane e la filosofia da una parte, e le scienze fisiche dall’altra).

Il senso di morte delle aggregazioni

Non è certo un caso che, nel periodo degli “anni di piombo”, l’Associazione sia partita da riflessioni  sulla entropia dei sistemi organizzativi. Le aggregazioni umane ci sembrano  (e ci apparivano tanto più allora) come sistemi dissipativi, dominati dall’entropia e dal senso di morte, che si esprimono o sotto forma di disgregazione o sotto forma di repressione. Abbiamo dunque lavorato molto su questi concetti, in teoria, con laboratori sperimentali,  o nella pratica concreta degli interventi organizzativi e sociali. Abbiamo studiato il ruolo dell’invidia  e delle differenze, in questo processo dissipativo; ma abbiamo anche  cercato metodi e tecniche  operative per riconvertire, frenare, oppure  rendere consapevole (e dunque contrattabile) questo destino distruttivo. Le tecniche di creatività e quelle di comunità che abbiamo messo a punto sono un primo passo. Molto resta ancora da fare, ma prima dobbiamo domandarci se questa direzione di ricerca  ha ancora senso  e se non debba essere arricchita e più articolata.

Il lavoro di comunità e la prevenzione

Siamo partiti dallo studio delle organizzazioni  (scuola, impresa, ospedale), poi abbiamo allargato il concetto  di aggregazione fino a comprendere quello della comunità territoriale. Una realtà magmatica, insieme rassicurante e minacciante, poco comprensibile, vissuta come dovere e come desiderio; ma una realtà alla quale vengono assegnati compiti istituzionali (terapeutici, educativi, cultuali). La comunità territoriale è divenuta oggetto di studi teorici e interventi concreti. Ben presto ci siamo resi conto che un intervento  nella comunità territoriale, qualunque sia l’approccio, non può non finalizzarsi al miglioramento della qualità  della convivenza, e quindi non può che essere un intervento di prevenzione. Comprendiamo il rischio ideologico insito in termini come “qualità della convivenza” e “prevenzione primaria”. Ma tale rischio non ci sembra giustificare la rinuncia a considerare  la comunità territoriale come uno spazio di studio e di intervento operativo concreto. Fra l’altro, proprio la sostanza unitaria del concetto, la sua natura di “gestalt”, rende la comunità  un oggetto privilegiato  per uno sforzo interdisciplinare. Tuttavia un oggetto complesso richiede sistemi di studio e di intervento complessi.  Abbiamo le risorse necessarie?

Una comunità che studia la comunità

Abbiamo cercato di fare dell’Arips  una comunità mediante  diversi opzioni. La zona residenziale, l’apertura a tirocinanti, l’invito a “esterni”  a considerare l’Associazione  come un crocevia, l’ammissione temporanea a “presone in crisi”: sono tanti tentativi di fare dell’Arips una comunità, con le stesse caratteristiche della comunità territoriale (magmatica, mutevole,  confusa, turbinosa). Questa scelta ci ha consentito  di usare noi stessi come oggetto  studiabile, significante della comunità territoriale. Tuttavia ci ha condannato ad una condizione poco organizzativa e poco efficiente. A molti amici che cercavano dall’Arips sicurezze e protezione abbiamo invece offerto conflitti, insicurezza e oscurità. E’ stato un errore? Dobbiamo considerare terminata la fase di stato “nascente”  ed istituzionalizzare l’Associazione, oppure continuare a porci come oggetto speculare del nostro oggetto centrale di ricerca? Oppure forse non abbiamo saputo essere abbastanza comunità-movimento, rendendo un peso i pur scarsi segni di organizzazione?

Una cultura dell’evaluation

Una delle maggiori fragilità delle scienze umane, e ancor più degli interventi sociali, riguarda la non-predittività me dunque l’impossibilità ad effettuare verifiche e valutazioni di efficacia ed efficienza. Poiché le scienze umane non sono predittive, gli interventi educativi, terapeutici e sociali vengono effettuati senza alcun sforzo di verifica. Ne risulta che gli interventi sociali, privi di supporti giustificativi, vengono considerati “artistici” e restano in balìa degli umori e dei poteri del momento. A questo stato di cose l’Arips ha cercato fin dall’inizio una cultura della valutazione, non certo delle performance individuali, ma delle qualità e dei dinamismi degli aggregati umani. Il fatto che l’evaluation sia ancora approssimativa, non ci sembra sufficiente a diminuire i modesti tentativi messi in atto finora. Al contrario, crediamo che una cultura della valutazione debba essere sviluppata sui ruoli professionali, sulle organizzazioni sociali e perfino sul territorio. Gli strumenti e le esperienze messe a punto in 5 anni  inducono a pensare che l’evaluation sia una delle chiavi di volta sia dello sviluppo comunitario, sia della rifondazione delle scienze e delle pratiche  sociali.

Un volontariato per la ricerca

Negli ultimi anni il fenomeno del volontariato si è andato sviluppando visibilmente. Oltre alla crisi del Welfare State, tale sviluppo è stato incentivato  da un ritrovato bisogno di solidarietà oltre che da un’esigenza di realizzazione mediante servizi socialmente utili. Ma il volontariato, oltre che una necessità storica ed un imperativo etico, si presenta anche come diritto  dei semplici cittadini, di essere protagonisti compartecipi nelle azioni sociali che più direttamente li riguardano, come la terapia, l’assistenza, l’educazione, la cultura. L’Arips è un gruppo  di ricercatori e operatori volontari, che riafferma per tutti il diritto allo studio, alla ricerca ed alla riflessione sui maggiori problemi individuali e sociali. A fianco delle centinaia di gruppi  che si impegnano volontariamente per “fare” qualcosa, l’Arips vuole essere un gruppo che si impegna volontariamente nello studio e nella ricerca. E’ possibile tutelare ed allargare questo diritto, di fronte alle spinte generalizzate verso la delega alle istituzioni  specializzate, ai chierici della scienza, ai professionisti della “merce” culturale.